Celebrazione del 50° anniversario della Repubblica


Cesena, 07/01/1996


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L’Italia e’ l’unica Repubblica democratica nata in Europa dalla lotta di liberazione dal nazifascismo.
Migliaia di donne e di uomini, di ragazzi e di ragazze sono caduti per costruirla.
Molti non sapevano che cosa sarebbe nato dal loro sacrificio. Non sapevano nemmeno se dal loro sacrificio sarebbe nato qualcosa. Ma questo non impedì loro di lottare.
I più giovani avevano 15 o 16 anni, ma nei campi di Hitler e di Mussolini passarono anche bambini. Furono uccisi, torturati, umiliati. Donne, uomini, bambine, bambini.

Tutto cio'' che la barbarie dell''uomo ha inventato per umiliare e distruggere l''altro uomo, per affermare la stupida arroganza del totalitarismo fu sperimentato negli anni del sangue. Gli anni che videro a Fossoli e a Mauthausen, a San Saba o a Ravensbruck e in altri cento luoghi di sofferenza il primato della barbarie.





Di molti di loro, di questi italiani che per gli altri sacrificarono la vita, non conosciamo neanche i nomi. Sappiamo che molti erano venuti dal nostro Sud. Il segno di un''unità d''intenti che ha attraversato il nostro paese nei suoi momenti più difficili e che nessun egoismo separatista potrà cancellare.



Quella generazione ci ha lasciato una lezione.



Esistono, nella vita, valori che non si comprano e non si vendono. Nella vita di ciascuno di noi si puo'' porre l''alternativa tra dignità e potere, tra dignità e benessere, tra dignità e sicurezza.



Molte cose sono negoziabili. Su molte cose si puo'' senza scandalo cedere. Ma ci sono alcuni valori nella vita di una persona, come nella vita di una nazione, che non si vendono e non si comprano, che non si cedono. Per i quali ci si puo'' mettere in gioco sino a rendere il giorno dell''impegno l''ultimo giorno della propria vita. Anche quando gli altri non comprendono le ragioni e chiedono chi te lo ha fatto fare.



Quante volte i partigiani sono stati circondati da queste domande, il "chi te lo fa fare", il "perche'' lo fai". Quante volte nei cinquant’anni successivi quella domanda e’ stata fatta ad un poliziotto delle scorte, al sindaco di un piccolo comune attanagliato dalle difficoltà quotidiane , al magistrato minacciato nella vita, all’insegnante deluso dalle difficoltà della trasmissione del sapere.



Sono domande banali alle quali non si possono dare risposte semplici, perche'' il solo porle vuol dire che c''e'' una divisione profonda tra chi le riceve e chi le pone. E quante volte si e’ risposto con il silenzio perche'' le scelte di libertà e di dignità non sempre si possono spiegare con le parole.



Nel celebrare la Repubblica ricordiamo tutti quelli che per la Repubblica sono caduti, cinquant’anni fa nella lotta di Liberazione, o ventisette anni fa a Piazza Fontana, o quattro anni fa a Palermo. L’elenco sarebbe purtroppo interminabile. Li ricordiamo perche’ la storia e la politica, esprimono un continuo rapporto tra le generazioni. Perche'' chi vive ha il dovere di riprendere i valori per cui altri sono morti e renderli criteri guida della propria vita.



Il problema per chi combatte una battaglia di libertà non e'' morire.

Il problema e'' finire.

La morte e'' un evento biologico. La fine e'' un fatto ideale. Si finisce quando i valori per i quali ti sei battuto e per i quali sei stato ucciso finiscono con te. Non vivono più. Non trovano altri che li portano avanti, che ne fanno criteri del loro agire.

I vivi hanno questo dovere di fronte ai morti. Non quello di ricordarli in cerimonie. Hanno il dovere di continuare a combattere la loro battaglia.



I cattolici hanno un mistero, quello della comunione dei vivi e dei morti, che si raggiunge con la preghiera. C''e'' un''altra forma di comunione, accanto a questa, ed e'' la comunione nei valori e negli ideali, che non e'' ricordo sterile, ma e'' memoria operante. Entrambe le comunioni sono necessarie, entrambe esprimono il senso di un'' appartenenza a valori comuni che danno un senso compiuto alla vita di ciascuno di noi.



C''e'' un''altra ragione per il ricordo. Solo il rapporto tra le generazioni che si sono succedute nella storia di un Paese puo'' dare a quel Paese il senso della sua identità nazionale.



L’ identità italiana si ritrova ripercorrendo il filo che attraversa i fatti decisivi della nostra storia, lontani e vicini, per scoprire dentro quei valori e dentro quella storia il significato unitario che li rende nostri, riferibili al modo in cui noi italiani sentiamo la nostra appartenenza al Paese.



Noi possiamo essere qui, oggi, uniti e liberi, a ricordare i primi 50 anni della Repubblica perche'' ci fu la lotta di Resistenza.



Richiamarne le ragioni serve a riappropriarci dei valori che la ispirarono. I partigiani, mentre combattevano, non sapevano se avrebbero vinto o perso. Tutto faceva pensare che avrebbero perso. Eppure furono in tanti a combattere. Furono in tanti a cadere, fucilati, torturati nelle carceri, per gli stenti nei lager. Ma furono tanti a prendere il loro posto.



Anche quando sono stati uccisi Emilio Alessandrini e Guido Galli, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, altri hanno immeditamente preso il loro posto. E dopo che sono stati uccisi uomini e donne delle scorte, politici democratici, sacerdoti coraggiosi, altri, nella storia dura della nostra Repubblica, hanno preso il loro posto, senza fiatare, come se fosse una scelta naturale.



Dopo il nazifascismo tante altre volte il sangue, nel nostro paese, ha tentato di schiacciare la storia e la memoria. Le stragi, gli anni del terrorismo, gli anni della mafia.



L’Italia degli ultimi trent’anni, con le sue otto stragi, i circa 13.000 attentati, gli oltre cinquecento morti e’ stata la patria moderna dell’omicidio politico. Possiamo affermare con sicurezza che nessun paese del mondo avanzato ha avuto nel secondo dopo guerra un tasso di violenza politica così elevato.



Tuttavia non possiamo rappresentare la storia della Repubblica come ininterrotta serie di violenze distruttrici o corruttrici.

Ne’ possiamo trasformare il nostro Paese in una immensa aula giudiziaria, dove, come in una laica valle di Giosafat, si misurano le colpe e i meriti di chiunque abbia esercitato una pubblica funzione.



Sarebbe una semplificazione volgare che non coglie la complessità della storia, ne’ i fattori positivi sui quali si fonda la possibilità di costruire, in serenità, il nostro futuro. La storia e la politica devono riappropriarsi di un proprio ruolo autonomo nel giudizio sui fatti e nella ricostruzione della verità.



La giustizia, in una democrazia, ha la funzione decisiva di accertamento delle responsabilità individuali.

Nessuna amnistia, quindi.

Ma la verità, il giudizio sulle responsabilità collettive, la ricostruzione della storia non possono passare attraverso le aule giudiziarie. Passa attraverso le istituzioni politiche, il confronto tra i partiti, la battaglia delle idee, le riflessioni degli studiosi, le opinioni dei cittadini.





Le tragedie hanno rivelato unaa nostra virtù civile. Il coraggio di ricostruire. La capacità di rimboccarci le maniche, di scoprire la solidarietà, di andare avanti, di risorgere.



La nostra virtù civile e’ il senso del dovere nel momento della necessità.



Quando fu trovato il corpo di Aldo Moro, quando vedemmo sui teleschermi la voragine di Capaci o quel palazzo crollato a metà in via Mariano d''Amelio a Palermo, in ognuna di queste occasioni sembrava che tutto fosse finito, sprofondato, che tutto fosse ormai irrimediabile.

Nel settembre del 1982, dopo l''assassinio del generale Dalla Chiesa, una mano scrisse un cartello che diceva "Qui finisce la speranza dei palermitani onesti".

Nei terribili mesi del 1944-1945 qualcuno, dopo aver visto i corpi delle partigiane e dei partigiani abbandonati nella neve, appesi ai lampioni, crocifissi ai pali telegrafici, penso'' forse che era inutile resistere.





Ma dopo ognuna delle tragedie abbiamo avuto la forza di riprenderci, di andare avanti, di ricostruire con tenacia, con la voglia di rialzare la testa, di riaffermare la nostra dignità e il nostro diritto alla libertà.

Il nazifascismo e'' stato vinto. Il terrorismo degli assassini di Aldo Moro e della sua scorta e'' definitivamente sconfitto. Riina, Brusca e molti loro complici sono stati finalmente arrestati.

Molte centinaia di ex mafiosi stanno riconoscendo il primato della nostra legalità e collaborano con la magistratura contribuendo a smantellare le organizzazioni mafiose e a salvare così vite umane.

In migliaia di scuole italiane si studia l’educazione alla legalità e migliaia di ragazzi e di ragazze si formano in modo nuovo sui valori civili di un paese moderno.



Nel 1943 uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento, Benedetto Croce, annotava nel suo diario: “Sono stato sveglio per alcune ore tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, e’ distrutto, irrimediabilmente.”

Contemporaneamente migliaia di altri uomini, la gran parte umili e sconosciuti, impugnavano le armi per ricostruire dignità nazionale, libertà, sviluppo. Essi hanno dimostrato che nella storia dei popoli non c’e’ nulla di irrimediabile, se quei popoli hanno il senso della dignità nazionale.



Il significato profondo della storia dei primi 50 anni della Repubblica sta proprio in questo continuo emergere del senso del dovere dei singoli di fronte a vicende che sembravano schiacciare ogni speranza.



Non siamo, percio’, un paese privo di virtù nazionali o di senso dello Stato.



La verità e’ un’altra. Siamo stati un paese privo, negli ultimi decenni, di una classe politica dirigente capace di tradurre il senso del dovere dei singoli in permanente e generale senso dello Stato.

E’ mancata la capacità di ritrovare nei valori civili degli italiani il filo delle nostra storia in questa seconda parte del Novecento. Ci siamo interrogati giustamente sul perche’ delle stragi, sulle ragioni delle discriminazioni antipartigiane negli anni 50 e nei primi anni 60, sulle corruzioni politiche.



Teniamo ferme queste domande e le relative risposte. Ma cominciamo finalmente a porci altre domande, a darci altre risposte. Che cosa ci ha consentito di stare in piedi, di diventare e restare uno dei paesi più avanzati e più democratici del mondo? di ricostruire ogni volta più e meglio di quanto non si era fatto prima?



Non ci interessa un panegirico degli italiani e temiamo quanto altri un avvitamento nella retorica nazionale.



Ma sappiamo che la transizione italiana dura da troppo tempo. Sappiamo che dobbiamo uscirne. Sappiamo che l’uscita puo’ essere guidata finalmente da una classe dirigente che non impugni il giacobinismo della vendetta ne’ che si faccia garante, magari con più credibilità di altri, del silenzio sulle pagine oscure degli ultimi trent’anni.



L’uscita dalla transizione, l’apertura di una fase di serena operosità puo’ essere guidata solo da una classe dirigente che non si affidi ne’ ai tribunali ne’ alla dimenticanza e faccia leva, in modo potente e coraggioso, sui nostri punti di forza, sulle nostre virtù civili, che faccia diventare il senso del dovere di fronte alla necessità proprio di noi italiani, senso dello Stato nel fare quotidiano.



Questa nuova classe dirigente deve restituire una legittimazione alla politica ed alle sue istituzioni, deve risanare le paludi, deve guadagnare la fiducia eicittadini e eve dare fiducia ai cittadini; deve insegnare a guardare con fiducia al futuro, per mobilitare le energie di tutti, per ricostruire con entusiasmo, per rafforzare la voglia di fare propria di una comunità che si impegna a raggiungere obbiettivi vitali per il proprio avvenire.



I secondi cinquant’anni della Repubblica coincidono con la svolta di fine secolo.



Come ci prepariamo al nuovo secolo. Come superiamo, amici, la storia terribile del Novecento, con le sue due guerre mondiali, con i fascismi e gli stalinismi, con i lagern tedeschi e i gulag sovietici, con gli stupri etnici della ex Jugoslavia.

Ma anche come recuperiamo i valori forti di questo secolo, che ha visto la più straordinaria espansione dei diritti e delle libertà, il più straordinario esplodere delle organizzazioni sindacali e dei movimenti di liberazione delle persone e dei popoli.



E’ un problema di tutto il mondo occidentale, che questo secolo ha contrassegnato con la sua impronta. Ci sono conflitti da chiudere. Scontri da prevenire. Culture, diritti, eguaglianze da sostenere e promuovere. Questo vale per tutti. Ma per noi italiani, che siamo stati in Occidente le principali vittime del bipolarismo, vale molto di più.



Come andiamo avanti, come rendiamo forti i valori per i quali tanti di voi hanno combattuto e tantissimi caddero. Come non restiamo prigionieri di una concezione militare della storia, da usare come lancia eternamente puntata contro il nemico. Come facciamo della storia di questa seconda parte del secolo un aratro di fertilità. Come nella chiarezza, senza ipocrisie, senza giustificazionismi, guardiamo al futuro con le spalle libere dal passato. Come aiutiamo chi ancora di quella vecchia concezione militare della storia e’ vittima, a guardarsi attorno, a rialzarsi, a camminare, a costruire. Come guardiamo alla gente in carne ed ossa di questo secolo, quella che ne ha costruito davvero la storia, i trionfi e le sofferenze.



Il nostro impegno, ora che iniziano i secondi 50 anni della storia della Repubblica deve essere concentrato sull’allargamento delle basi della nostra democrazia.



Solo il 4% dei nostri laureati proviene da famiglie operaie e contadine. In alcune aree del Paese la disoccupazione giovanile tocca il 40%. C’e’ il rischio che molte migliaia di ragazze e di ragazzi non conoscano nella loro vita ne’ la formazione ne’ il lavoro. Queste eventualità, oltre ai drammi individuali, puo’ schiantare la nostra democrazia. Lavoro e scuola, quindi, sono le priorità assoluta in questa svolta dei 50 anni della Repubblica.



La forma dello Stato, accentratrice sino all’inverosimile, giustificata in un Paese che usciva dal disastro della guerra e che aveva bisogno di un forte dirigismo per risollevarsi, costituisce oggi una insopportabile gabbia per singoli, imprese, comunità, enti locali.



Le 50.000 leggi, a fronte delle meno di 10.000 della Francia e della Germania, costituiscono l’effetto ultimo di quel centralismo che oscura la certezza delle regole e dei diritti. In un Paese avanzato, complesso e diversificato come il nostro, il federalismo e’ la faccia moderna della unità nazionale, e’ una forma di Stato elastica e leggera, che aiuta senza schiacciare. Tuttavia il federalismo non puo’ essere inteso come una sorta di puro decentramento regionale del centralismo statale. L’esperienza fallimentare della Regione Sicilia sta ad insegnarlo. Se sostituissimo al centralismo romano 22 centralismi bolognesi, veneziani o fiorentini non credo che ce la caveremmo meglio.



Un federalismo italiano non puo’ essere una copiatura, seppure brillante, della esperienza tedesca o di quella americana. Ogni paese ha la sua storia e quella storia, se non e’ assecondata, si ribella ai vincoli che pretende di imporle la politica.

L’Italia ha, a partire dai primi secoli di questo millennio, nei comuni, nelle città una sua originalità un suo codice di identità. Quando altri costruivano nazioni e Stati, noi costruivamo città in grado di finanziare regni, di sconfiggere imperatori, di conquistare imperi. Girando per le 8.000 città italiane si scoprono tesori, individualità fortemente sentite, storie di di sacrifici e di coraggi che come una grande rete sostengono la nostra idea di Stato e di nazione.



Costruiamo allora dal basso la nuova forma dello Stato. Cominciamo dalle città dando ai loro governi ogni possibile funzione potere e risorsa che serva ad amministrare direttamente la vita della comunità. Pensiamo alla regione come associazione di queste città su un territorio definito dai confini tradizionali. Sosteniamo il sistema comuni, regioni, Stato con il principio di sussidiarietà fissando il principio della coerenza tra poteri, responsabilità e risorse.



Dopo 50 anni cambierà la forma dello Stato. Trovo non sensato lo scontro tra Regioni e Città come se ci fosse un federalismo urbano contrapposto ad un federalismo regionalistico. Il federalismo cambierà tutte le istituzioni politiche: Parlamento, Governo, Regioni, Province e Comuni.

Proprio per questo esso consisterà nella costruzione ed attribuzione di poteri nuovi, non nel semplice spostamento di poteri vecchi.



Di questa riforma si e’ già molto parlato. Bisogna ora passare alla fase 2, quella dell’avvio della costruzione del nuovo Stato attraverso una decisione parlamentare che definisca procedure, sedi, temi e tempi. Spero che prima delle ferie i due rami del Parlamento possano assumere tale decisione.



Nel frattempo deve procedere il lavoro odinario.

Innanzitutto l’occupazione e la scuola. Le giovani generazioni hanno diritto ad una formazione adeguata a farli competere sul mercato internazionale del lavoro con i loro colleghi europei. Hanno diritto, inoltre, ad un ordinamento politico che crei le condizioni per l’occupazione.

Se non pensassimo a queste due priorità, scuola e lavoro, la riforma del sistema politico apparirebbe una schermaglia incomprensibile, estranea agli interessi e ai bisogni degli italiani.



Elenco, poi, in modo puramente esemplificativo, le altre priorità che dovrebbero essere perseguite mentre si lavora alla riforma:



a) decentramento amministrativo e semplificazione amministrativa: ne parla, inmodo che a me par esaustivo, il DPEF approvato dal Governo nella scorsa settimana;

b) dare certezza agli amministratori: penso soprattutto alla cancellazione dal codice penale di quelle disposizioni che impongono alla magistratura un anomalo ed incostituzionale controllo della discrezionalità amministrativa; penso poi all’assurda slavina di controlli che si abbatte sugli amministratori, controlli privi di razionalità, ispirati all’assurdo principio della piena sfiducia nei confronti degli amministratori; i controlli devono essere semplici ed ispirati a favorire il perseguimento degli obbiettivi;

c) e’necessario che ad ogni responsabilità attribuita agli amministratori corrispondano i poteri e le risorse necessarie seguendo il principio della coerenza tra responsabilità, poteri e risorse.



Rispondiamo con la modernità alla istanza eversiva della secessione.



Le grandi svolte istituzionali vanno accompagnate da grandoi svolte culturali e teoriche.

La crisi delle grandi categorie razionali della modernità si e’ manifestata in Italia dalla fine degli anni Sessanta. Il post moderno ha portato con se’ relativismo, instabilità, sfiducia. Alcune gabbie che imbrigliavano la società si sono rotte definitivamente, c’e’ stata più libertà e più capacità critica. Ma oggi sentiamo il bisogno di ricostruire, di non fermarci alla critica; costruire nuove categorie razionali unificanti ed esplicative del reale. Costruire una nuova modernità, fondata sulla possibilità di costruire serenamente il futuro, sulla base di gerarchie di valori comunemente condivise. Questa dev’essere oggi la frontiera del nostro impegno.



L’ Italia, infine, deve liberarsi dalla mafia.

Essa ci impedisce di essere un paese pienamente civile. Abbiamo raggiunto strordinari risultati. Andremo ancora avanti Tutti i grandi latitanti, quelli che ancora restano, saranno assicurati alla giustizia. Le loro ricchezze saranno confiscate; i comuni e le associazioni le useranno per finalità sociali, cosìcome prescrive una legge recentemente approvata.

Ma la legalità della Repubblica non puo’ esaurirsi nell’attività giudiziaria. La Repubblica deve assicurare la tutela giudiziaria dei diritti e delle libertà. Ma deve anche garantire lavoro, scuola, sanità. La Repubblica deve assicurare, nei suoi secondi cinquant’anni, la qualità totale della democrazia.

Noi vinceremo contro la mafia.

Loro reagiranno.

Noi andremo avanti, e vinceremo, come abbiamo vinto il nazismo e il fascismo e come abbiamo vinto le brigate rosse. Gli italiani onesti si impegneranno; noi ci impegneremo.



Non c''e'' in questa scelta alcun merito particolare. Adempiamo a due tipi di doveri: verso quelli che non ci sono più e che sono caduti per noi, verso le generazioni future alle quali abbiamo il dovere di consegnare un''Italia più libera, più avanzata, con più diritti e con meno lutti.

Solo la consapevolezza profonda di questi doveri ed il battersi per essi puo'' dare alla nostra generazione il diritto alla riconoscenza delle generazioni future. E '' lo stesso diritto che hanno acquisito quei ragazzi, quelle ragazze, quelle donne e quegli uomini che ieri furono sterminati e che oggi ricordiamo con rispetto e con orgoglio.

Con rispetto, perche'' sono caduti per noi; con orgoglio, perche'' ci sentiamo loro eredi civili.