“Le paure degli italiani – Criminalità e offerta di sicurezza”


Roma, 07/20/2000


*** Presentazione della ricerca della Fondazione BNC e della Fondazione CENSIS ***


I dati della ricerca che oggi viene presentata confermano che esiste una forte differenza tra sentimento di insicurezza dei cittadini e condizioni di sicurezza del territorio.
C’è più sicurezza nella realtà che nella percezione dei cittadini.
L’indagine sulle paure degli italiani ci dice che il principale problema sul territorio nazionale e nella zona di residenza degli intervistati è la delinquenza comune, seguita dalla disoccupazione, dal traffico urbano e dalla droga. Nel 1997 al primo posto c’era invece la disoccupazione, seguita dalla criminalità organizzata, dall’immigrazione e soltanto al quarto posto dalla delinquenza comune.
La criminalità e la sicurezza personale figurano al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani anche in un recente studio LaPoliS per "Il Sole 24 ore", pubblicato martedì scorso.
Se invece guardiamo all’evoluzione del fenomeno criminale nella sua dimensione reale osserviamo, sempre secondo dati del Censis, che il numero di vittime di reati è diminuito del 2,6% dal 1997 al 2000 e che il nostro Paese si colloca soltanto all’undicesimo posto nella graduatoria dei Paesi europei per numero di reati denunciati.
Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero dell’interno, il numero totale dei delitti è diminuito del 2,13% dal 1998 al 1999.
Sono in diminuzione, in particolare, gli scippi (-5,84% nel 1999 rispetto al 1998), i furti in appartamento (-5,09% nel 1999 rispetto al 1998) e i furti di autovetture (-7,26% nel 1999 rispetto al 1998).
Questa differenza tra percezione dei cittadini e realtà non deve, tuttavia, portare a facili e superficiali ottimismi.
Deve invece indurre a riflettere su due aspetti distinti.

Il primo aspetto riguarda l’utilità di una osservazione non “emotiva” delle condizioni effettive di sicurezza del nostro Paese. L’Italia ha una criminalità inferiore alla maggior parte dei paesi UE ed il fenomeno, per le sue dimensioni, può essere affrontato senza inutili allarmismi, con determinazione e razionalità.

Secondo aspetto: non possiamo sottovalutare la percezione di insicurezza individuale e collettiva che esiste nel nostro Paese.
Questo sentimento non si esaurisce nella dimensione interiore dei singoli. Non è un mero disagio psicologico.
E’ invece una rappresentazione sociale che di per sè, a prescindere dalla sua fondatezza, condiziona i comportamenti individuali e collettivi, gli stili di vita, l’esercizio delle libertà fondamentali, come la libertà di spostarsi da un posto all’altro, l’uso del tempo di vita e di lavoro, la qualità delle relazioni interpersonali, l’ opportunità di godere degli spazi della città e del territorio.
I dati della ricerca CENSIS-BNC ci dicono che c’è una domanda di sicurezza che non deriva da una delittuosità crescente, ma da disagi e malesseri sociali, da insicurezze e paure che non hanno a che fare direttamente con il numero e la gravità dei crimini commessi.
La domanda di sicurezza diventa un catalizzatore di bisogni più profondi, legati alle trasformazioni dell’economia, del lavoro, della società nell’ultimo decennio.
Dalla fine degli anni ottanta sono venuti meno gli steccati ideologici, si è aperta una nuova fase in cui il cittadino chiede non più “protezione”, ma sicurezza, intesa come insieme delle condizioni di vita che consentano l’esercizio responsabile dei propri diritti e delle proprie libertà.
E’ una domanda di sicurezza molto ampia, che tocca le nuove condizioni dello sviluppo economico, la precarietà dell’occupazione (nonostante l’aumento in Italia dal 1996 di 900.000 posti di lavoro), le preoccupazioni per la previdenza intesa come garanzia di sicurezza economica nel tempo, sempre più lungo, della vecchiaia, i rischi per l’ambiente e l’incertezza sulla sicurezza alimentare.
Sono tutti fattori che generano paura, ansia di risposte, rese oggi più difficili dal venir meno dei vincoli positivi di appartenenza e di solidarietà che legavano l’individuo alla collettività.
E’ progressivamente cambiato l’assetto politico-sociale fondato sulla presenza capillare ed efficiente dei grandi sindacati e dei partiti di massa come luoghi di identità individuale e collettiva, come artefici di strategie e di risposte e quindi come fattori di rassicurazione.
I luoghi tradizionali nei quali i problemi del lavoro, della società, della famiglia trovavano un ascolto, una elaborazione e quindi un significato dal quale partire per modificare la realtà non sono stato sostituiti da altre forme di aggregazione. Oggi l’individuo è più libero, ma è anche più solo.
L’aumento degli spazi di libertà rischia in questo modo di naufragare in un eccesso di individualismo, in una dimensione di spaesamento, di incertezza e di isolamento.
Per questo il nodo della sicurezza, intesa in chiave moderna, non come mero rispetto dell’ordine pubblico, ma come condizione di fiducia, di benessere, di sviluppo è intimamente legato ad una fiducia reciproca tra Stato e cittadini.
Condizione fondamentale di questa fiducia è la stabilità dei governi. Senza stabilità non c’è fiducia. La stabilità si raggiunge con idonee riforme costituzionali, solo che lo si voglia.

Come già detto, i risultati confermano che abbiamo una buona politica della sicurezza. Ma c’è bisogni di fare qualcosa in più e qualcosa di diverso per correggere la sensazione di insicurezza. Per questo, a mio giudizio, bisogna affrontare quattro priorità.
La prima riguarda il rapporto tra sicurezza e legalità.
Il senso di sicurezza deriva dal grado di accettazione e di diffusione della legalità, intesa non secondo il vecchio modello della rispondenza dei comportamenti individuali e collettivi ad un modello legale, ma come prevedibilità delle conseguenze giuridiche derivanti al cittadino dal comportamento proprio o altrui.
La grande parte dei cittadini si astiene dal commettere reati per ragioni di educazione civile e non perché minacciata dalle pene.
Ma c’è un’altra parte di persone per le quali la minaccia di una certa punizione è una forte remora e la consapevolezza, al contrario, che non ci saranno conseguenze negative, è un incentivo a delinquere.
Tra queste persone vanno annoverati quegli stranieri che vengono da Paesi nei quali c’è un controllo sociale e religioso molto forte e per le quali il venir meno di questo tipo di controllo, unitamente a situazioni di miseria e disperazione, può diventare una spinta a delinquere.
D’altro canto chi ritiene che i delitti rimangono impuniti si sente insicuro, a prescindere dalla reale condizione di sicurezza propria e del proprio territorio.
Naturalmente la legalità intesa come prevedibilità delle conseguenze del proprio comportamento non può intendersi in senso assoluto. Il problema sorge quando l’imprevedibilità e l’incertezza supera una soglia di tollerabilità e questa soglia è legata indissolubilmente al funzionamento della giustizia.
Secondo i dati della Relazione sull’amministrazione della giustizia del Procuratore generale della Cassazione sono rimasti ignoti l’84,2% degli autori dei delitti denunciati dal luglio 1998 al giugno 1999.
In particolare il furto è il reato per il quale si registra il più alto livello di impunità (96,4%). Non è un caso che a questo dato faccia riscontro la rilevazione CENSIS-BNC, secondo la quale il furto, e in particolare il furto in appartamento, è il reato che i cittadini temono maggiormente di poter subire.
Il sentimento di insicurezza non è alimentato soltanto dal potere criminale, ma anche dagli arbitrii, dalle omissioni, dai ritardi del potere pubblico. Il cittadino si sente spesso solo e privo di tutela anche di fronte all’esercizio arbitrario del potere, alla difficoltà di rivolgersi alle istituzioni intese come servizio.
Sicurezza significa anche certezza della pena e della sua esecuzione.
Non basta fare i processi in tempi compatibili con la civiltà giuridica di un paese avanzato. Occorre poi che la pena sia effettivamente applicata.
Le proposte di amnistia e di indulto vanno contro questa esigenza, perché eludono e non risolvono i problemi, perché sottraggono senso e credibilità alle regole, il cui rispetto diventa un elemento opzionale e non un fondamento indefettibile della convivenza civile. L’abuso di atti di clemenza (nell’età repubblicana le amnistie e gli indulti sono stati 49, quasi uno all’anno) è di per sé un fattore che genera insicurezza.
Uno Stato autorevole sa invece tenere conto del comportamento del detenuto durante la detenzione ai fini della riduzione della pena e soprattutto sa garantire al detenuto condizioni di vita in carcere rispettose della sua dignità di persona e tali da consentirgli, attraverso la formazione, lo studio, il lavoro, di rientrare nella vita sociale come cittadino non dimezzato. Sono questi i principi che ispirano le proposte approvate dal Governo, che sono state presentate nei giorni scorsi in Parlamento.

Il secondo punto riguarda il rafforzamento della professionalità delle forze dell’ordine e la valorizzazione della fiducia di cui esse godono presso i cittadini.
Nella ricerca CENSIS-BNC la fiducia più elevata risulta accordata agli operatori della sicurezza. In una graduatoria che va da 1 a 10 la fiducia per i vigili del fuoco è pari a 7,9, quella per i carabinieri per la polizia e la guardia di finanza oscilla tra 6,8 e 6,9.
Questa fiducia è una risorsa preziosa, perché significa che i cittadini italiani non hanno rinunciato a concepire la sicurezza come bene collettivo, che può essere garantito dallo Stato anziché da forme di reazione privata, individuale o collettiva.
Il numero delle persone che circolano armate in Italia è fortunatamente ancora molto più basso rispetto ad altri paesi e il fenomeno delle ronde private o politiche, per quanto preoccupante, è episodico ed isolato.
E’ allora indispensabile coltivare e rafforzare questo sentimento di fiducia, valorizzando il ruolo degli operatori di polizia, rafforzando il loro ruolo di cerniera sociale con strumenti e competenze che consentano di affinare ulteriormente la loro capacità di risposta ai cittadini e di presenza sul territorio.
Questa capacità delle forze dell’ordine merita il riconoscimento dei cittadini, ma merita anche l’attenzione dello Stato, che deve saper valorizzare e premiare concretamente il ruolo sociale, l’impegno, la professionalità delle persone che quotidianamente mettono a rischio la propria vita per difendere la sicurezza del Paese.
In particolare la presenza visibile delle forze di polizia sul territorio scoraggia la commissione dei reati, consente un intervento rapido in caso di necessità, indica ai cittadini che lo Stato non è assente o distante, rende percepibile al cittadino che il potere pubblico si occupa di lui e lo rende perciò più tranquillo.
Il pregio di questa soluzione è che non richiede nuove leggi. Il numero complessivo di addetti alle forze dell’ordine nel nostro Paese consente di realizzare subito questo obiettivo, con provvedimenti di tipo amministrativo che incidano sulla organizzazione del lavoro e che tengano conto delle specifiche esigenze delle singole realtà locali.

Il terzo punto riguarda il rapporto fra bisogno di sicurezza e diseguaglianze sociali.
Il crescente bisogno di sicurezza ha portato negli ultimi anni ad una crescita rilevante dell’offerta privata di sicurezza.
Il mercato della sicurezza attiva (sistemi anti-intrusione, antifurto, antirapina) ha quasi raddoppiato il proprio fatturato negli ultimi 6 anni, passando dagli 880 miliardi del 1993 ai 1.576 miliardi del 1999.
Il 48,5% delle case italiane è dotato di porta blindata e il 21,8% degli intervistati ha dichiarato di aver installato un sistema di allarme.
L’ABI ha valutato in 1.500 miliardi di lire la spesa complessiva sostenuta in oneri per la sicurezza dall’intero settore bancario.
Ma il dato che più colpisce è la relazione diretta che esiste tra capacità di reddito delle famiglie e ricorso a sistemi di protezione privata. Dei nuclei familiari che dichiarano redditi superiori a 5 milioni mensili il 34,1% possiede un sistema di allarme per difendere la propria abitazione. La percentuale cala drasticamente al 9,5% per i nuclei familiari che dispongono di entrate inferiori al milione e mezzo mensili.
Le famiglie che hanno stipulato una polizza assicurativa contro i furti domestici sono l’8,9% nel caso di reddito da 1,5 a 2,5 milioni e il 25,8% nel caso di reddito superiore a 5 milioni.
Questi dati mostrano in maniera inequivocabile che chi non ha redditi alti non può accedere a sistemi di sicurezza privata.
Se la sicurezza è un diritto, l’insicurezza è una delle più gravi forme d’ineguaglianza sociale.

Un ultimo punto riguarda il rapporto tra sicurezza e coesione sociale.
E’ questo un aspetto di grande rilevanza sul quale si giocherà nei prossimi anni il modello di relazioni umane e sociali del nostro Paese.
Dai dati della ricerca CENSIS-BNC emergono sotto questo aspetto degli elementi positivi, che non possono essere in alcun modo trascurati.
La maggior parte degli italiani non crede che il problema della sicurezza possa essere risolto semplicemente con l’inasprimento della risposta repressiva. Il 70,5% è contrario alla riduzione dell’età della punibilità per i minori, il 70,9% è contro il ristabilimento della pena di morte.
Al contrario è altissimo il consenso degli italiani sulla necessità di agire mediante progetti di prevenzione della marginalità sociale (92%). E’ importante notare che nel Nord-est, dove l’allarme sociale è più elevato, il consenso verso l’attivazione di questi progetti raggiunge il 95,7%.
Questi dati dimostrano che l’Italia non è un Paese da ronde, ma può contare sulla maturità civile della grande maggioranza dei suoi cittadini.
Questi dati mostrano anche che la maggior parte dei cittadini non vede il problema della criminalità come una malattia incurabile, rispetto alla quale le uniche misure sono le carceri, i ghetti, l’isolamento di chi vive nella disperazione e nel degrado.
Significa che c’è una disponibilità – dimostrata ampiamente dai dati sul volontariato nei più diversi settori – di impegnarsi in prima persona per modificare le condizioni generali di malessere, di povertà, di esclusione nelle quali attecchiscono comportamenti di tipo criminale. Le associazioni di volontariato erano 8000 nel 1990 ed oggi sono oltre 12000 (dati FIVOL 2000). Le realtà associative sono complessivamente 25.000: abbiamo cioè un’associazione ogni 2200 abitanti (Eurispes, gennaio 2000).
Si tratta di una risorsa civile straordinaria, che le istituzioni non possono sciupare. Su di essa, nei prossimi anni si giocheranno gli assetti e gli equilibri della nostra società, e la nostra capacità di non assecondare modelli - come quelli anglosassoni - nei quali prevalgono l’individualismo e la rassegnazione verso le situazioni di marginalità e di esclusione, e nei quali, di conseguenza, la risposta repressiva assume un rilievo molto maggiore.
La Commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato nella giornata di ieri in sede redigente la nuova disciplina delle associazioni di promozione sociale, che valorizza il grande patrimonio del volontariato italiano e introduce, tra l’altro, concrete misure di sostegno finanziario per progetti e iniziative mirate a fronteggiare particolari emergenze sociali. L’Assemblea della Camera voterà il testo la settimana prossima, prima della pausa estiva, e sono convinto che anche il Senato troverà, alla ripresa dei lavori a settembre, gli spazi e i tempi per garantire l’approvazione definitiva della legge entro il termine della legislatura.
La coesione sociale è il perno su cui ruota una concezione della sicurezza non come affermazione egoistica di chiusura individuale, ma come affermazione di un bene più ampio, che tocca la società nel suo complesso.
La sicurezza fondata sulla mera repressione, sulla fuga dalle relazioni interpersonali, sull’arroccamento nella difesa dei propri beni materiali è effimera, perché alimentata dalla paura. E’ una sicurezza illusoria che produce sempre nuova insicurezza, perché maggiore repressione causa maggiore criminalità, che a sua volta determina una maggiore domanda di repressione, in un circolo vizioso che si autoalimenta.
E’ invece duratura quella sicurezza che si fonda sulla coesione sociale, perché nutrita di senso di responsabilità e di fiducia.