Conoscere, riconoscere, comprendere:diamo un futuro alla memoria


Lager di Mauthausen (Austria), 05/03/2000


*** Intervento al XII Congresso Nazionale Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti ***


Il 16 maggio di cinquantacinque anni fa i deportati di Mauthausen appena liberati firmarono un manifesto con il quale affermavano la volontà di conservare nella memoria la solidarietà internazionale realizzata nel campo e trarne i dovuti insegnamenti; la volontà di percorrere una strada comune: quella della libertà di tutti i popoli, del rispetto reciproco, della collaborazione nell’opera di costruzione di un mondo libero e fondato sulla giustizia sociale. Essi concludevano l’appello chiamando tutti gli uomini del mondo ad aiutarli a realizzare questi obiettivi.
Spoglio di ogni retorica, questo appello mantiene oggi tutta intera la sua forza.

Ci vincola innanzitutto ad un impegno quotidiano contro ogni forma di discriminazione ed a riconoscerne i segni premonitori.
Sui lager si è scritto più che sul principio di discriminazione. Eppure Mauthausen, Auschwitz, Ravensbrück, la risiera di S. Sabba, Dora non sarebbero esistiti senza quel principio.
Nazismo e fascismo hanno posto a proprio fondamento il principio di discriminazione; la logica escludente dell’ “o noi o loro” è stata eretta a guida della costruzione dello Stato.
Non c’è uno iato, ma un elemento di forte connessione, tra la morte civile decretata per centinaia di migliaia di persone e l’aberrante razionalità con cui si è pianificato ed attuato lo sterminio di oltre dieci milioni di persone.

In Germania la concezione nazista del diritto aveva cancellato già nel 1935 l’idea della cittadinanza come Staatbürgerschaft per trasformarla in Reichsbürgerschaft.
Le leggi sulla cittadinanza emanate in quell’anno prevedevano infatti che potesse essere cittadino del Reich .
Nei lager nazisti accanto a 5.200.000 ebrei furono sterminati almeno 5.000.000 di oppositori politici furono sterminati 76.000 cittadini tedeschi -donne, uomini e bambini- definiti dal regime “difettosi”; furono eliminati 500.000 zingari, decine di migliaia tra mendicanti, omosessuali, obiettori di coscienza e religiosi, criminali comuni.
Questo esito è la conseguenza di quelle leggi, è la conseguenza diretta dell’affermazione e dell’attecchimento nella società del principio di discriminazione divenuto, sin dalla metà degli anni ’30, anche un assunto pedagogico.

In un libro per le elementari pubblicato a Francoforte nel 1936 si propone ai ragazzi la soluzione di questo problema: “Secondo stime prudenti vi sono 300.000 malati di mente, epilettici ecc. ricoverati. Considerando un costo per persona di 4 marchi, quanto costa il mantenimento di tali individui? Quanti prestiti matrimoniali di 1000 marchi l’uno potrebbero venir concessi con la somma in questione?”
Questo breve testo disvela, insieme alla volontà di eliminare i “difettosi”, l’altra faccia della discriminazione e del razzismo.

Barando, lo stato nazista proponeva ai cittadini uno scambio presentato come ragionevole: un benessere strumentalmente evocato a fini di consenso in cambio della libertà e della dignità civile. Il Reich escludeva i non ariani e le “persone difettose”, ma nei confronti di chi apparteneva alla Volksgemeinschaft, alla comunità del popolo, erano assicurate misure di sostegno sociale. Si sollecitava ogni famiglia ariana a moltiplicarsi nelle migliori condizioni possibili, in un contesto “purificato dai germi di corruzione interna ed esterna”.
Il razzismo ha sempre questa doppia faccia: presenta la discriminazione come ragionevole ed assicura privilegi ai non discriminati.

Lo stato nazionalsocialista, a differenza di altri sistemi totalitari, non è venuto meno alle proprie promesse; le ha interamente realizzate. Aveva detto sterminio ed ha realizzato lo sterminio. E’ stato giustamente osservato che nessun seguace successivo del nazismo ha ritenuto che i lager fossero una deviazione, un tradimento dei principi ispiratori.

Opponendo il suo radicale rifiuto alla discriminazione la Lotta di Liberazione dal nazifascismo è stata innanzitutto una lotta per la riconquista dei valori fondativi della identità e della civiltà europea.
Il primato della persona nella gerarchia dei valori, con il suo complesso di diritti e di doveri, l’equilibrio tra giustizia sociale e sviluppo economico costituiscono i cardini di questa identità ed hanno segnato in questi cinquantacinque anni la differenza tra l’Europa e le altre grandi aree di sviluppo che si sono affermate nella dimensione globale dell’economia, delle comunicazioni, della cultura: quella americana che pone al centro il mercato ed il profitto, quella asiatica che si fonda sulle gerarchie sociali.

Le radici profonde di questa comune matrice europea attingono al patrimonio culturale e civile derivante dall’antica filosofia greca, dal concetto cristiano di persona, dalle garanzie giuridiche elaborate nel mondo romano, dalla civiltà del Rinascimento, dagli ideali della Rivoluzione francese, dalla lotta contro tutti i totalitarismi.
A partire da questa tavola di valori comuni possiamo dare slancio e sviluppo al processo di unificazione europea.
La costruzione, su queste basi, di un’identità europea è inoltre indispensabile per compensare e contrastare alcuni effetti negativi della globalizzazione, affermando nella società globale valori ed ideali propri della persona.

Oggi la costruzione dell''Europa è a un punto di svolta.
L’Unione Europea sta elaborando la Carta dei diritti fondamentali in cui dovranno trovare riconoscimento i diritti dell’uomo sanciti dal diritto internazionale, i diritti fondamentali riconosciuti in tutta l’Unione Europea ed i diritti direttamente connessi alla cittadinanza europea.
Inoltre nella risoluzione approvata il 16 marzo dal Parlamento Europeo viene richiesto esplicitamente che all’interno della Carta dei diritti sia inserita la clausola generale di non discriminazione.
In questo modo nella Carta europea si invera un punto essenziale dell’appello che cinquantacinque anni fa fu sottoscritto qui a Mauthausen.

Di fronte alla minaccia dei nuovi razzismi l’assunzione di questo principio significa assumere a paradigma dell’identità civile e politica dell’Europa, e della stessa costruzione dell’Unione, il rispetto delle diverse identità, nella consapevolezza che l’integrazione è un processo di inclusione che si realizza ponendo al centro i diritti e i doveri della persona.


Oggi la memoria dei campi è minacciata.
A me pare soprattutto che sia minacciata dalla mancanza di storia. Aggiungerei volentieri al dovere della memoria il dovere della storia. Trovo infatti pericoloso spostare questa tragedia e la pedagogia che ne scaturisce dal terreno dei fatti, dei dati, allo spazio della memoria che rischia di essere inevitabilmente soggettiva e tendenzialmente letteraria.
Contro Mauthausen, contro Auschwitz, contro il nazismo, contro il fascismo, contro il razzismo, si educa con la storia, con la forza dei fatti e della ragione. Poi sulla storia si potrà innestare la memoria. Io temo però una memoria che con il tempo si distacchi dalla storia.
La storia è comunicabile, può essere oggetto di un insegnamento, può entrare a far parte direttamente del patrimonio di ciascuno, può essere la base, anzi in genere è la base per una formazione ed un’identità civili.
La memoria invece ha un tasso di soggettività altissimo; scissa dalla storia può stimolare sentimenti, compassioni, desiderio di lotta, ma difficilmente riesce a dar vita ad una permanente posizione civile.
D’altra parte oggi ai negazionisti si è affiancata un’altra concezione, quella dei “neutralisti”, coloro che per moda, per calcolo, od anche per mancanza di conoscenze o per timore di schierarsi, non negano lo sterminio nei campi, ma discutono questo o quell’aspetto, si chiedono se poi è proprio tutto vero e comunque perché non parlare anche dei gulag; ti dicono che alla fin dei conti si tratta di propaganda, di parti politiche che strumentalizzano quella tragedia e così via.
Solo la storia può rispondere al neutralismo.
Agli insegnanti che mi chiedono qualche suggerimento su come insegnare i campi, consiglio la lettura di un libro francese pubblicato nel 1997 da un insegnante di storia nei licei francesi, Jean-Francois Forges, Eduquer contre Auschwitz (ESF editore). Questo pedagogista, perché la pedagogia è lo scopo del libro, aggiunge ai due tradizionali pericoli, il negazionismo e il revisionismo, un terzo pericolo: la sacralizzazione, una memoria che scarta tutto ciò che può porre problemi, fissa ed immobile, che non comprende il dubbio e quindi che rischia di farlo diventare certezza. Solo la storia può evitare il rischio della sacralizzazione.
Sull’importanza della storia insiste anche un bel volume italiano, Insegnare Auschwitz, pubblicato nel 1995 a cura dell’IRRSAE Piemonte, da Bollati Boringhieri.
Solo la storia può spiegare la differenza tra gulag e lager senza usare gli uni per giustificare gli altri, in un cinico bilanciamento di tragedie.
La storia può ridare voce ai deportati politici, a quei cinque milioni di donne e di uomini che furono deportati e uccisi perché combattevano contro il nazismo e contro il fascismo e che rischiano la dimenticanza per effetto dell’enormità dello sterminio degli ebrei. La storia può ricordarci delle migliaia di soldati italiani che finirono nei campi perché rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime di Salò.
Solo la storia, in definitiva ci può consegnare una verità che diventa coscienza civile.
La storia è anche verifica con i propri occhi.

Nei decenni che si sono susseguiti dopo la fine dello sterminio e della deportazione nei lager si è spezzato il rapporto tra le giovani generazioni e l’immediato passato.
Dall’indomani della Liberazione, e per decenni, gli organi di informazione, ma anche ampi settori del mondo politico, hanno confuso i deportati con gli internati militari, e tutti questi con i reduci.
Negli anni ''45-’60 lo spazio editoriale per le loro memorie fu particolarmente limitato, mentre la storiografia sino ad anni molto recenti ha lasciato questi temi ai margini della sua riflessione. Tutto ciò ha determinato ulteriori sofferenze, isolamenti e solitudini per chi aveva già subito sulla propria pelle, nel proprio animo, le lacerazioni inflitte dagli uomini inumani dei lager.
Sul piano politico e storico ciò ha determinato una sottovalutazione del ruolo che i deportati politici e gli internati militari, ebbero nella lotta antifascista, nella costruzione della democrazia, nell''affermazione dei valori che sono il fondamento della nostra Costituzione. Abbiamo il dovere di un risarcimento che solo la storia può interamente soddisfare.

Dal 1998 il Ministero della Pubblica Istruzione ha avviato il progetto “I giovani e la memoria”. Il progetto ha già coinvolto migliaia di ragazzi in tutto il Paese, consentendo a molti di loro di poter conoscere direttamente i monumenti silenziosi della discriminazione e dello sterminio razzista: dai testi normativi che cancellarono i diritti civili di 40.000 cittadini italiani ai luoghi dell’annientamento fisico di milioni di ebrei, di detenuti politici, di persone definite da Hitler “difettose”.
Una di quelle visite vale come cento lezioni di storia. Ho discusso personalmente in alcune scuole i risultati di queste visite ed i lavori che i ragazzi hanno fatto prima e dopo la visita.. E’ straordinaria la qualità di questi lavori. Pregherei l’ANED di considerare l’opportunità costituire un fondo per conservare questi lavori; i costi sarebbero contenuti, altissimo il valore civile e pedagogico della raccolta.

Come ci ricorda Raul Hilberg, in queste vicende, è fondamentale non prenderci delle libertà con i fatti.
La serietà e la forza di un’argomentazione storica, soprattutto quando cresce la distanza tra le generazioni che hanno vissuto lo sterminio e coloro che non l’hanno conosciuto, sta in questa etica della ricerca e della verità dei fatti.
L’ irriducibilità e l’unicità dello sterminio nazista non debbono essere fattori che ne ostacolano la specifica conoscenza storica.
Al rischio di fornire dei Lager un’immagine “epica” ed astorica, che porta con sé una deresponsabilizzazione per il passato e per il presente, dobbiamo opporre la concretezza cui ci ha richiamato anche recentemente Elie Wiesel (intervista ad un quotidiano italiano, 2 febbraio 2000) “nessun delitto è avvenuto come il genocidio razzista: ad occhi aperti, propositi annunciati, risultati esaltati e celebrati. Nessun delitto è avvenuto ad un livello così alto. Case regnanti, Capi di Stato, silenzi discreti, sostegno esplicito di Parlamenti, intellettuali, burocrati, militari ed un mare di gente comune che, di propria iniziativa, non avrebbe fatto male a nessuno, ma, ricevuti ordini ed incoraggiamenti, ha scrupolosamente fatto morire ciascun bambino, ciascuna donna, ciascun adulto, vecchio, malato, morente indicato come ebreo da leggi regolarmente approvate. Tutto ciò è finito solo quando coloro che si erano dedicati ad un simile progetto sono stati costretti dalla forza a finire: non quando è finito il consenso".
A volte si usa il termine olocausto, anche da parti insospettabili per definire lo sterminio nazista. Il termine si presta ad equivoco. Olocausto, infatti, è un sacrificio che si compie in espiazione di un male commesso. E la vittima è tale proprio perchè deve riscattare sé stesso o qualcun altro da quel male. Niente di più sbagliato quando si parla dei deportati e degli uccisi nei lager.
Corretto, invece, è il termine “sterminio”.


I lager non furono un crimine contro l’uomo categoria astratta, ma un crimine commesso contro milioni di uomini donne e bambini in carne ed ossa, da altri uomini che portarono lucidamente alle estreme conseguenze l’aberrante principio della discriminazione.
La coscienza di questo dato è fondamentale per affrontare con consapevolezza e con determinazione l’impegno nel presente e nel futuro contro ogni forma di discriminazione, contro ogni tentativo di giustificare l’esclusione dell’altro.
Educare contro Mauthausen, contro Auschwitz, contro la Risiera di S. Sabba significa combattere inflessibilmente anche la più tenue “comprensione” nei confronti della più tenue delle umiliazioni o delle discriminazioni verso chi è diverso da sé.
Il principio di discriminazione non è sempre autoevidente ed occorre un lavoro incessante per saper cogliere i segni essenziali di quel principio, non solo nel discorso ideologico ma anche nelle cosiddette “argomentazioni ragionevoli”.
I fenomeni di regionalismo antistatuale, di nazionalismi e di populismi che oggi preoccupano l’Europa fanno leva su concetti ambigui come il “diritto alla differenza” o il “rispetto delle differenze” per affermare il principio imperativo del “ciascuno a casa propria”.
Alla base di questi fenomeni c’è una sorta di “ripiegamento comunitario”, una risposta in termini arcaici a un bisogno reale di appartenenza e di identità. E’ una risposta rivolta al passato, alla discriminazione. Ad essa va contrapposta una concezione che guarda al futuro, all’integrazione e che contrappone la cittadinanza intesa come insieme di diritti e di doveri uguali per tutti al nazionalismo come appartenenza fondata sulle tradizioni, sulle lingue locali e sulla terra, nonché sulla discriminazione dell’altro.
La pedagogia della storia, la politica della memoria, il rispetto intransigente dei valori della Resistenza europea, dei quali i deportati sono autori e testimoni, devono costituire i punti di riferimento essenziali del nostro impegno quotidiano per il radicamento e lo sviluppo della democrazia.
Di qui discende la capacità delle moderne società democratiche di costruire concretamente “comunità politiche sempre più ampie”, nelle quali l’elaborazione dell’identità si fonda non sulla paura e sulla chiusura, ma sulla libertà e sull’apertura alla diversità, sulla convivenza di culture, stili di vita, razze, religioni, che si riconoscono e si rispettano reciprocamente nella consapevolezza dei diritti e dei doveri che reciprocamente ci uniscono.