Dibattito sul volume “In cosa crede chi non crede” di Carlo Martini e Umberto Eco


Roma, 10/21/1996


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Prendo la parola in questo dibattito con due motivi di imbarazzo.
Prima di me hanno parlato due professionisti di questi temi, e io mi ritengo un dilettante. Dilettante per di più solitario perché preferisco non discutere di queste questioni. In questo contesto, inoltre, dovrei definirmi laico. Ma non so bene che cosa voglia dire. Mentre mi trovo a riflettere di questioni religiose, rifiuto una etichetta, che mi vincolerebbe nei passi successivi, nelle riflessioni successive. Preferisco rifiutare le etichette.
Fissati questi due limiti devo esporre una riserva che definirei di pudicizia come quando si affrontano problemi difficili ritenendo di non averne gli strumenti.
Nel libro che presentiamo, si parla di credenti e non credenti, come se si trattasse di due status, di due condizioni quasi giuridiche, come se fosse riconoscibile la carta di identità del credente e quella del non credente. Io credo che esista la categoria del credente anche se molto varia e articolata, ma contesto senz’altro che esista quella del non credente, come categoria unitaria. Non si può affermare per negazione una categoria. E quando cerchiamo ciò che di positivo c’è, ciò che di sostanziale c’è dentro il mondo di coloro che sono definiti dai credenti come non credenti io credo che si trovano tante varietà non riconducibili ad un comune denominatore. E quindi rifiuto la collocazione nel mondo, nella scatola del non credente. Direi più semplicemente che ci sono gli altri, i quali possono credere di più o di meno, in un certo modo, in un altro, possono avere una idea laica del sacro, ma senza dover essere schiacciati contro un muro sul quale tutti sono uguali. A me dispiace che non ci sia Vattimo, perché avevo guardato, nel preparare qualche riflessione per questa discussione, anche il suo ultimo libro, “Credere di credere”. Mi aveva colpito all’inizio di questo libro la spiegazione del perché l’autore affronta questo tema. Spiega come sia venuta meno una persona a lui cara, una persona che pensava avrebbe dovuto accompagnare la morte dell’autore e che invece era morta prima. Questo gli ha stimolato una riflessione: la questione della religione ha a che fare con la fisiologia dell’invecchiamento; quando si incomincia ad essere deboli, si fa ordine in casa e si vede un po'' quello che può succedere dopo. L’autore parte da questa riflessione che non è irrilevante perché sono tanti quelli che non credenti per tutta la vita, ad un certo punto verso la fine, hanno ritenuto di varcare il confine e di passare dall’altra parte. Mi interessava questo aspetto della questione: la religione come scelta di debolezza. E proprio perché non mi pare condivisibile, mi interessava parlarne. Comunque oggi l’autore non c’è e quindi sarà per un’altra volta. Per entrare nel tema di oggi vorrei tentare di rovesciare il titolo del dibattito e chiedermi “in cosa non crede chi crede?” Perché dico questo? Perché mi ha colpito nel dialogo tra il Cardinal Martini e Eco, un passo del Cardinal Martini. Eco formula due domande, la prima riguarda, se non ricordo male, l’aborto, la seconda il sacerdozio femminile. Francamente, le sue domande mi sembrano banali. Invece Martini pone una domanda seria, una domanda di sostanza. “Faccio fatica a vedere, come una esistenza ispirata da queste norme, altruismo, giustizia, solidarietà, perdono, possa sostenersi a lungo e in ogni circostanza, se il valore assoluto della norma morale non viene fondato su principi metafisici o su un Dio personale”. Chi crede, pensa che chi non crede non possa avere questo tipo di valori sostenibili a lungo e in qualsiasi circostanza, se non fondati su un principio metafisico. Forse attorno a questo concetto ruota tutta la discussione. Allora, mi chiedo, si può essere non credenti, cioè essere catalogati nella categoria dei non credenti, ed essere religiosi? Io penso di si. E ci possono essere valori sacri anche per il non credente? Io credo di si. Eco, cercando di rispondere a questa domanda, afferma che l’etica per il laico nasce quando viene l’altro, quando c’è un altro. Io potrei dire che si riferisce non soltanto all’altro della stessa generazione ma anche all’altro della generazione futura. Quando penso a quello che verrà dopo di me e organizzo la mia vita, mi do delle regole, tengo dei comportamenti tali da non danneggiarlo certamente conferisco alla mia vita un fondamento etico. Il laico si dà delle regole pensando che c’è l’altro da rispettare: l’altro che c’è, ma anche quello che verrà. Ma l’altro è anche quello che è venuto, che ha accumulato dei saperi, E il laico che sta nell’isola deserta, che è l’ultimo della sua specie, solo per questo, per la mancanza di altri non avrà limiti alla sua azione? Io non credo, non tutti i laici farebbero qualunque cosa. Io ho posto a me stesso questa domanda e mi sono risposto no. Anche se non avessi nessun altro da danneggiare ci sarei io con la mia vita e la mia dignità. C’è una parte di quelli che i credenti chiamano “non credenti” la quale ritiene che l’essere umano abbia un valore in sé. Perché è il risultato di una storia dell’uomo, di un’accumulazione di sacrifici, di storie, di lutti, di dolore, di tragedie. Perché ha il compito di fare in modo ciascuno viva all’interno di valori improntati al rispetto degli altri; che quelli che vengono dopo lui vedano nella sua generazione, in lui stesso una persona da rispettare, da onorare. Chi non è credente in senso tradizionale vedrà in ciò la possibilità di riconoscere il sacro, o di essere religioso. Si può credere in se stessi come il risultato di un accumulo di saperi, di conoscenze, di storie, di dolori e di lutti, e svolgere nella vita una funzione che non riguarda solo se stessi, ma anche gli altri. In questo senso mi pare, sia possibile dare una risposta positiva alla domanda del Cardinal Martini. Credo che un’esistenza ispirata da norme come altruismo, sincerità, giustizia, solidarietà, perdono, può sostenersi a lungo e in ogni circostanza. indipendentemente dal ritenere che quelle norme siano fondate su un principio metafisico o su un Dio personale, come dice Martini. E’, fondamentalmente, un problema di educazione e di rispetto dell’altro. Sarei lieti se i credenti riflettessero sul fatto che per chi non crede in senso tradizionale, il principio di responsabilità è più duro, il principio di solidarietà è più pesante e così anche l’altruismo. Chi non crede in senso tradizionale è molto più solo rispetto a chi crede in senso tradizionale; quest’ultimo vive la sua esperienza religiosa all’interno di una comunità; l’altro è solo.
Mi sono chiesto anche: ognuno di noi ha vissuto i suoi momenti di pericolo. In quei momenti di pericolo ci si chiede: a questo punto che succede? Come risolvo il mio rapporto con la metafisica? Io l’ho risolto pacatamente concludendo che se avessi fatto un revirement in quel momento, sarebbe stato il trionfo della viltà contro i valori ai quali ho cercato di ispirare la mia vita. Il complesso di valori della mia esistenza erano sufficienti anche a superare quella fase difficile. Rispetto, naturalmente, scelte diverse, ma sono convinto che si tratterebbe di momenti di caduta del laico, non di un suo momento di forza. La fiducia laica se crolla proprio nel momento in cui doveva provare se stessa si rivela solo una forma di difesa o di comodità nei confronti degli impegni che comporta l’essere credente.
A me sembra, infine, che il mondo tradizionalmente definito dei non credenti non sia unitario. Non credo che si tratti di un mondo con regole e codici: altrimenti non sarebbero più non credenti.

Abbiamo uno straordinario bisogno di ricostruire gerarchie di valori. E’ un problema non solo italiano, è un problema europeo. La crisi della modernità, la crisi della pienezza della modernità, quello che si chiama post-moderno, apre a l rischio del relativismo, del cinismo. La società sta chiedendo sistemi di valori. Mi ha colpito molto la definizione formulata da Barbara Spinelli di “vuoto di capacità della politica”. Tutti coloro che hanno vissuto la crisi della modernità hanno constatato il crollo delle gerarchie di valori. Per alcuni aspetti ciò è positivo, per altri è negativo. C’è bisogno, comunque, di ricostruirle. Perché altrimenti lo spazio vuoto è riempito da forme di estremismo religioso, o di altro genere. Io credo che questo tipo di conversazioni, di discussioni, di confronti, se riuscissero a procedere potrebbero porre le prime pietre di un ragionamento profondo che unifichi chi ritiene di credere e chi ritiene di non credere attorno alla necessità di costruire un sistema di valori o di proporre un sistema di valori, che sia di orientamento per la società, che penetri dentro il cuore del sistema. Sono convinto che pensare di recuperare con le regole ciò che devono dare i valori è una illusione giuridicistica, cioè una stupidaggine, scusate. La forza di un indirizzo per la socetà può venire solo da un sistema di valori. La regola viene dopo, se viene, e può anche non essere necessaria. Il guaio sarebbe credere che un accumulo di regole possa coprire il vuoto di valori.