Perdono, memoria, responsabilità


Messina, 01/15/2001


*** Incontro promosso dall''Associazione Umanesimo e Solidarietà ***


Perdonare significa ricostruire un legame spezzato.
Perciò l''atto del perdono è proprio di tutte le comunità che danno valore ai vincoli civili. Esse, attraverso la disponibilità dell''offeso a ristabilire un rapporto con l''offensore, rinsaldano i vincoli che legano tutti i soggetti che nella comunità stessa si riconoscono.
Il perdono, quindi, ha un valore assai rilevante per la continuità delle relazioni tra singoli o all''interno di una comunità.
Esso però non è l''unica forma di ricostruzione di un legame interrotto da un''offesa.

Una prima forma di ricostruzione di questo legame è l''oblio dell''offesa.
Cominciamo dal mito.
Plutarco narra che dopo la costruzione della città che sarebbe stata Atene, ci fu una gara tra Atena e Poseidone per il possesso della città. Atena donò alla città l''ulivo e Poseidone donò una fonte. Il giudice dichiarò vincitrice Atena, perché l''ulivo, a differenza dell''acqua, era una novità. Poseidone non se la prese a male e sull''acropoli sorse un tempio comune alle due divinità. Nel tempio venne eretto un altare a Lete, la divinità dell''oblio, perché gli ateniesi non serbassero il ricordo di quella contesa.
La sequenza offesa-conciliazione-oblio viene sostituita da un''altra sequenza, offesa- vittoria-ordine, nella vicenda, questa è vicenda storica non è un mito, di Trasibulo che nel 430 a.c. caccia i tiranni da Atene ponendo fine alla guerra civile. Aristotele riporta le condizioni della pacificazione: "Nessuno ha più diritto di ricordare i delitti commessi da un altro, a meno che non siano stati commessi dai Trenta, dai Dieci, dagli Undici e dagli ex governatori del Pireo; e neppure da questi, se essi renderanno conto del loro operato". Nella tradizione successiva questo decreto prese il nome di amnestia, cioè di non memoria. Tuttavia questo termine può trarre in inganno. L''intesa ricordata da Aristotele, infatti, non richiede l''oblio, ma il divieto di accusare singoli per i delitti commessi nel passato. E'' significativa poi l''estensione del divieto di ricordare i crimini del passato anche se commessi dai Tiranni ed i governatori del Pireo, qualora questi abbiano risposto del loro operato. L''ordine dopo le offese in questo caso è raggiunto attraverso la pacificazione imposta per legge dai nuovi governanti a tutti i cittadini e l''accettazione della responsabilità da parte dei colpevoli ( " se renderanno conto del loro operato").
Un terzo caso, questa volta letterario, che ci aiuta ad avvicinarci all''origine del termine perdono, viene dal XIX libro dell''Iliade.
Agamennone ha sottratto ad Achille l''amata schiava Briseide ed Achille, offeso, si rifiuta di combattere. Per indurlo a riprendere le armi Agamennone restituisce la schiava sottratta, giurando di non averla toccata, invia doni che sono definiti àpoina cioè prezzo dell''illecito, aggiunge una giustificazione: quando ha rapito Briseide era sotto l''influsso della dea Ate, l''ira che toglie la capacità di raziocinio.
Come sappiamo Achille accetta le scuse, invia a sua volta un dono ad Agamennone e ritorna a combattere.
Nella vicenda sono interessanti vari aspetti: le scuse sono accompagnate dal ripristino dello stato delle cose, perché la schiava Briseide torna ad Achille, da una giustificazione (Agamennone era accecato dall''ira) e da doni ulteriori. Il significato è chiaro: per la conciliazione non basta la ricostituzione dello stato delle cose precedente all''offesa, occorre una spiegazione ed occorre un dono cui deve corrispondere un altro dono, sia pure meno significativo da parte dell''offeso. Non è importante il pari valore dei doni scambiati ma lo scambio in sé perché lo scambio riattiva, attraverso la donazione ed il riconoscimento, il legame spezzato.
Il significato dello scambio di doni come segno di conciliazione è rimasto intatto nel corso dei millenni, come possiamo verificare nella nostra vita quotidiana, dove a volte, nella logica consumistica, il dono in sè rischia di prevalere sul suo significato di ripristino o di rafforzamento di un legame sociale.

Una osservazione: il termine perdono nella lingua italiana, e nelle lingue latine, sembra strettamente connesso al concetto di dono. In inglese, invece, perdonare si dice to forgive che sembra molto vicino a to forgot dimenticare. Simile è il termine tedesco vergeben perdonare e vergessen dimenticare; ma give in inglese e geben in tedesco significano dare e quindi in quelle lingue sembra esserci un passaggio tra un perdono come atto che giustifica il dono ed il perdono come dimenticanza. Ma solo gli studiosi di questi problemi potrebbero convalidare o smentire queste impressioni. In ogni caso il concetto di perdono ha in sé i due concetti dell''accantonamento dell''offesa, in questo senso della sua dimenticanza, e del dono come segno di conciliazione.

Cristo rivoluziona le pratiche di conciliazione civile del suo tempo introducendo il perdono come perno della conciliazione civile. Quando sulla croce, come riferiscono i vangeli, Cristo chiede a Dio di perdonare quegli uomini che lo stanno uccidendo perché non sanno quello che fanno, si apre un tempo totalmente nuovo.
Per un verso chi sta per essere assassinato non perdona direttamente, ma chiede a Dio di perdonare in un atto che è di umiltà, ma è anche di consapevolezza della gravità del delitto che è tanto grave da non poter essere perdonato direttamente dalla vittima. D''altra parte quel perdono è richiesto a chi ha titolo a darlo perché si tratta di un''alleanza religiosa, fondata sulla trascendenza; non è un''alleanza civile. Cristo poi motiva la ragione del perdono, che qui non è la contrizione dell''offensore, ma la sua ignoranza; "non sanno quello che fanno" dice Cristo e quindi non sono responsabili.
Chi ignora il male che fa può essere perdonato. Nel cristianesimo, infatti, non è offensiva qualunque lesione dell''ordine, ma solo la lesione commessa con consapevolezza dell''ingiustizia dell''offesa commessa. In questo dare peso alla volontà dell''offensore più che all''oggettività dell''offesa sta una svolta rilevantissima rispetto a tutta la tradizione precristiana nella quale l''offesa all''ordine, si pensi alla grande tragedia greca, vale in sé indipendentemente dalla consapevolezza e dalla volontà dell''offensore.

Per chi si richiama al magistero della chiesa cattolica, la possibilità di ottenere un perdono pieno da parte di Dio, fuori dei casi dell''ignoranza del male commesso, è connessa ad un atto di pentimento (l’attrizione) e di penitenza attraverso il sacramento della confessione. L’esegesi evangelica, inoltre, sottolinea con forza l’azione di Cristo come capace di redimere illimitatamente tutti i peccatori, richiamandosi in particolare alle parabole dell’adultera, della pecorella smarrita e del figliol prodigo (Gv. 8, 1-11, Lc. 15, 1-7 e 15, 11-32).

L’etica protestante invece non fa derivare il perdono dalla penitenza, ma affida esclusivamente alla dimensione interiore e spirituale della contrizione e alla grazia divina la possibilità del perdono individuale, secondo la dottrina protestante della giustificazione.
Per l’ebreo la possibilità di ottenere il perdono da Dio è subordinata alla necessità di ottenere il perdono da parte di chi è stato leso. L’idea che è alla base di questa concezione del perdono pone con forza la questione della responsabilizzazione sociale con la necessità di ricomporre l’equilibrio e la pace perduti tra chi ha commesso un danno e chi l’ha subito.

Nella dottrina cattolica si può perdonare tutto? Evidentemente no, perchè altrimenti non sarebbe previsto né l''Inferno né il male assoluto, qualunque possa essere il significato che si connette a queste espressioni. Naturalmente il perdono esige la disponibilità all''accettazione della responsabilità da parte della vittima. La non accettazione renderebbe inefficace il perdono. Ma allora è l''offensore o l''offeso che decide della validità del perdono? Lascio la questione a chi è più esperto di me. Ma due passaggi neotestamentari paiono porre una sorta di limite oggettivo al perdono, individuando due colpe che appaiono, nel testo biblico, irredimibli.
Mi riferisco al monito di Cristo contro coloro che scandalizzano i fanciulli (“Chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina d’asino al collo e fosse gettato nel profondo del mare” Mt. 18, 6) e alla morte immediata che colpisce, episodio meno noto, Anania e Saffira, una coppia di cristiani dell’età apostolica che si erano permessi di tenere per sé una parte del denaro frutto della vendita dei loro beni che doveva invece essere versato alla comunità al momento del loro ingresso (At. 5, 1-11). Entrambi hanno leso per egoismo l''interesse alla sopravvivenza della comunità.
Questo tipo di considerazioni ci porta alla categoria della imperdonabilità. Ci può essere qualcosa di imperdonabile? E di cosa si tratta? Il campo della politica si separa bruscamente dalla religione. Ciascuna religione, cioè ciascuna visione del mondo che si fonda su una trascendenza, ha un suo imperdonabile, che è uno dei campi più misteriosi delle religioni, quelli che più coinvolgono la fede e la grazia, come l''una e l''altra sono viste nelle diverse concezioni.
La stessa cosa vale per la politica, per le diverse concezioni della politica. L''imperdonabilità attiene non tanto alla relazione con l''altro, ma all''identità della vittima. E'' imperdonabile ciò che se fosse perdonato negherebbe una parte fondamentale dell''identità del perdonante.
Tutti sappiamo quanto fondamentale fosse dal punto di vista economico e religioso l''ulivo nell''antica Grecia. Sofocle nell''Edipo a Colono evoca la distruzione degli ulivi come un crimine contro gli dei: "l''ulivo, dalle foglie verde-azzurro, nutrimento dei nostri figli, l''albero che nessuno, né giovane né vecchio può distruggere o rovinare. Lo sguardo vigiliante di Giove degli ulivi non lo lascia mai e così quello di Atena, dai grandi occhi che si perdono nell''azzurro del cielo…".
L''imperdonabilità ha a che fare con il concetto del limite. Ciò che supera quel limite attenta alla ragione stessa della nostra esistenza. Auschwitz è, ad esempio, l''imperdonabile nella storia e nell''identità di questa parte d''Europa perchè l''identità europea di oggi nasce dalla rivolta contro le tragedie del nazismo e del fascismo. Ogni persona, ogni comunità ha dentro di sè un limite che non può essere valicato. Ogni identità ne ha uno. Chi supera quel limite è imperdonabile. Naturalmente la questione si pone diversamente nella religione e nella politica.
La politica deve fare proprie le parole di Dietrich Bonhoeffer, giovane teologo luterano, arrestato dai nazisti, in una lettera del 18 luglio 1944: "Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse.". Questo aumenta, non diminuisce le nostre responsabilità e, per chi ha a fortuna di possederla, non diminuisce neanche la forza della fede. Perciò l''imperdonabilità nella politica e nell''etica pubblica può non coincidere con l''imperdonabilità della Chiesa cattolica. Ci può essere un imperdonabile politico che è invece perdonabile dal punto di vista religioso. Così c''è un imperdonabile giuridico: i crimini contro l''umanità non si prescrivono mai. E'' questo il segno del peso che le leggi vogliono conferire a quella specifica offesa. I confini dell''imperdonabile non sono gli stessi per i campi della religione, della politica o del diritto. I confini sono diversi, non per effetto di una contraddizione. Essi sono frutto di una distinzione salutare perché le conseguenze e le ragioni del perdono sono diverse nei diversi campi.

Resto sul terreno della politica. Perdonare i campi di sterminio da chiunque fatti ed in qualunque epoca significherebbe porre le condizioni per una conciliazione con le culture di discriminazione che hanno partorito questi mostri. Se la vita è il bene fondamentale, la programmazione sistematica della soppressione della vita per milioni di persone innocenti ed inermi, non è perdonabile. I singoli forse, dal punto di vista religioso possono essere perdonati, caso per caso. Ma nei confronti del fatto e dei loro responsabili, sul terreni della politica, non può esserci conciliazione.
C''è anche un altro motivo per la imperdonabilità politica di queste tragedie. La conciliazione con gli autori di questi stermini, e con le culture che li hanno generati è impossibile perchè non esiste, né è concepibile, né è stata mai concepita una contrizione che abbia la stessa forza e la stessa tragicità del male inferto.
Simon Weil, che fu prigioniera dei nazisti ha scritto:.
“Nulla è più crudele verso il passato che il luogo comune secondo il quale la forza è impotente a distruggere i valori spirituali; in virtù di questa opinione si nega che le civiltà cancellate dalle armi siano mai esistite”. La brutalità può distruggere anche i valori spirituali; perciò c''è una soglia della brutalità oltre la quale c''è la imperdonabilità.

A volte esiste una confusione tra perdono e risarcimento.
Negli ultimi anni la questione dei beni sottratti agli ebrei dai nazisti e dai loro complici, l''approfittamento di quei beni fatto da banche o da società di assicurazioni, ha riaperto la discussione sulla restituzione di questi beni e molti hanno parlato di risarcimento.
Il carattere mercantile che spesso assumono le relazioni umane nell’età della globalizzazione, porta a pensare che tutte le ferite siano risarcibili.
Su questo punto occorre essere chiari poiché c''è il rischio che la giusta restituzione a chi ha titolo al recupero dei beni ingiustamente sottratti venga considerata come una sorta di transazione impropria, come un saldo definitivo delle responsabilità, delle connivenze e dei silenzi che ambienti finanziari ed industriali hanno mantenuto durante e dopo i regimi nazi-fascisti.
Questa è un''equazione inaccettabile poiché il principio della risarcibilità contiene in sé stesso il principio di ripetibilità. Ciò che è risarcibile è ripetibile. Ciò che non è risarcibile non è ripetibile. Ammettere la risarcibilità dello sterminio significa ammettere che esso può essere ripetuto. Altra cosa, naturalmente è la restituzione, che è cosa diversa dal risarcimento. Ma la restituzione, come ci insegna l''Iliade, nell''episodio sopra riportato della pacificazione tra Agamennone e Achille, non è sufficiente da solo a ristabilire il legame interrotto dall''offesa.

Nella sfera pubblica, nella storia civile di un Paese, occorre inoltre procedere ad una distinzione fondamentale.
Non possiamo confondere il perdono con lo sforzo di capire l’avversario. Capire non significa accettare o giustificare, né tantomeno condividere. Significa intendere le cause e i processi di un determinato fenomeno senza schierarsi dalla loro parte.
In questi anni ho richiamato la necessità di riflettere sulle motivazioni che spinsero migliaia di ragazze e di ragazzi a schierarsi, anche quando tutto ormai sembrava perduto, con la cosiddetta repubblica di Salò anziché dalla parte dei diritti e delle libertà.
Il mio invito a riflettere, fuori da revisionismi falsificanti, sulle scelte di quei ragazzi, torno a ribadirlo, non intende in alcun modo proporre una sorta di parificazione tra le parti, né utilizzare la volontà di capire per legittimare scelte e comportamenti compiuti contro chi lottava per liberare il Paese dall’occupante nazista. Infatti non ho, né ritengo di avere alcuna legittimazione a pacificare o a legittimare alcunchè. Mentre ritengo di poter invitare a riflettere e a sforzarsi di capire.
Se nella sfera privata ciascuno può legittimamente decidere di perdonare o di dimenticare il dolore e l’offesa subita in quei mesi, la identità della comunità nazionale italiana è strettamente connessa alla lotta contro la Repubblica di Salò. Il fatto costitutivo della Repubblica italiana sta proprio nella lotta di Liberazione perché la cacciata della Monarchia, la Repubblica e la Costituzione traggono origine da quella lotta che ebbe tra gli avversari proprio l''esercito di Salò.
La differenza tra voi e noi, disse una volta un vecchio intellettuale che era stato partigiano ad un anziano reduce di Salò, parlamentare, è che avendo noi vinto tu puoi fare il parlamentare. Se aveste vinto voi io sarei finito in uno dei forni dei campi di sterminio.
Lo scambio di battute sintetizza un punto teorico fondamentale: il pluralismo delle idee è una componente essenziale della Repubblica, mentre era severamente punito nei regimi nazisti e fascisti.

Tuttavia nessuna parte deve mai pensare di detenere il monopolio della verità.
La conoscenza di tutte le pagine della nostra storia, il confronto tra le diverse memorie, lo sforzo di capire chi si sentiva portatore di una diversa verità è il terreno per riuscire a portare tutti gli italiani alla condivisione di un ethos civile del quale è sintesi storica e fondamento la scelta repubblicana e la Costituzione democratica.
Al di là di questo, lo sforzo di capire chi la pensa diversamente in ogni momento del confronto politico è un’attività faticosa ma indispensabile alla vita democratica. Io ho posto e pongo la necessità di conoscere, di sforzarsi di conoscere e di capire i motivi per cui quei giovani si schierarono con Salò; questo non vuol dire giustificare quei comportamenti; vuol dire sentire il dovere di conoscere pienamente la propria storia e cioè approfondire le ragioni della propria identità. Significa dare loro lo spazio per spiegare, per farci intendere le loro ragioni senza timore che da questo nuovo spazio di democrazia possa venire un pericolo per la nostra identità democratica.
Mi ha colpito, in quella circostanza, l''equivoco concettuale e terminologico, tra capire e giustificare. In realtà capire è premessa per giustificare; ma non comporta necessariamente la giustificazione.


Negli ultimi anni il tema del perdono per grandi fatti della storia ha assunto una particolare importanza nell''esperienza culturale contemporanea.
La regina Elisabetta nella sua visita in India, nel 1999, ha chiesto scusa per i misfatti del colonialismo in quel paese.
Lionel Jospin ha chiesto perdono per la fucilazione dei disertori duranrte la prima guerra mondiale.
L''ex premier giapponese Obuchi, durante la visita ufficiale del suo collega olandese Kok, ha chiesto perdono per le vessazioni inflitte dai soldati giapponesi ai cittadini olandesi residenti in Indonesia, durante la seconda guerra mondiale.
Massimo D''Alema, incontrando come presidente del consiglio Gheddafi a Tripoli, ha riconosciuto le responsabilità del colonialismo italiano in Libia.
Willy Brandt ed Helmut Kohl hanno riconosciuto solennemente le responsabilità della Germania nello sterminio degli ebrei.
Tra il 1998 ed il 1999 la Commissione teologica internazionale ha discusso il tema "La Chiesa e le colpe del passato". Nel corso dei lavori si è riflettuto sull''opportunità di chiedere perdono per la condanna a morte di Giordano Bruno avvenuta il 17 febbraio 1600.
Infine nel luglio 1999, ricorrevano novecento anni dalla presa di Gerusalemme da parte dei crociati, avvenuta il 15 luglio 1099, duemila cristiani provenienti dall''Europa e dal Nord America hanno compiuto un pellegrinaggio a Gerusalemme, che si chiamava "Cammino della riconciliazione", ed hanno chiesto perdono a mussulmani ed ebrei per i massacri perpetrati dai crociati.
Si aggiungano le espressioni usate da Giovanni Paolo II per chiedere scusa agli ebrei dell''atteggiamento antiebraico della Chiesa nel passato, anche non lontano.

Questi citati sono soltanto alcuni dei casi verificatisi negli ultimi anni; se ne potrebbero aggiungere molti altri.
Tutti questi casi sono unificati da un comune denominatore. Non ci sono più né gli offensori né le vittime. Ed il ricordo delle offese è certamente presente nella coscienza degli eredi degli uni e degli altri, ma non causa oggi una lacerazione del rapporto di convivenza. Quale è quindi il loro significato più profondo?
Maurizio Bettini, che insegna all''Università di Siena, ha approfondito recentemente questi temi in un saggio su Il Mulino al quale rinvio.
Qui interessa porre in luce il significato prevalentemente identitario di questi perdoni storici. Chi pronuncia il perdono non ha commesso l''offesa di cui si scusa e chi riceve il perdono non l''ha subita. Tuttavia resta un significato rilevante. Chi pronuncia il perdono storico intende ridefinire la propria identità rispetto a quei fatti e chi lo riceve è destinato a modificare la propria identità rispetto al perdonante.
Quando io chiedo perdono per un''offesa commessa da un mio avo al discendente dell''offeso compio insieme diverse operazioni: riconosco il male commesso, mi separo da esso, ridefinisco la mia identità rispetto all''offesa che espungo dalla mia storia, chiedo al mio interlocutore di non agitare più l''offesa subita contro di me, a ricordare che io ho tenuto questi comportamenti che oggi svuotano di lesività le offese di ieri. Esse restano un fatto storico, ma non eccitano più né recriminazioni né vendette.

Il perdono, infine, è l''anticamera dell''oblio? Il contrario del perdono è la memoria? Il perdono azzera la responsabilità, chiude la vicenda?
Nulla di tutto questo.
Perdono e memoria non sono inconciliabili; l''unico sentimento davvero inconciliabile con il perdono è la vendetta, con tutti i suoi coinquilini: il rancore, l''odio, la volontà di restituzione del male.
Il perdono non chiude la strada alla memoria; chiude la strada alla vendetta.
Quando si parla di memoria, in genere si fa una confusione tra memoria e ricordo.
La memoria di un fatto è la percezione del suo significato, il ricordo di un fatto è la percezione della sua dinamica.
Il ricordo di un fatto è forse difficilmente compatibile con il perdono; ma la sua memoria è assolutamente compatibile con il perdono perchè la memoria risponde ad un''altra esigenza, quella della conoscenza della vita che ci ha preceduto e l''esigenza di evitare sul nascere i processi che hanno arrecato quel male.
Se l''oblio fosse necessaria conseguenza del perdono, le tragedie si dovrebbero ripetere, e quindi il perdono raggiungerebbe lo scopo contrario che si propone. Sarebbe il motore del lutto non la cancellazione del lutto.
Sulla questione della responsabilità, infine, siamo tratti in inganno da una questione terminologica. Il termine nella nostra lingua significa due cose diverse:
a) attribuibilità di un fatto ad una persona;
b) sanzione per il fatto commesso.
I tedeschi hanno vita più facile perché usano due diverse parole: Schuld ed Haftung. La prima è la colpevolezza e cioè la rimproverabilità di un soggetto per un atto commesso; la seconda è in sostanza la pena. Il perdono, a mio avviso, fa venir meno la Haftung, ma lascia intatta la Schuld e cioè la rimproverabilità.
Questo ci consente di considerare il perdono non il presupposto per un''amnesia dell''offesa e quindi per la sua ripetibilità, ma la condizione per ricostruire quei legami sociali e civili senza dei quali una comunità è destinata all''autodistruzione.