Commemorazione del primo anniversario della scomparsa del Prof. Bruno Zevi


Roma, 01/09/2001


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La ricchezza delle esperienze culturali e professionali che sono presenti stasera per ricordare Bruno Zevi testimonia la ricchezza della sua vita, ma anche la complessità e l''intreccio che ebbero le sue diverse competenze ed i suoi diversi impegni.

Molti di noi, non professionisti e non particolarmente versati nel campo dell''architettura, si sono avvicinati al Suo pensiero attraverso quella straordinaria rubrica che tenne su L''Espresso. Quello fu un settimanale messaggio educativo e formativo ad una civiltà della forma che legava costantemente l''uomo al suo ambiente e l''ambiente all''uomo.

Mentre preparavo queste brevi riflessioni, stamane, mi è venuta alla mente una lunga conversazione di Hans Jonas con i redattori di Spiegel sul rapporto tra l''uomo e la natura.
Jonas parlava allora di un''etica disposta a sacrificare qualcosa del presente per salvare il futuro dell''uomo sulla terra e si chiedeva: " Ma non si può puntare anche qualcosa sul fatto che gli uomini vogliono un futuro?". Credo che questo tipo di considerazioni possa valere per molti grandi architetti ed anche per trovare una ratio per l''ansia del fare che caratterizzò l''impegno di Zevi permanentemente proteso alla rottura del presente per la costruzione di un equilibrio diverso, a suoi occhi più rispettoso del rapporto tra la natura e l''uomo.

L''architetto è allo stesso tempo testimone e profeta, perché disegna lo spazio nella contemporaneità, ma lo fa pensando a quelli che verranno dopo. Zevi sembrava meno sensibile alla dimensione del presente e più trascinato alla rappresentazione del futuro. Questo lo rendeva spesso insofferente rispetto alle procedure, che sono legate invece alla regolazione del presente.
Ricordo qualche suo gesto di impazienza in Aula quando qualcuno interveniva ripetutamente su questioni procedurali, spesso di trattava di deputati del suo stesso gruppo.
Oppure quando si discuteva di questioni di giustizia, condite, allora ed anche adesso, di un eccesso di minuziosa sapienza non sempre funzionale alla decisione né alla rappresentazione del problema. Poiché eravamo seduti vicini, in una giornata con pochi deputati, mi fece un cenno con la mano e con gli occhi, sempre vivacissimi, e mi disse sorridendo: "Giuristi cattivi cristiani". Era una citazione di Lutero che gli ripetei scherzando in tedesco. Adesso vaglielo a dire a quello lì, mi disse, indicando un collega democristiano e notoriamente pio, sebbene magistrato, che stava parlando ormai da molti minuti.

Vittorio Gregotti ha scritto in un articolo vivo e sentito, dopo la morte di Bruno Zevi, che egli aveva un brutto carattere. Non ho avuto con lui una dimestichezza tale da consentirmi di esprimere un giudizio così diretto. Ma durante gli anni di lavoro comune mi è capitato di apprezzarlo più volte per la sua schiettezza ed anche per la sua caparbietà, che non sconfinava mai nella scortesia. Osservava l''Aula di Montecitorio come un biologo osserva attraverso il microscopio i vetrini dei suoi batteri cercando di capire le leggi che ne regolano il movimento, gli spostamenti, la crescita. Questo suo impegnato disincanto lo rendeva simpatico a tutti, anche se non era affabile con tutti.

Ad ogni personalità che viene a mancare è possibile associate una parola che rappresenta quel frammento di reale o quel valore in cui quell''uomo o quella donna si sono più spesso riconosciuti.
Per Bruno Zevi, almeno per come l''ho visto io, la parola da associare con più immediatezza è la parola libertà. Zevi fu un uomo libero, perciò scomodo, perciò spesso intollerante delle meschinità altrui, fu alieno da calcoli e da protagonismi.
Quel suo essere uomo libero gli provocò, anche dal punto di vista professionale, molte disillusioni. Ma non per questo smise mai di praticare quella sua religione civile che ce lo rende ancora oggi caro e presente.