La riforma delle istituzioni europee e le prospettive del processo di allargamento


Merano, 06/19/2000


*** Convegno promosso dall''Accademia di studi italo-tedeschi ***


1. I libri sul declino dell’Occidente possono riempire alcuni scaffali. Addirittura il volgersi ad occidente, che è il luogo dove si estende quella estrema punta del continente eurasiatico che è l’Europa Occidentale, è stato da più parti indicato come un sinonimo del morire. Joyce nel terzo racconto di Dublino, commentando lo stato d’animo di Gabriel, il protagonista, rimasto scosso dal ricordo vivissimo in sua moglie di un antico corteggiatore scrive “The time had come for him to set out on his journey westward”.
Tuttavia le cose non stanno così. In un vecchio articolo di FT, agosto 1999, si faceva una lista dei 20 paesi più sviluppati del mondo. Questa lista, osservava il giornale, comprende 11 dei 15 Paesi dell’Unione Europea. Uno, il Lussemburgo, era stato escluso perché troppo piccolo anche se le sue perfomances avrebbero meritato l’inclusione. Quattro degli altri, USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda, sono nati come colonia dell’Europa Occidentale, parlano lingue dell’Europa Occidentale e le loro istituzioni derivano da quelle dell’Europa occidentale. Il continente latino americano, dal punto di vista linguistico e culturale è una sorta di seconda Europa. Solo uno dei grandi paesi del mondo, il Giappone, è estraneo alla tradizione dell’Europa occidentale.
Quindi, siamo tutt’altro che in declino.
Siano inoltre l’unica area nella quale più Stati diversi hanno deciso di abbandonare la propria moneta per usarne una comune. Siamo il continente dal quale sono nate le due più sanguinose guerre di questo secolo e tuttavia abbiamo utilizzato mezzo secolo di pace per distribuire giustizia sociale e diritti, in misura maggiore forse rispetto a qualunque altra area del mondo.
Nell’Unione Europea, un numero di abitanti di poco superiore a quello degli USA, si parlano undici lingue mentre negli USA se ne parla una sola. Tuttavia stiamo mettendo da parte sia pure con molta fatica tutto ciò che ci divide per valorizzare tutti quegli elementi di organizzazione e civiltà, l’espressione è di Lucien Febvre, che ci uniscono.

L’''Europa dei sei Paesi del Trattato di Parigi (CECA, 1951) e del Trattato di Roma (CEE ed Euratom, 1957) - Francia, Germania, Italia e Benelux - è divenuta l''Europa dei quindici, a seguito di una serie di ondate successive di adesione, ciascuna con una sua propria caratteristica.
L''ingresso di Danimarca, Irlanda e Regno Unito (1973) ha segnato il primo allargamento rispetto al nucleo originario ed ha comportato l''inserzione nel diritto comunitario della tradizione di common law.
Negli anni ''80, l''ingresso di Grecia (1981), Portogallo e Spagna (1986) è stato accomunato dalla fuoriuscita di quei tre Paesi dall''esperienza dittatoriale e dal loro reinserimento nell''Europa democratica.
Le ultime adesioni di Austria e Finlandia (1995) sono state rese possibili dal superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti e quindi dalla fine della necessità dell''assoluta neutralità su cui i due Paesi erano attestati. L''ingresso della Svezia, ma anche della stessa Finlandia, si inscrive nello sviluppo della dimensione settentrionale dell''Unione europea, in cui rientrano anche gli accordi con la Norvegia (che per la seconda volta ha negoziato e quindi rigettato l''adesione) e l''Islanda, ad esempio nell''ambito della libera circolazione delle persone (Convenzione Schengen).
L''Europa comunitaria ha quindi più che raddoppiato la sua iniziale composizione, ma non ha per questo alterato la sua struttura. Semplici correttivi sono stati sufficienti.
Ben diverse si presentano, invece, le caratteristiche e le conseguenze del processo di allargamento ora in corso. Innanzitutto, per il numero dei Paesi candidati: sono, infatti, aperti in contemporanea dodici negoziati bilaterali di adesione riguardanti dieci Paesi dell''Europa centro-orientale nonché Cipro e Malta, senza contare il particolare status riconosciuto alla Turchia. In secondo luogo, per il divario esistente con gli Stati membri, che rende piuttosto laboriosa la trasposizione dell''acquis communautaire nei rispettivi ordinamenti nazionali. Infine, per il significato storico-politico che assume, in particolare, l''ingresso nell''Unione europea dei Paesi già appartenenti al blocco sovietico.
L''allargamento in atto avvicina la prospettiva della grande Europa, verso cui pure si rivolgono le aspirazioni di altri Paesi, a cominciare da quelli destinatari del Patto di stabilità per l''Europa sud-orientale. Tirando le somme, al compimento del processo di adesione di tutti i Paesi candidati (inclusa, quindi, anche la Turchia), l''Unione europea arriverebbe a contare ventotto Stati membri, ma potrebbe successivamente oltrepassare i trenta aderenti. Dunque, si sta profilando un nuovo raddoppio della compagine comunitaria.

2. La consapevolezza che l''attuale assetto istituzionale non avrebbe potuto reggere ad un simile impatto è cominciata a maturare in seno all''Unione europea sin da quando, nel giugno 1993, sono stati fissati i criteri per la presa in considerazione delle domande di adesione dei Paesi dell''Europa centro-orientale. Il Consiglio europeo di Copenaghen li ha individuati nella garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, della protezione delle minoranze.
La Conferenza intergovernativa, svoltasi tra il 1996 e il 1997 e conclusa dalla stipula del Trattato di Amsterdam, aveva, del resto, ricevuto il mandato di procedere alla riforma delle istituzioni. Il mancato accordo pesava sulle prospettive dell''allargamento, al punto che Belgio, Francia ed Italia concordavano una Dichiarazione che sottolineava proprio la priorità di tale riforma.
Ciononostante, il Consiglio europeo di Lussemburgo nel dicembre 1997 avviava il processo di allargamento, stabilendo la data del 30 marzo 1998 per l''inizio della procedura di adesione. Sei Paesi sono stati immediatamente ammessi ai negoziati bilaterali (Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria). Per gli altri c''è stato bisogno di un ulteriore periodo di osservazione, finché il 15 febbraio 2000 anche per loro si è aperta la porta del negoziato bilaterale (Bulgaria, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia).
E'' stata, infatti, superata la precedente logica di tenere distinti i Paesi candidati in due fasce e si è preferito adottare il criterio della differenziazione. Ciascun Paese potrà portare avanti il proprio percorso di avvicinamento all''Unione europea e quindi raggiungere il risultato il più presto possibile, in relazione ai progressi compiuti. In tal modo, si è ritenuto di alimentare uno spirito di competizione che si potrebbe rivelare positivo. Al tempo stesso si è inteso evitare la pressione di un ingresso indiscriminato in Europa.
L''Unione europea deve, tuttavia, fare i conti con l''aspirazione - ripetutamente avanzata dai Paesi candidati – all’indicazione di una data-traguardo per la conclusione del negoziato, la formalizzazione dell''adesione e la successiva ratifica da parte degli Stati membri. Questa richiesta ha alle spalle la preoccupazione delle classi dirigenti di quei Paesi che soltanto la predeterminazione dell’obiettivo, e quindi la certezza del suo conseguimento, possa conservare il consenso popolare alla politica di integrazione europea e ai sacrifici che essa impone.
Per converso, nonostante l’accelerazione impressa da Romano Prodi che ha fatto dell’allargamento la priorità della sua Presidenza, la Commissione europea non ha ancora ritenuto, per nessuno dei Paesi candidati, di essere in grado di indicare una simile data, all’attuale stadio dei negoziati. Il commissario preposto all’allargamento, il socialdemocratico tedesco Guenther Verheugen, ha escluso che per tutto il 2000 una tale previsione possa essere realisticamente confermata.
Ad oggi, il Paese che ha concluso il negoziato relativamente al più alto numero dei capitoli in cui è stato suddiviso l’acquis communautaire è stato Cipro, con 16 su 31. Seguono l’Estonia e la Repubblica Ceca con 13 capitoli, la Slovenia con 12, la Polonia e l’Ungheria con 11. Quanto ai Paesi del secondo gruppo, i negoziati sono appena cominciati e i dati non possono essere considerati significativi. Nessun Paese ha però definito il capitolo più complesso, e cioè quello agricolo.
L’Unione europea mantiene, tuttavia, l’obiettivo di consentire l’adesione dei Paese candidati che abbiano portato a termine il negoziato di adesione entro la scadenza del mandato della Commissione in carica. La Presidente del Parlamento europeo, Nicole Fontaine, ha recentemente espresso l’auspicio che al prossimo rinnovo dell’Assemblea (2004) possano prendere parte gli elettori dei nuovi Stati membri e, quindi, che i loro rappresentanti possano contribuire alla procedura di nomina della subentrante Commissione europea.

3. Il mantenimento di tale obiettivo è strettamente legato all’esito della revisione dei trattati che è in corso proprio per adeguare l’assetto istituzionale dell’Unione alla nuova realtà dell’Europa allargata, adempiendo al mandato lasciato incompiuto ad Amsterdam.
I Consigli europei di Colonia (giugno 1999) e di Helsinki (dicembre 1999) hanno, infatti, posto il dicembre 2000 come data-limite per la conclusione dei lavori della Conferenza intergovernativa. La Presidenza portoghese l’ha inaugurata lo scorso 14 febbraio. Il Consiglio europeo che si è aperto oggi a Feira (19-20 giugno 2000) è chiamato ad una valutazione dello stato di avanzamento del negoziato intergovernativo, mentre al Consiglio finale del semestre di presidenza francese le modifiche ai trattati dovrebbero essere approvate definitivamente per essere poi sottoposte al giro delle ratifiche da parte degli Stati membri.
E’ un percorso a tappe forzate che consentirebbe l’entrata in vigore delle modifiche apportate nel 2002, in tempo utile per dare via libera alle eventuali adesioni dei Paesi che ne avessero maturato le condizioni. La previsione di tempi così ristretti ha senz’altro pesato sulla limitazione del mandato che il Consiglio europeo di Colonia ha posto alla Conferenza InterGovernativa e che è stato sostanzialmente concentrato nel cosiddetto “triangolo di Amsterdam”, e cioè nelle tre questioni lasciate in sospeso dalla precedente Conferenza intergovernativa, comunque imprescindibili ai fini della possibilità stessa dell’allargamento:
1) la composizione della Commissione;
2) la ponderazione dei voti all’interno del Consiglio;
3) l’estensione delle materie da votare a maggioranza qualificata.
A tali questioni è stata comunque aggiunta l’eventualità di esaminare altre modifiche che vi siano strettamente connesse.

4. Per quanto riguarda la composizione della Commissione, ad esempio, si contrappongono due opzioni: l’attribuzione di un commissario a ciascuno Stato membro oppure la previsione di un numero fisso di commissari, indipendentemente dal numero degli Stati membri. La prima opzione è favorita dai Paesi piccoli, che sono gelosi dell’opportunità di avere un portafoglio della Commissione e ritengono che sarebbero inevitabilmente penalizzati in una eventuale contrattazione degli incarichi al di fuori del criterio della nazionalità. Per tale opzione si sono espressi anche i Paesi candidati nelle consultazioni che la Presidenza portoghese ha promosso nei loro confronti: un’iniziativa apprezzabile, ma forse non sufficiente, se si tiene conto del fatto che si stanno riformando proprio le regole del gioco di quell’Unione per l’ingresso nella quale essi stanno tanto impegnandosi. In effetti, per questi Paesi la nomina di un commissario avrebbe un innegabile effetto di visibilità e di tutela dell’identità nazionale soprattutto nei primi tempi necessariamente non facili della vita comunitaria.
L’opzione opposta è sostenuta in nome della funzionalità della Commissione, che sarebbe compromessa da un elevato numero di componenti. Né incontra particolari consensi l’ipotesi di prevedere due gradi di commissari, gli uni facenti parte di un più ristretto gabinetto, gli altri investiti di funzioni di minor rilievo. I Paesi più grandi, pur disposti a rinunciare al secondo commissario di cui attualmente dispongono, sarebbero più favorevoli a fissare una volta per tutte il tetto della composizione della Commissione. Ciò anche in vista di ulteriori domande di adesione. L’Italia si è appena pronunciata per mantenere gli attuali venti componenti; Francia e Germania ne hanno proposto addirittura un ridimensionamento a quindici, proprio in nome di una maggiore funzionalità. La scelta dei commissari potrebbe essere, a questo punto, completamente slegata dall’appartenenza nazionale, secondo un modello compiutamente sovranazionale dell’esecutivo comunitario, oppure potrebbe essere soggetta ad un meccanismo di rotazione, eventualmente per aree geografiche.
La riponderazione dei voti all’interno del Consiglio, la seconda questione lasciata in sospeso ad Amsterdam, contrappone gli interessi dei Paesi grandi a quelli dei Paesi piccoli. I Paesi più popolosi vedrebbero infatti ridimensionato il loro peso da una semplice sommatoria, sia pure proporzionale, dei voti da attribuirsi ai nuovi Stati membri. Essi chiedono, inoltre, una compensazione rispetto alla perdita del secondo commissario. Si sono avanzate due soluzioni: una semplice riponderazione maggiormente fondata sul criterio demografico (avversata dai piccoli Stati) oppure la previsione di una doppia maggioranza semplice, una di Stati, l’altra di popolazione. A questo proposito, la frattura esistente fra gli Stati membri si ripropone anche tra i Paesi candidati, fra cui pure la sperequazione demografica è piuttosto marcata. Ad esempio, Polonia e Romania sono senz’altro in sintonia con gli interessi dei grandi Paesi dell’Unione.
Sull’estensione della maggioranza qualificata, il consenso di principio è senz’altro acquisito. L’unanimità, a fronte di una così ampia platea di Stati membri, rischierebbe di paralizzare la vita comunitaria, conferendo una sorta di diritto di veto a ciascuno Stato. Sembra profilarsi la possibilità di stabilire appunto il voto a maggioranza qualificata come regola generale e l’unanimità come eccezione; le differenziazioni emergono tuttavia immediatamente sull’individuazione delle materie per le quali l’unanimità andrebbe conservata, a parte quelle di carattere costituzionale o comunque vincolate a ratifica successiva. E’, ad esempio, nota l’avversione del Regno Unito a liberare dall’unanimità la materia fiscale, proprio per conservare quel diritto di veto sino ad oggi esercitato a tutela della piazza finanziaria londinese.

5. Alcune altre questioni, relative ad aggiustamenti connessi con l’allargamento, sono state pure prese in considerazione dalla Conferenza Inter Governativa, ed in particolare le dimensioni delle altre istituzioni dell’Unione. Si discute, ad esempio, sul tetto dei componenti del Parlamento europeo, fissato a settecento, per cui si rivelerebbe indispensabile ridurre al massimo a quattro la quota comunque riservata agli Stati più piccoli. Vi si oppone ovviamente il Lussemburgo, che sottolinea come una tale riduzione taglierebbe di un terzo la sua attuale rappresentanza.

6. Un’importante novità, che potrà invece riaprire i giochi della CIG e comunque offrire una nuova dimensione alla revisione dei trattati, è il recente annuncio che la Presidenza portoghese intende proporre al Consiglio europeo di Feira - oggi inauguratosi - l’estensione del mandato della Conferenza intergovernativa al tema della cooperazione rafforzata. Già il trattato di Amsterdam ha introdotto tale possibilità: gli Stati che lo vogliano sono autorizzati ad approfondire la cooperazione tra loro andando al di là dei confini segnati nei trattati, ma fruendo del quadro istituzionale dell’Unione. Tuttavia, la norma in vigore subordina a condizioni piuttosto stringenti questa facoltà, tra cui il diritto di veto da parte di uno degli Stati membri che se ne ritenga pregiudicato.
La cooperazione rafforzata – o meglio l’integrazione rafforzata, come ha proposto di definirla il Ministro degli Esteri italiano, Lamberto Dini – rappresenterebbe l’alternativa per l’approfondimento dei vincoli dell’Unione, rispetto alla difficoltà di raggiungere il consenso di ben ventotto Stati membri (quanti ne risulterebbero a seguito dell’adesione di tutti i Paesi ad oggi candidati). Del resto, anche oggi sia l’Unione economica e monetaria sia l’ambito Schengen presentano i caratteri di una cooperazione rafforzata, limitata ad una parte – benché nettamente maggioritaria – degli Stati membri.
I sostenitori di questa opzione chiedono di abolire il diritto di veto e di semplificare le modalità dell’operazione, abbassando ad un terzo degli Stati membri il minimo della partecipazione necessaria per l’avvio della cooperazione rafforzata.
Un forte impulso in questa direzione è venuto dal discorso che il Ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, ha pronunciato lo scorso 12 maggio all’Università Humboldt di Berlino. La prospettiva di un “centro di gravità” dell’Unione, costituito da quei Paesi che accetteranno di legarsi in un vero e proprio vincolo federale, si profila proprio come una cooperazione rafforzata al massimo grado. Essa potrebbe, peraltro, essere preparata proprio da analoghe forme di integrazione più stretta in alcuni campi, quali la trasformazione dell’Unione Economica e Monetaria in Unione politico-economica, la lotta alla criminalità, la politica di asilo e di immigrazione, la politica estera e di sicurezza comune.
L’interesse della proposta di Fischer va ovviamente al di là dei termini dell’attuale revisione dei trattati e prefigura una “piena parlamentarizzazione” dell’Unione. Al Parlamento europeo si affiancherebbe una seconda Camera costituita da membri dei Parlamenti nazionali, secondo una logica dichiaratamente ispirata all’esperienza federale tedesca. Gli Stati che fossero disponibili a questo passo stipulerebbero tra loro un nuovo trattato che diverrebbe il fulcro della costituenda federazione europea.
Al di là di quella che ne sarà l’immediata ricaduta sul tavolo del negoziato, la pur non ufficiale presa di posizione del ministro tedesco e la ritrovata collaborazione franco-tedesca che sembra esservi seguita hanno fatto compiere un salto di qualità al confronto sul futuro dell’Unione, come non se ne registravano almeno dall’epoca di Maastricht e dal lancio dell’Unione economica e monetaria. Di sicuro effetto è stato anche il richiamo al nucleo originario dei sei Paesi fondatori della Comunità.
L’Italia ha sempre sostenuto l’opzione federalista ed ha legato al nome di Altiero Spinelli nel 1984 l’ultimo grande progetto organico di evoluzione in senso costituzionale della costruzione europea. Oggi, tuttavia, essa deve essere aggiornata alla luce di due considerazioni. Da un lato, si tratta di tenere conto dei diversi livelli di articolazione del principio federalista e di armonizzarlo col principio di sussidiarietà, lungo un percorso che va dalla Regione, allo Stato nazionale, all’Unione. Dall’altro, si deve prendere atto della difficoltà di procedere in tal senso non solo da parte degli Stati membri tradizionalmente antifederalisti, ma anche da parte dei Paesi candidati. Non è facile per popoli che si sono solo da poco liberati dal condizionamento di una potenza straniera e che hanno riconquistato la propria individualità nazionale pensare di potervi riununciare immediatamente, sia pure per il nobile fine dell’integrazione europea.
Questo lo stato delle cose. Non posso dire come Goethe “kein engel so ist rein”.
Ma molta strada è stata fatta negli ultimi 50 anni.

Sono convinto che il futuro ci riserva una grande Europa Federale. Non so però quando, in quale luogo del tempo questo futuro si collocherà.
Né so se a quel punto, quando entrerà la Russia, si potrà ancora parlare di Europa, visto che più della metà della Russia si trova nel continente asiatico, tra gli Urali e il Pacifico.
Tucidide si chiedeva stupito per quale motivo i 3 continenti allora conosciuti, Europa, Asia e Libia, avessero tutti nomi di donna.
Quando egli nasceva era da poco morto Ecatéo di Mileto che nel suo “Giro del Mondo” aveva dedicato un libro all’Europa, per la prima volta nella storia dell’umanità.
Ma quando nasce l’Europa, si chiedeva Marc Bloch? E rispondeva: “con la caduta dell’Impero Romano”.
“Corpora non agunt nisi dissoluta” aveva scritto Aristotele e Rabelais, più brutalmente, “generation sort de corruption”.
Ciò che è generato nasce dalla decomposizione. Non sempre è così.
Nel futuro ci sarà forse la fine di questa Europa per un continente più grande.
Ma resterà il nostro orgoglio, di abitanti di questa estrema propagine occidentale nel continente euroasiatico, di aver messo in conto questa formidabile macchina politica dell’Unione Europea. E ci porterà fortuna che anche Unione Europea è un nome femminile, come quello degli altri grandi continenti.
Tucidide si chiederà ancora una volta il perché di tutti questi nomi femminili. Qualcuno di noi potrebbe rispondere che non sempre “generation sort de corruption” e che è proprio delle donne invece far nascere nuove vite.