Il senso della sicurezza


Torino, 09/26/1997


*** Convegno promosso dal Dipartimento di Psicologia dell''''Università di Torino***


Quando si parla di sicurezza si pensa, in genere, ai pericoli che derivano dalle organizzazioni mafiose e da altre grandi organizzazioni criminali. Ma una politica della sicurezza che guardasse soltanto al grande crimine rischierebbe di accrescere il divario tra cittadini e istituzioni.
Esiste infatti una insicurezza sommersa di molti milioni di cittadini, che sono soltanto telespettatori delle gesta della grande criminalità, ma vengono attaccati direttamente dalla criminalità diffusa.



Di questi delitti resta vittima, prevalentemente, chi è più debole. Gli anziani o i bambini, che non possono opporre resistenza adeguata; i poveri che non possono munirsi di apparecchiature di difesa o che non possono assicurarsi perché il premio dell’assicurazione costa troppo o che non possono ricomprare ciò che è stato loro portato via.



Questa sensazione di insicurezza è spesso superiore ai livelli oggettivi del pericolo e dipende, oltre che da fatti oggettivi, dall’ottimismo o dal pessimismo che in un certo momento pervade il Paese, dalla fiducia nel futuro, dai livelli di tranquillità sociale ed economica, dal peso che i mezzi di informazione danno alla cronaca nera.



Ma questo non vuol dire che l’ insicurezza è solo apparente. Il cittadino si sente insicuro e quindi si comporta come se lo fosse effettivamente. Le sue sceltei sociali, politiche, economiche sono fortemente condizionated da questo sentimento. Una politica della sicurezza è quindi non solo una politica dell’ordine pubblico, ma anche una politica della fiducia, diretta a rasserenare a creare le condizioni oggettive per le quali il cittadino possa nutrire fiducia in sé stesso e nel proprio futuro.





Il tema della microcriminalità è stato tradizionalmente agitato dalle forze conservatrici. Perchè la tutela del patrimonio, oggetto preferito degli attacchi di questa forma di delinquenza, ha costituito un motivo guida dei programmi politici di quelle forze. Ma anche perché il tema della criminalità e la paura del crimine si prestano ad essere utilizzati per far nascere una domanda di riduzione delle libertà civili funzionale alla sterilizzazione delle domande di cambiamento sociale



Tuttavia le altre forze politiche sbaglierebbero a lasciare questo tema al suo attuale carattere underground. E’ ingiusto non dare una risposta a chi si sente indifeso dallo Stato. E’ parziale una politica della sicurezza che guardi solo alla macrocriminalità. E’ sbagliato trascurare gli effetti che una buona politica della sicurezza può avere per il rafforzamento del circuito di fiducia tra cittadini ed istituzioni. Il cittadino è più disposto a dare fiducia a chi dimostra di saper garantire la sua sicurezza quotidiana.



La cosiddetta microcriminalità, vessillo dei ceti moderati sino ai primi anni Settanta, è passata in secondo piano a partire dalla seconda metà di quel decennio, quando cominciò a manifestarsi il terrorismo delle Brigate Rosse. L’esigenza di concentrare le attenzioni su questo drammatico fenomeno, insieme alla crisi del sistema politico che cominciava a delinearsi dopo l’esaurimento del centro sinistra, spinse alla creazione della categoria politica e giornalistica dell’emergenza.

Da allora la politica della sicurezza è stata soprattutto politica di emergenze: terrorismo, omicidi politici, stragismo, mafia, corruzione hanno via via condizionato scelte legislative, priorità finanziarie, direttive dell’amministrazione. Non c’è importante legge antiterrorismo o antimafia che non sia stata approvata dal Parlamento dopo un fatto terroristico o mafioso di particolare rilievo. Ne è stata influenzata anche la legislazione penale ordinaria, quella diretta nei confronti della criminalità comune.

E’ mancata una strategia della sicurezza dei cittadini e ci si è limitati a rispondere “colpo su colpo”, reagendo all’aggressione dell’avversario invece che prevenendo le sue mosse. Ciò ha causato, sul piano generale, un eccesso di repressione cui si è tentato ragionevolmente di replicare con alcuni eccessi di indulgenza.

L’emergenza, restrittiva o indulgenziale, successivamente migrerà anche in altri campi, dall’economia alle questioni sociali, diventando una categoria artificiale dell’agire politico e dell’informazione. Nel passato aveva una sua effettiva ragion d’essere e ha dato alcuni risultati positivi perché ha consentito una concentrazione straordinaria di uomini, mezzi e volontà. I difetti nacquero successivamente, quando, per la pressione degli eventi, per i dissensi nel mondo politico, per l’instabilità dei governi, non si riuscì a stabilizzare la strategia anticrimine elevando lo sguardo anche al di là dell’immediato contingente. Con il passare del tempo la logica dell’emergenza si è rivelata parziale perché oscura tutto ciò che non è immediatamente nel fuoco dell’obbiettivo ed è totalitaria perché non tiene conto delle altre esigenze.





Nel periodo gennaio-maggio 1997 sono stati denunciati, in media, ogni ora, 158 furti e circa 4 rapine. Tra i delitti denunciati nel 1996 risultano non puniti circa il 98% dei furti e l’86% delle rapine.

Dal 1995, inoltre, si registra una inversione di tendenza. Negli anni precedenti c’era una lieve, ma costante, tendenza alla diminuzione: tra il ''93 e il ''94 il calo è stato di circa il 3% per i furti e di circa il 5% per le rapine. Invece tra il 1995 e il 1996 c’è stato un aumento dei furti di circa il 4% e delle rapine di circa il 9%.



E’ interessante considerare che la tendenza alla crescita della criminalità comune interessa solo il centro nord. Nel sud, infatti, per effetto della decisa azione di contrasto alla criminalità organizzata e del maggiore controllo del territorio la tendenza è alla riduzione del numero dei delitti.



Questo significa che la crescita non è inarrestabile e che un ulteriore rinvigorimento dell’azione di contrasto nel centro nord potrebbe fornire risultati positivi su tutto il territorio nazionale.

Tuttavia la criminalità comune ha dimensioni preoccupanti, gode di una considerevole impunità, colpisce le persone più deboli, che avrebbero bisogno di maggiori garanzie, è idonea ad attivare o a potenziare meccanismi di sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. La politica della sicurezza dei cittadini deve perciò affrontarla strategicamente integrando in modo adeguato le priorità che sono tradizionalmente riservate alla criminalità maggiore.



Vanno evitati alcuni rischi.

L’azione contro la microcriminalità deve integrare ma non indebolire l’azione antimafia.

Forti interessi possono premere per frenare le indagini antimafia. Le organizzazioni mafiose italiane hanno un giro d’affari annuo di circa 69 mila miliardi, terzo dopo l’IRI e la Fiat , ed è naturale che intendano condizionare in tutti i modi le evoluzioni della vita politica per trarre il massimo dei vantaggi, primo fra tutti l’impunità.



La proposta dell’integrazione della tradizionale politica della sicurezza con strategie dirette a combattere la criminalità diffusa potrebbe essere utilizzata dagli ambienti mafiosi, e dai loro non disinteressati alleati, per cercare di far dirottare verso un’altra “emergenza”, quella della microcriminalità, uomini, risorse e attenzioni politiche, distogliendole dal versante mafioso. Non di questo si tratta. Non servono nuove “emergenze” destinate ad oscurare quelle tradizionali; anzi, proprio perché non si vogliono nuove emergenze è necessario integrare la tradizionale strategia anticrimine.



Un moderno programma di sicurezza è più complesso e più duraturo rispetto a quelli del passato; è fondato sull’analisi e non sull’emozione; è dotato della indicazione dei tempi, dei costi, dei prevedibili benefici e delle priorità; prevede sperimentazioni idonee a provarne le qualità. Non ha lo stesso significato sgominare una famiglia mafiosa o una banda di ladri di autoradio, ma per la sicurezza dei cittadini non è irrilevante che la polizia si dimostri capace di fermare anche i ladri di autoradio e che la magistratura riesca a condannarli rapidamente.



Il cittadino ha tre principali insicurezze.

Quella che deriva dalla forza del grande crimine organizzato, quella che deriva dagli attacchi della criminalità diffusa e quella che deriva dall’atteggiamento delle pubbliche istituzioni (polizia, carabinieri, magistratura) nei suoi confronti. La strategia deve rispondere a queste tre preoccupazioni.

Alla terza si risponde con un’organizzazione di alcuni uffici di polizia e giudiziari più vicina alle esigenze del cittadino. Chi raccoglie le denunce, specie se per fatti di piccola criminalità, non sempre è stato educato a comprendere che il fatto denunciato, anche se scarsamente rilevante dal punto di vista oggettivo, può apparire molto importante per quella persona e che quella persona ricaverà e trasmetterà un’ immagine delle pubbliche istituzioni dipendente dal modo in cui è stata trattata in quella singola, specifica occasione. Se il ritorno è positivo, quella persona non solo trasmetterà nell’ambiente in cui vive questa sua sensazione, ma sarà un importante tramite sociale della fiducia dei cittadini nello Stato. In alcune città più grandi si potrebbe sperimentare la possibilità di raccogliere in casi determinati la denuncia o la testimonianza di persone anziane o ammalate presso la loro abitazione. In alcuni uffici giudiziari si potrebbero istituire efficienti e cortesi servizi di informazione del pubblico.





Analogo sforzo va compiuto quando il cittadino è accusato di qualche delitto. Il rispetto dei diritti fondamentali della persona alla riservatezza, all’immagine, alla dignità dovrebbe essere sempre assicurato da parte delle forze di polizia e della magistratura. Una pedagogia del rapporto con il cittadino dovrebbe far parte della preparazione professionale di qualunque pubblico dipendente. Questa esigenza è addirittura indilazionabile per i magistrati e gli appartenenti alle forze di polizia che, direttamente o indirettamente, esercitano poteri coercitivi.

In ogni caso dovrebbe essere vietata la “passerella” degli arrestati, strattonati, o costretti a tenere alto il viso davanti alle telecamere o anche obbligati a ripetere la pantomima dell’entrata nell’ufficio di polizia, se qualche importante TV è arrivata in ritardo. E’ avvilente per il cittadino arrestato, è diseducativo per il cittadino telespettatore, induce il poliziotto o il carabiniere a tenere in nessuna considerazione i diritti della persona arrestata. Devo però segnalare che questi episodi si sono considerevolmente ridotti.

Magistratura e polizia devono abituarsi ad agire come servizi per i cittadini piuttosto che come poteri dello Stato. La loro legittimazione non nasce dall’esibizione di potere, ma dalla qualità del servizio che riescono a rendere.



In un’inchiesta della Confesercenti, pubblicata nel marzo 1995, alla domanda: “Secondo lei qual’è la misura più importante ed efficace per migliorare la sicurezza nel suo quartiere?” il 46,7% dei commercianti del Nord, il 57,9% dei commercianti del Centro, il 51,1% dei commercianti del Sud hanno risposto: “Aumentare la frequenza del controllo della polizia sul territorio”. L''effettivo controllo del territorio costituisce la chiave di volta per il contrasto di tutte le forme di criminalità, grandi e piccole. La strada, per la criminalità, è una necessaria infrastruttura produttiva. La città è una cassaforte aperta nella quale la società dei consumi espone le sue merci. La necessità di spostamenti rapidi obbliga all’uso di mezzi di trasporto privati, che restano quasi sempre affidati alla buona educazione di chi è sulla strada. Banche, uffici postali, negozi, supermercati, singoli cittadini sono detentori o trasportatori di danaro o di merci delle quali ci si può impossessare con la violenza o con l’astuzia. I mezzi di trasporto pubblici sono per i taccheggiatori una specie di cassa continua. Diceva un vecchio ladro, che faceva scuola di furto alle Nuove di Torino, ad un giovane magistrato: “ Basta guardarsi attorno, è una meraviglia! Basta scegliere cosa vuoi prendere” e gli si illuminavano gli occhi.

Per limitare l’utilizzazione della città a questi effetti occorre ritornare su una vecchia proposta, quella del poliziotto di quartiere, e sul raccordo, ferme le competenze di ciascuno, tra i servizi di polizia e quelli dei vigili urbani. Il problema va guardato dalla parte dell’utente, al quale non interessano le beghe tra i vari corpi. Interessa che ci sia qualcuno che scoraggi con la sua presenza la commissione di reati e al quale ci si possa rivolgere in caso di necessità.





Il cittadino ha bisogno di sapere se l’azione di contrasto al crimine è il capitolo di una interminabile lotta tra guardie e ladri oppure se sono pensabili modifiche strutturali nel mondo del crimine che gli diano più sicurezza.



Da più parti si indica nell’attacco alle ricchezze la nuova frontiera della lotta contro le organizzazioni mafiose.

Ma siamo ancora lontani dalla elaborazione di una compiuta strategia di attacco. Oggi il sistema antimafia è in grado di aggredire in modo adeguato il versante puramente criminale della mafia ma è in forte ritardo sul versante finanziario. C’è uno scarto tra il processo di modernizzazione che ha investito la mafia ed una certa arretratezza della strategia di attacco. Criminalità mafiosa e grande economia criminale sono due facce della stessa medaglia. Nell’essere capo di un gruppo mafioso sono insite oggi altre qualità rispetto a quelle tradizionali. Il moderno capo-mafia è un “estrattore” di ricchezze con metodi criminali, è un depositante ed un investitore. Non esiste quindi vera azione di sgretolamento di un gruppo mafioso se non si opera anche sul versante finanziario. Le indagini nei confronti delle famiglie mafiose debbono procedere su due binari paralleli e comunicanti, quello che attiene ai fatti criminali e quello che riguarda i fatti finanziari, in modo che alla fine si abbia un quadro completo dell’organizzazione mafiosa e la si possa colpire tanto nella libertà personale degli associati quanto nelle loro ricchezze. Ai collaboratori, i cosiddetti “pentiti”, solo da poco tempo si chiedono notizie dettagliate sul danaro, sui beni, sulle tecniche di occultamento e di riciclaggio.

L’indagine sulle ricchezze nasce ancora oggi solo dopo l’arresto o la incriminazione

di un mafioso per individuare i beni che lo stesso possiede. Ma in un sistema criminale che ha un giro d’affari di circa 69 mila miliardi l’anno è illusorio pensare che l’attacco radicale possa essere condotto indagando sui beni riconducibili alla disponibilità delle singole persone. Infatti si tratterà di beni che in ogni caso rappresentano una quota minima delle ricchezze complessive.



Dal 1982 al 1996, di fronte ad un presumibile giro d’affari di circa 800 mila miliardi, sono stati sequestrati beni per circa 6.200 miliardi e confiscati beni per soli 1.300 miliardi, circa il 21% dei beni sequestrati e circa il 2 per mille del presumibile giro d’affari. Si confisca troppo poco, tanto rispetto al valore effettivo delle ricchezze mafiose quanto rispetto al valore dei beni sequestrati.

Però bisogna registrare due dati positivi. Il primo riguarda la notevole crescita del rapporti tra confische e sequestri. Rispetto al passato si confisca di più e si dissequestra di meno. Il secondo dato riguarda l’inizio positivo dell’applicazione della legge sulla utilizzazione sociale dei beni confiscati, che ha riguardato sinora più di 200 casi, in gran parte appartamenti, ville, parchi, terreni di grande estensione.



Varare un’accurata strategia per un attacco permanente alle ricchezze mafiose non serve solo a recuperare beni immobili e danaro; serve anche a far nascere un sentimento di fiducia nella lotta contro il crimine, a rassicurare i cittadini, a far apprezzare dalle famiglie, dai bambini, dagli anziani l’utilità di un programma che ha fatto aprire case per gli anziani, biblioteche, parchi pubblici perché queste sono le destinazioni che hanno avuto molti dei beni mafiosi confiscati e poi utilizzati socialmente.





Eustache Deschamps, poeta francese del medioevo, così celebrava, forse irridendo, il potere di baglivi e siniscalchi nei confronti degli autori dei crimini più gravi.

Advisez y, baillis et senechaulx

Prenez, pandez, et ce sera bien fet .



L’immagine è quella di una società fortemente penalizzata, nella quale la coercizione assume una funzione centrale per la legittimazione del potere politico, per la rassicurazione dei cittadini e, infine, per la punizione dei criminali. Il tempo trascorso non ha tolto una sinistra attualità a quei versi. Ancora oggi un potere che abbia i problemi di instabilità che assillavano i sovrani francesi prima del consolidamento dell’unità del loro paese, potrebbe dare la stessa indicazione ai suoi funzionari contando sull’effetto emozionale che innegabilmente porta con sé l’esercizio della giustizia penale.

Il nostro è sempre stato un sistema ad altissima penalizzazione. Basti considerare i dati sugli ingressi in carcere che hanno spesso superato le 200.000 unità, le circa 400 leggi penali vigenti nel 1997, l’abitudine, invalsa in Parlamento, di accompagnare quasi tutte le leggi con disposizioni di carattere penale.



La tradizionale debolezza delle politiche strutturali ha fatto il resto, lasciando al diritto penale, che dovrebbe essere residuale, un ruolo centrale nel governo dei fenomeni sociali.

Le questioni di “disordine sociale”, dall’uso di sostanze proibite ai comportamenti privati ritenuti “scandalosi” sono state tutte penalizzate.



La prova dell’eccesso di coercizione è costituita dall’eccesso delle \indulgenze.

Il dato che illustra meglio di ogni altro questa tendenza alla penalizzazione, anche al di là delle strette ragioni di contrasto del crimine, è costituito dal numero di provvedimenti di indulgenza. Dal 1861 al 1992, data dell’ultimo provvedimento di amnistia e indulto, sono stati emessi 333 provvedimenti, nella media di circa uno ogni quattro mesi. Nei primi tumultuosi 38 anni dello Stato unitario, sino al 1899, i provvedimenti sono 130; dagli inizi del secolo sino alla prima guerra mondiale i decreti sono 54; dal 1916 al 1921, vigilia dell’avvento del fascismo i provvedimenti sono 39. Nel corso dei 22 anni della dittatura sono emanati ben 51 provvedimenti. Nel terribile1944 i provvedimenti di amnistia e indulto sono 7. Nell’età repubblicana le amnistie e gli indulti sono 49. In proporzione, l’età repubblicana ha approvato meno amnistie rispetto a qualsiasi altra epoca precedente.



L’indulgenza, proprio perché nella grande maggioranza dei casi riguarda fatti di criminalità ordinaria, diventa un elemento strutturale della nostra politica criminale e denuncia, allo stesso tempo, un eccesso di coercizione che deve tessere temperato da provvedimenti di indulgenza per evitare gravi reazioni sociali.

Un tale volume di atti di clemenza non poteva non trovare la sua ragione in un parallelo volume di atti di coercizione.

Punire e perdonare, per poi riprendere a punire e quindi a perdonare, è la spirale di politica criminale seguita nella storia italiana. I provvedimenti si arrestano al 1992 non per resipiscenza, ma per una modifica costituzionale che impone oggi la maggioranza dei due terzi per approvare provvedimenti di amnistia o di indulto.



Una grave degenerazione delle procedure indulgenziali si è verificata a partire dai recenti anni Ottanta in materia fiscale ed urbanistica. Per far fronte alle necessità di cassa, vari governi, dei più diversi colori politici, hanno fatto ricorso al condono condizionato al pagamento di una somma di danaro nel caso di violazioni fiscali, urbanistiche o edilizie. In sostanza, invece di chiedere l’osservanza della legge a tutti i cittadini, si è offerta la possibilità a coloro che l’hanno violata di conservare i frutti del reato pagando una somma di danaro. La minaccia della pena è stata usata in questi casi non per disincentivare dalla commissione del reato, ma per indurre il colpevole ad un bilanciamento tra i costi della pena ed i benefici del pagamento della somma di danaro che gli consente di conservare gli utili del reato. I provvedimenti, da aggiungere a quelli di amnistia e di indulto, sono stati 14 in materia urbanistica ed edilizia, a partire dal 1985, e 26 in materia fiscale, a partire dal 1944.



Eccesso di indulgenza ed eccesso di penalizzazione sono due facce della stessa medaglia. La mancanza, da sempre, direi, di una stabile politica della criminalità nel nostro Paese.



Anche oggi è necessario sfuggire al rischio di un pendolarismo senza principi, tra repressione e indulgenza, a seconda delle spinte del momento.

Le priorità sono tre: la stabilità politica, il principio di responsabilità nelle classi dirigenti e nella società civile, inteso come coerenza tra doveri e comportamenti, il primato della legalità legato al carattere necessario delle regole e non al peso delle burocrazie.

Le riforme istituzionali e la stabilità politica possono avviare una nuova fase. Il federalismo potrebbe dare una veste stabile e formalizzata al pluralismo istituzionale; l’attribuzione ai cittadini del diritto di scegliere direttamente le proprie maggioranze di governo rafforzerà la stabilità ed anche il senso di responsabilità di chi sceglie e di chi è scelto. La riduzione del numero delle leggi, all’incirca tredicimila nazionali e trentasettemila regionali, ed il miglioramento della loro qualità non potrà che favorire il primato della legalità.

In queste condizioni potrebbe finalmente attuarsi una politica criminale che non sia una comoda scappatoia per acquisire consensi, o per contrastare emergenze, ma uno strumento programmato, efficace ed equo per garantire la sicurezza dei cittadini nei confronti di qualunque attacco.

Gli indirizzi principali di questa nuovo orientamento dovrebbero riguardare la prevenzione del reato, con particolare riferimento alla devianza minorile e giovanile; l’impoverimento delle organizzazioni mafiose attraverso una decisa strategia che porti alla sistematica confisca delle loro ricchezze; la predisposizione di specifiche misure anticorruzione; la riduzione del ricorso al diritto penale, che deve restare un’extrema ratio; la stabilità delle leggi penali e la riduzione e semplificazione dello stock di tutte le leggi esistenti; la protezione delle vittime del reato non solo nei confronti della grande criminalità, ma anche della microcriminalità urbana di tipo predatorio,

Dal punto di vista teorico, infine, occorre correggere la tradizionale, autoritaria, concezione del reato, trasmessaci dal fascismo, che vede nel cittadino leso solo un tramite dell’offesa allo Stato. Una più moderna e democratica concezione presta attenzione anche al cittadino-vittima, che non è un fastidioso accidente nella contesa tra Stato e crimine, ma il titolare di un diritto alla propria sicurezza che lo Stato, anche attraverso gli organi giudiziari e di polizia ha il dovere di riconoscere e proteggere.

Si tratta di far passare la società civile dal ruolo di sorvegliato a quello di garantito. Solo così si romperà quel sottile, ma tenace cordone che ci ha tenuto sinora legati alle concezioni autoritarie del diritto penale e si potrà sviluppare una stabile politica della sicurezza che tranquillizzi i cittadini e ne difenda i beni fondamentali.