Disoccupazione e povertà: cause e rimedi


Frascati, 09/06/2000


*** Convegno internazionale promosso da Jubileum 2000 ***


La globalizzazione dell’economia è oggetto di contrapposti furori. A volte esaltata come nuovo rinascimento dell’umanità, altre volte demonizzata come radice di tutte le moderne devastazioni.
Si tratta di rappresentazioni errate.
La globalizzazione è come la legge di gravità: consiste in un dato oggettivo. Esiste e va governata.

Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del PIL mondiale di dieci volte, da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari, assistiamo ad un preoccupante allargamento della forbice economica già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Non sono aumentati i paesi poveri; né è aumentato il numero dei poveri nei paesi ricchi. E’ invece aumentato enormemente il divario tra i ricchi, inclusi nei processi di globalizzazione ed i poveri che ne sono esclusi.
Nell’Unione Europea il 15% degli abitanti vive in condizioni di povertà, nonostante la ricchezza dei paesi dove abitano.
Negli Stati Uniti nonostante gli alti tassi di crescita e il basso tasso di disoccupazione ci sono più di 42 milioni di cittadini privi di qualunque assistenza sanitaria e un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà.

Se immaginassimo la Terra davvero come una città globale, di un milione di abitanti, potremmo descrivere in questo modo la attuale condizione di vita della popolazione mondiale: solo 150.000 abitanti (il 15%) vivono in zone agiate, mentre 780.000 (quasi l’80%) vivono in quartieri poveri. Lo stipendio medio procapite è di 6.000 dollari, ma quasi 500.000 degli abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno.

Oggi è l’esclusione dalla globalizzazione che genera o non permette di superare condizioni di povertà. Questo vale sia all’interno degli Stati più progrediti, sia nel rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri.
La partecipazione all’economia globalizzata di coloro che finora ne sono stati esclusi costituisce quindi uno dei rimedi più efficaci e duraturi contro la povertà.
Lo dimostrano gli esempi dell’Asia e dell’America latina. In queste aree, pur permanendo gravi sacche di povertà, la partecipazione al commercio e alla finanza mondiale ha consentito un tasso di crescita annua, negli ultimi 25 anni, pari rispettivamente al 7% e al 5%. La situazione rimane invece gravissima nei Paesi dell’Africa sub-Sahariana, che sono completamente esclusi dal mercato mondiale.

Anche nei Paesi più progrediti la povertà è generata da un fenomeno di esclusione, dal fatto che i benefici della globalizzazione vanno prevalentemente a vantaggio di chi partecipa alle nuove forme di produzione, di lavoro, di conoscenza.

Chi sta fuori dai processi di globalizzazione dell’economia, della finanza, della comunicazione è destinato all’emarginazione, perde i diritti essenziali all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute.
Per questo è necessario governare la globalizzazione in modo tale che essa diventi un fenomeno inclusivo, che sappia coniugare crescita economica e giustizia sociale.

Governare la globalizzazione per ridurre l’ingiustizia sociale non significa demonizzare il mercato o contrapporre semplicisticamente un astratto primato dell’etica ad un altrettanto astratto primato dell’economia.
Occorre invece riconoscere che la povertà è innanzitutto una questione politica, per tre ragioni.
Primo: perché non dipende dalla scarsezza delle risorse ma dalla loro diseguale e ingiusta distribuzione.
Secondo: perché una parte di questi poveri si riverserà ineluttabilmente nei paesi ricchi e noi ci troveremo domani ad affrontare in termini burocratici, di polizia o sociali, comunque assai costosi, anche umanamente, un problema determinato anche dalla nostra disattenzione politica.
Terzo: perché in molti paesi poveri le oligarchie al potere preferiscono investire in armi che vende loro l’Occidente ricco ed in guerre che riguardano solo il loro potere personale e non il destino dei loro popoli.
Spetta innanzitutto alle istituzioni politiche, internazionali e nazionali, adoperarsi per tradurre in realtà il diritto allo sviluppo dei Paesi meno progrediti, superando i vecchi modelli di cooperazione assistenzialistica, portatrice spesso di corruzione e sprechi.

Sostenere in modo autentico lo sviluppo non significa trasferire passivamente risorse finanziarie dai Paesi ricchi ai Paesi poveri.
Significa qualcosa di molto più complesso e difficile. Significa essere disposti a dare a quei Paesi ciò di cui hanno bisogno per costruire da sé l’insieme delle condizioni non solo economiche, ma anche istituzionali, giuridiche e culturali per innalzare progressivamente il livello di vita dei propri cittadini.
La qualità dello sviluppo economico, la sua capacità di tradursi in un miglioramento generale delle condizioni di vita delle persone, dipende in maniera rilevante non solo dal tasso di crescita del PIL annuale, ma anche dalla presenza di istituzioni democratiche, dal rispetto dei diritti delle minoranze e delle differenze culturali e religiose, dalla esistenza di procedure di spesa trasparenti, di amministrazioni competenti e di classi dirigenti responsabili.
Sostenere in maniera non artificiale ed eterodiretta lo sviluppo dei Paesi che hanno più povertà significa oggi impegnarsi su cinque obiettivi fondamentali:

 cancellazione del debito
 eliminazione delle barriere doganali
 garanzia di risorse idriche adeguate
 eliminazione del mercato oligopolistico delle sementi
 innalzamento del livello di istruzione della popolazione.

a. La cancellazione del debito per i Paesi disposti a reimpiegare le somme in interventi per la riduzione dei livelli di povertà, per infrastrutture, per la sanità, per l’istruzione, è un modo per liberare risorse finanziarie a vantaggio dei Paesi in via di sviluppo, ma al tempo stesso per stimolare la capacità di questi Paesi di costruire da sé le condizioni strutturali della propria crescita.
Il Parlamento ha approvato definitivamente il 13 luglio scorso una legge che prevede la cancellazione dei crediti dell’Italia nei confronti dei Paesi a più basso reddito, per un importo complessivo di 12 mila miliardi.
Questo provvedimento apre una nuova fase strategica che affianca le misure di azzeramento del debito a politiche mirate ad avviare la crescita economica ed il progresso civile, per evitare, come avvenuto in passato, che cancellati vecchi debiti se ne siano poi accesi dei nuovi. Così è accaduto per Tanzania, Uganda, Ciad, Burkina Faso.
Oggi, per effetto della nuova strategia, i Paesi beneficiati, per potersi avvalere di queste misure, dovranno impegnarsi a riconoscere e garantire i diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali e a perseguire il benessere e il pieno sviluppo della persona umana, favorendo in particolare la riduzione della povertà.
Un’anticipazione di questa nuova strategia si è avuta nei mesi scorsi con la firma di un Accordo tra Italia e Marocco sulla riconversione parziale del debito, che prevede, da parte italiana, la cancellazione di circa 100 milioni di dollari di debiti, ed un impegno da parte marocchina a realizzare progetti di sviluppo socio – economico e di protezione ambientale con la cooperazione di imprese italiane.
Analoghe iniziative sono state annunciate da Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada.

b. Il diritto allo sviluppo dei Paesi poveri deve costituire per i Paesi ricchi un vincolo ed un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi Paesi.
Molti Paesi industrializzati impediscono oggi l’immissione nel mercato mondiale di prodotti provenienti dai Paesi in via di sviluppo, che avrebbero prezzi molto competitivi.
E’ questo un paradosso dei Paesi più ricchi, fautori del “mercato globale”. Essi affermano solennemente il primato del libero scambio e dell’apertura del mercato, ma sono pronti a ricorrere a tariffe doganali, a quote riservate e ad altre forme di protezione nei settori nei quali i Paesi in via di sviluppo potrebbero essere più competitivi, vale a dire l’agricoltura e la produzione di tessuti.
Il Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan, nel suo rapporto per il Millennium Summit, che si apre oggi a New York, ha stimato in 20 miliardi di dollari il valore delle esportazioni che l’abbattimento di queste forme di potezionismo consentirebbe di realizzare ai Paesi in via di sviluppo.

c. Un altro punto nodale dal quale dipende il diritto allo sviluppo è la capacità di garantire in futuro a tutti i Paesi in via di sviluppo la qualità e l’equa distribuzione della risorsa idrica.
Meno di 10 Paesi al mondo - tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti - si dividono il 60 per cento del totale delle risorse idriche del pianeta.
Per alcuni Paesi in via di sviluppo le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30 per cento in Egitto, del 40 per cento in Nigeria e del 50 per cento in Kenya.
L’allarme non riguarda solo questi Paesi, ma l’intero pianeta. La Banca Mondiale, in base a studi effettuati nel 1995, ha preannunciato infatti una gravissima crisi idrica per il nuovo secolo, definendolo “il millennio della sete”. Sono ben 2 miliardi le persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Ogni anno dai 5 ai 10 milioni di persone muoiono per cause idrosanitarie dirette e 30 milioni per cause indirette. La disponibilità di acqua è parte di molte controversie internazionali., alcune drammatiche: quella tra palestinesi ed israeliani, per il Lago di Tiberiade, quella tra Sudan ed Egitto per la utilizzazione delle acque del Nilo, quella tra Turchia e Siria per le acque dell’Eufrate. In Colombia, che è il quarto Paese al mondo per quantità di acque siamo in presenza delle premesse di una catastrofe ecologica perché tanto i gas usati per la distruzione delle coltivazioni di coca quanto gli acidi che servono per la raffinazione finiscono nei fiumi, questi si avvelenano e avvelenano la terra che non dà più frutti ed è quindi soggetta a gravi processi di erosione.
E’ necessaria una urgente concertazione internazionale per garantire un’equa distribuzione nel mondo di questo bene primario, non solo perché la mancanza di acqua minaccia la sicurezza economica, alimentare e sanitaria dei Paesi più poveri, ma anche perché questo diritto negato sarà sempre più causa di divisione sociale e di possibili conflitti internazionali.

d. I paesi in via di sviluppo rappresentano la fonte di circa il 90% della biodiversità esistente in natura. Ma essi si trovano nelle vesti di donatori di materia prima, il patrimonio genetico, senza ricevere nulla in cambio. Attualmente, in assenza di idonee legislazioni in questi Paesi, si stanno per realizzare alleanze strategiche tra industrie e governi o gruppi autoctoni. In cambio di brevetti basati sulle conoscenze tradizionali degli agricoltori locali, le industrie offrono una quota pari all’1 o 2%. Prendendo come base tale percentuale si calcola che il Nord sarebbe debitore nei confronti dei paesi poveri di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati relativi alle sementi per coltivazioni agricole.
Si sta inoltre manifestando nel mondo una dipendenza alimentare da pochissime piante; sono solo 10 quelle che oggi forniscono il 75% dei prodotti alimentari più consumati sulla Terra; questa dipendenza può minacciare seriamente qualunque strategia di sicurezza alimentare di un Paese, impedendo di fatto la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana.
Si tratta in molti casi di piante ottenute da sementi modificate geneticamente per una maggiore resistenza a malattie, erbicidi, variazioni climatiche, che hanno sostituito i semi tradizionali. I semi manipolati geneticamente non sono riproducibili e creano conseguentemente una vera e propria dipendenza degli agricoltori dalle società produttrici presso le quali vanno acquistati.

e. Sostenere lo sviluppo significa, infine, innalzare in tutto il pianeta il livello di istruzione della popolazione.
Questo è un obiettivo strategico che riguarda la lotta alla povertà sia nei Paesi ricchi che nei Paesi poveri.
I Paesi ricchi si trovano oggi di fronte al problema della insostenibilità economica di vecchi modelli di stato sociale, fondati sul posto fisso e su un livello modesto di innovazione tecnologica.
Per evitare che l’idea di giustizia sociale che sta alla base di questi modelli sia travolta dalla forza della finanza globalizzata, dal dinamismo del commercio e dalla esigenza di flessibilità del lavoro, occorre che la sicurezza sociale si fondi sulla autonomia e sulla competenza dei singoli, che possono essere garantite solo da elevati livelli di istruzione e di formazione dei cittadini.
Oggi la condizione di povertà è resa molto più acuta che in passato dalla impossibilità per tutti di possedere e di utilizzare lo strumento informatico e la rete Internet, strumenti indispensabili per evitare che chi cerca lavoro o l’ha perso si senta smarrito, escluso definitivamente.
Ci sono più computer negli USA che nel resto del mondo messo insieme, mentre il numero di telefoni nella città di Tokyo è uguale al numero complessivo di tutti gli apparecchi esistenti in Africa.
Evitare che la rivoluzione digitale sia appannaggio solo di alcune élites costituisce uno dei grandi obiettivi di democrazia nella modernità.
La sfida della conoscenza riguarda in modo particolare i Paesi poveri. Nel mondo ci sono più di 130 milioni di bambini che non ricevono alcun tipo di istruzione. Più della metà di questi vivono in India, Bangladesh, Pakistan, Nigeria ed Etiopia.
Il Segretario generale dell’ONU indicherà al Millennium Summit il 2015 come data entro la quale dovrà essere garantita a tutti i bambini del mondo almeno un corso completo di istruzione primaria.
L’innalzamento dei livelli di istruzione è indispensabile per utilizzare appieno le nuove tecnologie informatiche, per accedere al commercio elettronico e per utilizzare le enormi potenzialità offerte da Internet.
E’ questo un obiettivo fondamentale per consentire ai Paesi in via di sviluppo di costruire una crescita solida e duratura non solo sul piano economico, ma anche sul piano sociale, culturale, civile.

Come tenere insieme, anche sul piano ideale, questo complesso di impegni?
Io penso che siano maturi i tempi per una sintetica Carta dei doveri degli Stati, che all’inizio potrebbe rappresentare un vincolo puramente morale, ma questo conta nelle relazioni internazionali, per vietare trattamenti inumani, contro la corruzione, per l’assegnazione di una quota ragionevole delle risorse pubbliche per lo sradicamento della povertà, per l’istruzione e per la salute, per impedire l’acquisto di armi da guerra in presenza di priorità di carattere sociale.
Se potessimo lavorare per questo obbiettivo crescerebbe in tutti la consapevolezza che la povertà è frutto non del caso ma di scelte umane e proprio per questo essa può essere combattuta e vinta.