Seduta n. 304 del 28/1/1998

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Si riprende la discussione.

(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 3931)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Danieli. Ne ha facoltà.

FRANCO DANIELI. Presidente, colleghi, la possibilità che abbiamo oggi di discutere in quest'aula della proposta di modifica della seconda parte della Costituzione è senz'altro da attribuire alla determinazione con la quale l'onorevole D'Alema ha lavorato. L'idea di un'organica riforma costituzionale ha attraversato la vita di questo paese per lo meno per un paio di decenni, ma mai si era tradotta in un testo passato all'esame dell'aula.
Merito di ciò va riconosciuto a chi ha sempre creduto, profondamente creduto, nella necessità di tale riforma. Ma accanto a costoro vi è una folta schiera di opportunisti. Una folta schiera di soggetti che approfittano di tale occasione per ragioni di parte, per interessi di bottega. D'altronde, anche i tempi storici, che sono diversi, si prestano ad esaltare i piccoli protagonisti di tali vicende, che però, purtroppo, possono avere un peso rilevante nell'elaborazione del testo. Questo è infatti un rischio concreto, in qualche modo già presente. Se è vero che la storia non ci ha chiamati a difendere la democrazia, ma «solo» a guidare verso un esito positivo un paese sfiancato da una lunga transizione, il compito è comunque difficile e lo strumento deve essere naturalmente adeguato.
Ed allora, il rischio è che la normale mediazione e il compromesso necessario tra le diverse ispirazioni ideali e pratiche dei protagonisti politici si trasformino in un grave deficit di coerenza e di chiarezza nel testo finale. È una preoccupazione infondata? Purtroppo mi sembra che su diversi aspetti essenziali ci troviamo di fronte a rischi concreti.
La questione della giustizia è uno dei punti rilevanti, dolenti. Abbiamo assistito ad una virulenta azione in proposito che, dopo una lunga serie di passaggi (articolo 513, autorizzazione all'arresto dell'onorevole Previti, campagne denigratorie nei confronti di quelle poche procure impegnate a disvelare l'intreccio tra politica, affari, mafia e massoneria), adesso vorrebbe intervenire addirittura sulla Carta costituzionale per limitare l'azione della


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magistratura. Questo è solo un esempio, sicuramente rilevante; altri ve ne sarebbero da indicare.
Concludo, Presidente, dicendo che se il testo sarà organico, nulla avremo da obiettare, ma se sarà un testo disorganico, allora chiederemo che i cittadini si esprimano su quesiti referendari plurimi, per ricondurre ad organicità un testo che altrimenti sarebbe uno strumento inidoneo per concludere la lunga transizione italiana verso la democrazia.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Danieli.
È iscritto a parlare l'onorevole Masi. Ne ha facoltà.

DIEGO MASI. Presidente, colleghi, il giudizio del patto Segni-liberali è decisamente negativo sul testo uscito dalla bicamerale, per due ragioni principali. Perché questa non è la grande riforma adeguata ad affrontare la sfida europea, rispetto alla quale, a fronte della cessione di parte consistente della sovranità nazionale all'Europa, si sarebbe dovuto contrapporre un ordinamento più forte, snello, agile ed efficiente.
Inoltre, perché non è la grande riforma necessaria a farci entrare nel 2000, attrezzati a gestire i cambiamenti in un'economia globale che stravolgerà le nostre abitudini di vita e di lavoro.
Ci sarebbe voluta una assemblea costituente per riscrivere tutto lo statuto dell'azienda Italia, un'assemblea votata dai cittadini, perché il futuro del nostro paese, il futuro dei nostri figli, il modello di sviluppo di questo paese erano la posta in gioco; ed erano loro che dovevano deciderli. Ed invece, il voto non c'è stato. Le scelte saranno quindi effettuate dal sistema dei partiti e non dai cittadini.
Ma ormai è fatta! La bicamerale ha prodotto il suo pasticcio: una modesta revisione, una piccola razionalizzazione dell'esistente. Tutto qui! Utile - per carità! - ma terribilmente, desolatamente inadeguata.
La bicamerale ha ridisegnato una riforma basata sul sistema statalista, sulla guida partitocratica, burocratica, sindacale, in piena continuità con il passato; un disegno assecondato da un Polo per le libertà, che si è arreso a D'Alema.
Il momento storico, la sfida della globalizzazione, l'ingresso in Europa, la perdita di sovranità avrebbero richiesto un vero cambio di pagina, una grande riforma liberaldemocratica basata sui valori di autonomia, di responsabilità, di libertà. Con questi valori avremmo retto il confronto europeo, con uno Stato regolatore e non gestore, più libero, con meno tasse, meno vincoli, meno burocrazia, per liberare le energie innovative del nostro paese ed avviarne la modernizzazione.
Domani qui a Montecitorio, in un incontro promosso dal nostro gruppo - patto Segni-liberali - con Buttiglione, Martino, Segni e il Presidente Cossiga, presenteremo il nostro progetto liberaldemocratico alternativo alla bicamerale. Tutto è perduto? Non ancora! C'è la lunga battaglia in aula, il cui esito è tutto da scrivere. E c'è un fatto nuovo: si avverte un cambio di clima, un differente atteggiamento del Polo, con forza Italia che sembra volere finalmente cominciare a battersi su alcuni principi condivisibili. Vedremo se lo faranno. Lo speriamo.
Per noi, sei sono i punti essenziali per cambiare in meglio questo pasticcio: statuti speciali alle regioni ed ai comuni, con meno Stato e tantissima autonomia; un vero Senato delle regioni; un Presidente della Repubblica eletto con veri poteri di Capo di Governo, oltre che di Stato; una maggiore presenza dei privati e del volontariato nei servizi dello Stato; una giustizia più giusta, con la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante; una legge elettorale che dia più peso ai cittadini e meno ai partiti.
Ma, se rimarrà un pasticcio, al termine di tutto c'è sempre il referendum popolare di conferma. I cittadini potranno respingerlo, condannando giustamente una classe politica che, senza coraggio né visione, ha privilegiato il suo potere rispetto allo sviluppo ed alle sfide del paese.


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zeller. Ne ha facoltà.

KARL ZELLER. Signor Presidente, onorevoli colleghi, anche la presente proposta, nonostante il nuovo titolo («Ordinamento federale della Repubblica»), non contiene i requisiti minimi per essere degna di questo nome. Innanzitutto, manca un potere costituente delle regioni, così come previsto in tutti gli altri Stati federali. Inoltre, l'elenco delle competenze statali comprende trenta materie, riducendo a ben poco le competenze residuali delle regioni. Come se non bastasse, allo Stato viene conferito il potere di intervenire anche in tutte le competenze regionali, in nome dell'interesse nazionale.
In alcuni campi il progetto di riforma segna addirittura passi indietro. Le materie concernenti la sanità e la tutela della salute e dell'ambiente, saranno disciplinati, d'ora in poi, dallo Stato, mentre attualmente le regioni godono almeno di competenze concorrenti.
Tali carenze vengono aggravate dal fatto che non si prevede il Senato delle autonomie. La sessione speciale del Senato non è un correttivo soddisfacente, essendo un organismo privo di poteri reali di codecisione. Assai singolare appare il fatto che la composizione integrata del Senato non è competente per le materie di vitale interesse regionale, per esempio, per il riparto delle competenze amministrative e dei beni demaniali tra Stato, regioni, province e comuni.
Credo che l'errore di fondo della proposta sia ravvisabile nella finzione che tutte le regioni ordinarie siano uguali e debbano avere un assetto uniforme. Di conseguenza, si è orientati alla velocità del più lento, al minimo denominatore comune.
In sintesi, la riforma proposta non è né carne né pesce, né un regionalismo alla catalana né, tanto meno, un federalismo alla tedesca. Non a caso la parola federale, al di là del titolo, non appare in alcuno degli articoli, quasi si trattasse di un errore di stampa.
Per quanto attiene alle regioni speciali, non si affronta il problema dell'autonomia statutaria delle stesse. Secondo il testo proposto, le regioni ordinarie hanno una, seppur limitata, potestà statutaria, mentre paradossalmente sugli statuti speciali continua a decidere unilateralmente il Parlamento nazionale. Per questo motivo è assolutamente necessario che venga riconosciuto il carattere pattizio delle autonomie speciali. Le proposte per le modifiche statutarie devono essere vincolanti e provenire dai consigli regionali e per il Trentino-Alto Adige dalle due province autonome di Trento e Bolzano.
Inoltre, non si è fatto alcun passo per riconoscere alle due province di Trento e Bolzano lo status di regione. Sarebbe stato invece ragionevole eliminare il carrozzone burocratico della regione Trentino-Alto Adige, introdotto contro la volontà della popolazione sudtirolese.
La limitazione del numero dei senatori a quattro nella regione Trentino-Alto Adige, riducendo in buona sostanza a due i senatori eletti nella provincia di Bolzano, cozza apertamente contro la misura 111 del pacchetto, che presuppone tre senatori per consentire la rappresentanza proporzionale dei gruppi linguistici ivi residenti.
Dato che il testo nell'attuale formulazione non ha nulla a che vedere con un federalismo vero e serio e per di più contrasta con precisi impegni internazionali, vanno apportate modifiche profonde ed incisive; altrimenti il giudizio della S\)dtiroler Volkspartei e dell'intero popolo sudtirolese resterà negativo (Applausi dei deputati del gruppo misto minoranze linguistiche).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crema. Ne ha facoltà.

GIOVANNI CREMA. Signor Presidente, signor presidente della Commissione bicamerale, colleghi, i socialisti italiani hanno sostenuto il processo riformatore della seconda parte della nostra Costituzione in Commissione bicamerale, in Parlamento con l'approvazione della legge che la istituì e nel paese. Mai ne abbiamo


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ostacolato il lavoro, consapevoli che il fallimento dell'azione riformatrice sarebbe una cosa non più sopportabile dai cittadini e che determinerebbe anche il fallimento dell'intera classe politica e la delegittimazione del Parlamento.
Ecco perché il nostro impegno è stato tale da favorire la stesura di un testo definitivo della Commissione bicamerale, anche se rispetto ad alcuni suoi punti manifestiamo dubbi ed esprimiamo una non totale condivisione.
Va dato atto al presidente D'Alema e a tutti gli altri colleghi della Commissione di aver lavorato con molto impegno, elaborando una proposta che contiene molte parti positive, con alcune contraddizioni e carenze che a nostro avviso l'Assemblea deve impegnarsi a correggere e a colmare.
I deputati socialisti ritengono che il travagliato voto a favore del sistema semipresidenziale abbia portato successivamente ad una attenzione esclusiva sulla forma di governo, con un insufficiente approfondimento sul bicameralismo e sulla forma dello Stato, con il risultato di avere un sistema squilibrato tra i poteri, tale da far venir meno la necessaria garanzia di efficienza e di tenuta.
La positiva scelta dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica richiede una coerente scelta dei poteri, che non possono essere meramente rappresentativi, bensì politici. Dobbiamo evitare il rischio di gravi conflitti istituzionali, derivanti dalla legittimazione popolare del Presidente, con i poteri di governo. A nostro avviso non vanno operati ritocchi che ne riducano ulteriormente le funzioni, anzi auspichiamo che, se qualche ritocco verrà fatto, sia nel segno di rafforzare la figura istituzionale del Presidente della Repubblica, così come prevedeva il testo originario del relatore, senatore Salvi.
Altri sono i riequilibri e i contrappesi che vanno introdotti: un bicameralismo adeguato alla nuova forma di Stato, un federalismo cooperativo e sussidiario, una libera ed efficiente giustizia.
La riforma dello Stato deve guardare al futuro, all'Italia in Europa. Quindi, se rimarremo a pieno titolo nell'Unione europea, sarà l'Europa che ci federalizzerà. La domanda allora è la seguente: quale federalismo europeo? La risposta è una sola: sarà quello dell'Europa delle regioni.
Dobbiamo essere consapevoli che, se non entriamo in Europa, corriamo il rischio che sia la secessione a dettare il federalismo, perché il paese tenderà a spaccarsi e i paesi che entreranno nell'Europa unita lo aiuteranno a spaccarsi, poiché rifiuteranno i rischi concorrenziali che il nord dell'Italia rappresenterebbe sul piano monetario ed economico.
Quello che vogliamo per l'Italia è un federalismo cooperativo, capace di far cooperare fra loro le istituzioni sulla base di una loro pari dignità e di applicare il principio della sussidiarietà. I requisiti di tale riforma sono l'autonomia legislativa ed il governo, l'autonomia e la responsabilità finanziaria delle regioni e dei comuni, il superamento dell'attuale bicameralismo perfetto, con l'istituzione a fianco di una Camera politica - una Camera dei deputati eletta direttamente dai cittadini - e di una seconda Camera in rappresentanza delle comunità territoriali ovvero sia il Senato delle regioni, in parte eletta direttamente e in parte in rappresentanza dei governi regionali. Da ultimo, la piena valorizzazione delle autonomie locali.
La riforma sarà realizzata per fasi successive poiché il trasferimento reale di competenze e funzioni non sarà rapidissimo. In questo quadro vanno previsti i momenti differenziati in cui alcune regioni saranno in grado di assumere subito determinate competenze e funzioni, altri invece in fase successiva.
Per quanto riguarda il sistema dei diritti e delle libertà dei cittadini sul loro esercizio e sul quadro di garanzie giuridiche e giurisdizionali, ha troppo pesato l'attualità di fatti e interessi che ha posto al centro dell'attenzione la giustizia penale. Dobbiamo recuperare la serenità e la lucidità per volare alto, con l'obiettivo di rispondere alle esigenze di una giustizia che funzioni in tempi certi e ragionevoli, con forme, modalità e costi apprezzabili e sostenibili per i cittadini e per la collettività.

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Come ha ricordato bene ieri l'onorevole Acquarone, il ricorso alla giustizia penale dovrebbe essere raro e patologico, mentre molto più costante è quello con i giudici civili, tributari, amministrativi. Io credo che vada fatta chiarezza e ricercata in aula una soluzione più consona al problema che è al centro di mille polemiche e di mille strumentalizzazioni. Faccio riferimento alla separazione delle funzioni giudicanti da quelle inquirenti. I socialisti hanno sostenuto, e sostengono, l'applicazione anche in Italia della recente risoluzione del Parlamento europeo che i parlamentari del PDS e socialisti italiani del gruppo parlamentare socialista di Strasburgo hanno votato insieme. È possibile che la sinistra riformista lasci alla destra italiana il compito di difendere una scelta che l'accomuna in tutt'Europa?
Noi rinnoviamo il nostro impegno per migliorare il testo licenziato dalla Commissione bicamerale, dando atto al relatore Boato del positivo lavoro svolto, che trova il nostro sostegno.
È con sincera emozione, signor Presidente, che i deputati del partito dei socialisti italiani si accingono a rinnovare e ad onorare l'impegno politico e culturale dei loro predecessori profuso in quest'aula cinquant'anni or sono (Applausi dei deputati dei gruppi misto-socialisti italiani, dei popolari e democratici-l'Ulivo e misto-verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Buttiglione. Ne ha facoltà.

ROCCO BUTTIGLIONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è ben noto che quando si è posto in questo Parlamento il problema delle riforme istituzionali il CDU ha espresso la sua preferenza per lo strumento dell'assemblea costituente. Tale preferenza aveva molte ragioni di principio. Abbiamo qui un Parlamento eletto con il sistema maggioritario e le coalizioni proposte al giudizio degli elettori fanno in modo che la grande maggioranza per le riforme che esiste nel paese sia in questo Parlamento sottorappresentata. Abbiamo avuto poi una componente importante di questa maggioranza per le riforme (mi riferisco alla lega nord, con la quale ho avuto molte e gravi occasioni di polemica perché noi crediamo nella nazione italiana e su questo siamo intransigenti) che tuttavia si è chiamata fuori dal discorso politico sulle riforme, intervenendovi solo episodicamente. Questo ha ulteriormente sottorappresentato la maggioranza riformista del paese nelle aule parlamentari.
Tale maggioranza riformista è però così grande, così forte che sarebbe egualmente in grado di fare le riforme se solo fosse realizzata una condizione, quella stessa che noi abbiamo posto all'inizio del processo riformatore, vale a dire se questa maggioranza riformista è in grado di incontrarsi, di parlarsi e di decidere fuori dalla mediazione oppressiva delle logiche di schieramento. È questo il presupposto sul quale la bicamerale è partita, perché allora tutti ebbero a riconoscere questa necessità e questa libertà.
Il decorso politico della bicamerale non ha corrisposto a queste aspettative. Abbiamo visto che il lavoro della bicamerale è stato sempre più imbrigliato in una rete di patti, tra partiti e coalizioni, che hanno frantumato la maggioranza riformatrice. Il lavoro della bicamerale ha finito con l'essere affidato in gran parte ad una mediazione politica ed il risultato non è esaltante. Per quanto bene abbiano lavorato i Comitati e per quanto sia encomiabile lo sforzo compiuto dai relatori - tengo a ricordare in modo particolare l'eccellente lavoro svolto dalla senatrice Dentamaro e dal suo Comitato - quel risultato non può non lasciare perplessi.
Abbiamo un sistema in base al quale il Presidente della Repubblica viene eletto dal popolo, ma non ha poteri di indirizzo politico e di governo. Vorrei ricordare agli amici di alleanza nazionale che un sistema presidenziale si definisce tale perché il Presidente della Repubblica ha poteri di indirizzo politico e di governo, anche se non è eletto dal popolo. La Costituzione francese del 1958, ad esempio, non prevede l'elezione diretta da parte del popolo del Presidente della Repubblica, ma prevede che questi presieda


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il Consiglio dei ministri. È poi ragionevole che, avendogli dato questi poteri, si stabilisca anche l'elezione diretta da parte del popolo: è la massima legittimazione democratica.
Avere un Presidente della Repubblica eletto dal popolo con poteri limitati significa creare le condizioni per un conflitto istituzionale sistematico. Molto francamente, desidererei un'Italia semipresidenziale; può andarmi bene un'Italia con un sistema serio di cancellierato; il presidenzialismo finto è la soluzione peggiore.
Abbiamo una Costituzione che parla di federalismo, ma manca il luogo in cui la sovranità delle regioni - in un sistema federale c'è la sovranità delle regioni - converga a creare la sovranità nazionale, qualcosa che somigli al Senato degli Stati Uniti, originariamente composto da due ambasciatori per ogni Stato che così esprime la sua sovranità e pariteticità con gli altri, o qualcosa che somigli al Bundesrat tedesco. Non abbiamo certezze sulla ripartizione delle risorse tra centro e periferia, quindi non c'è un patto tra centro e periferia per dare consistenza allo Stato federale.
Abbiamo enunciato un principio di sussidiarietà senza che esista nessuna garanzia per la sfera della famiglia, dell'impresa, della società civile, contro l'inframmettenza dello Stato.
Abbiamo un'unica carriera della magistratura ma due Consigli superiori della magistratura, mascherati come due sezioni di uno stesso organo.
Una Costituzione così rischia di non funzionare o di funzionare soltanto sulla base di patti parasociali, conclusi fra i partiti, regalandoci un nuovo consociativismo e rinunciando all'idea forte delle riforme: riportare nelle istituzioni la mediazione politica, dare una traduzione limpida alla volontà popolare.
Rivolgiamo un appello alla maggioranza riformista che c'è in quest'aula, perché emendi sostanzialmente il risultato della bicamerale. Siamo convinti che questo sia possibile ma, se non accadesse, sposteremmo inevitabilmente la battaglia dal Parlamento nel paese (Applausi dei deputati del gruppo misto-CDU).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Paissan. Ne ha facoltà.

MAURO PAISSAN. Signor Presidente, colleghe e colleghi della Commissione, signori deputati, i verdi si ritengono partecipi, in qualche misura protagonisti dell'opera di ridisegno del nostro Stato e delle nostre istituzioni. Abbiamo collaborato attivamente, con i nostri rappresentanti, al lavoro della Commissione bicamerale e altrettanto attivamente prenderemo parte all'esame del testo che si svolgerà in quest'aula, esprimendo consensi e dissensi e proponendo modifiche e correzioni.
Pensiamo così, con questa nostra azione, di aver già dato una risposta alla questione che il presidente D'Alema ha posto nella sua relazione, quando ha invitato alla riforma della Carta costituzionale del 1948 anche le forze - cito dalla sua relazione - «espressione di sensibilità e culture di formazione assai più recente»; più recenti, intendeva, rispetto alla fase costituente del dopoguerra. È il caso dei verdi che, come è noto, non esistevano nel 1948.
Sia però ben chiaro che a quella Carta costituzionale del 1948 i verdi si sentono fortemente legati per i valori ed i principi fondamentali, e a quei costituenti noi esprimiamo riconoscimento e gratitudine. Ma oggi possiamo partecipare a pieno titolo, in quanto verdi, all'impresa costituente: è quanto stiamo facendo, è quanto faremo.
Molti osservatori, ma anche parecchi esponenti politici e oratori in quest'aula mettono in risalto in queste ore come l'esame del nuovo testo costituzionale stia avvenendo sotto tono, quasi in un clima di disattenzione nel paese. È certamente negativa l'incapacità di noi politici e parlamentari di coinvolgere i cittadini in questo nostro lavoro, che finirà per avere concretissime conseguenze sulla loro vita. Ma non c'è solo questo aspetto negativo


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perché si avverte la sensazione, forse non consapevole, che la maturazione politica del nostro paese passi più dalla concretezza delle scelte politiche anziché dalla riscrittura formale delle regole.
In altre parole è stata la politica, la sua evoluzione, la scelta politica non una nuova regola scritta a fare - per esempio - del Governo in carica un Governo stabile, legato direttamente ai cittadini, tanto che chi intendesse metterlo in crisi venendo meno al patto elettorale verrebbe penalizzato dall'elettorato, com'è avvenuto di recente.
Ho voluto ricordare questo dato di realtà per dare le giuste proporzioni al nostro lavoro, ma soprattutto per richiamarci alla necessità di non costringere il futuro del paese entro gabbie troppo strette, essendo la fantasia dell'evoluzione politica per fortuna assai più interessante e prolifica delle nostre codificazioni momentanee.
Mi limiterò ad alcune osservazioni sulle parti più problematiche della proposta al nostro esame, iniziando dall'ultima parte riguardante il sistema delle garanzie, di cui è relatore il collega verde Marco Boato. Dico subito chiaramente che una cosa sono le interviste, le dichiarazioni, le polemiche che hanno accompagnato da vari versanti il lavoro svolto su questa parte - il mio giudizio al riguardo non è positivo, ma ha poca importanza in questa sede -, un'altra sono le scelte di fondo in tema di diritti e garanzie che ispirano l'articolato proposto dalla Commissione. Penso che tali scelte rappresentino un sicuro progresso, un indubitabile passo in avanti verso una civiltà più evoluta nel rapporto tra il cittadino e la giustizia. Molte cose sono ancora da correggere e una da estirpare: la divisione in due sezioni del Consiglio superiore della magistratura, alla quale siamo nettamente contrari. Personalmente sono contrario anche alla riproposizione in Costituzione, come sarebbe nelle intenzioni di alcuni settori politici, della divisione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
Innovando questa parte della Costituzione dobbiamo riuscire ad affermare un reale garantismo dalla parte dei cittadini, non certo dei potenti; ad affermare l'autonomia non l'irresponsabilità dei magistrati. In tema di garanzie penali e processuali il testo è comunque più ricco della Carta del 1948. Certo, può essere e va migliorato, ma non scardinato.
Per quanto riguarda la forma di governo la soluzione scaturita dalla votazione della bicamerale, ossia l'elezione diretta del Presidente della Repubblica che rappresenta un semipresidenzialismo attenuato, come è stato definito, non corrisponde alla proposta dei verdi. Noi proponevamo sostanzialmente il modello tedesco che continuiamo a ritenere in grado di assicurare governabilità, stabilità, rappresentanza democratica. Non diciamo che l'ipotesi in discussione è antidemocratica o autoritaria, ripeto non lo diciamo, ma non ci piace; non ci piace anche perché il nostro sistema politico è ancora in fase di assestamento dopo il terremoto di questi anni. E strumenti in sé non antidemocratici, come l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, si prestano a usi impropri nell'attuale fase non ancora di sedimentazione. Poiché ci sembra poco realistico pensare di poter rovesciare in Assemblea, su questo punto, il voto della bicamerale, punteremo ad attenuare quelli che consideriamo i rischi di tale modello con emendamenti che riducano i poteri presidenziali in ordine soprattutto alla vita del Governo.
Consideriamo poi parte essenziale di un possibile accordo l'ipotesi di legge elettorale contenuta nell'ordine del giorno votato dalla Commissione. Il venir meno di quel puntello farebbe crollare l'intera costruzione.
La parte che più ci preoccupa come ambientalisti è quella sulla forma di Stato. Richiamo l'attenzione del presidente D'Alema e del relatore D'Onofrio su questo punto, in particolare sulla divisione delle competenze tra Stato e regioni in materia ambientale. Siamo preoccupati della formulazione proposta dalla Commissione. Siamo addirittura inquieti rispetto alle proposte emendative dei presidenti delle regioni e di alcuni sindaci su

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tale aspetto. Stiamo attenti - e lo diciamo da federalisti - a spezzettare le competenze rispetto al bene ambiente. Rischiamo una regressione spaventosa ed anche un urto frontale con le disposizioni della prima parte della Costituzione considerato che, secondo le sentenze della Corte, l'ambiente è uno dei valori imprescindibili del nostro ordinamento. Facciamo alcuni esempi, per intenderci: in quali mani, senatore D'Onofrio, finiranno, con il nuovo testo, i parchi nazionali? Rientrano nella definizione di beni ambientali? Vorrei conoscere il suo parere poiché ciò è tutt'altro che chiaro. Anche nei federalissimi Stati Uniti d'America i parchi nazionali non sono assegnati ai singoli Stati, come ha ricordato proprio ieri in un comunicato ufficiale il ministro Bassanini. Un altro esempio: i problemi del Po possono essere gestiti dalle singole regioni o devono far capo allo Stato? Il cittadino del Polesine con chi deve prendersela in caso di problemi determinati dal fiume: con la singola regione che sta a monte e non ha provveduto ad un certo intervento e con la quale comunque egli non ha alcun rapporto, non essendone cittadino, o con lo Stato, nella sua unitarietà di funzioni e di responsabilità?
I verdi, signor Presidente, non hanno mai assunto atteggiamenti bizzosi nel corso di questi mesi nella Commissione bicamerale. Hanno collaborato tra l'altro alla definizione di intese. Tuttavia, la questione relativa alle competenze sull'ambiente è, per i verdi, tra i temi discriminanti. Siamo allarmati e chiediamo a tutti attenzione e sensibilità su tale argomento. Ne va della qualità della vita di tutti noi e di chi ci seguirà.
Signor Presidente, signore e signori della Commissione, i deputati verdi si accingono a dare il loro contributo alla riforma della seconda parte della Costituzione. Siamo chiamati a rafforzare la democrazia del nostro paese ed a rendere migliore la vita dei cittadini. Non sarà facile, anche per le divisioni che corrono in quest'aula. Speriamo di farcela; questo per lo meno è l'augurio dei verdi (Applausi dei deputati dei gruppi misto-verdi-l'Ulivo, della sinistra democratica-l'Ulivo, dei popolari e democratici-l'Ulivo e misto-socialisti italiani - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Amico. Ne ha facoltà.

NATALE D'AMICO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, le vicende positive della XIII legislatura, con gli indubbi successi conseguiti in molti campi, innanzitutto nel predisporre le condizioni per l'ingresso dell'Italia nell'Unione monetaria europea, non hanno certo collocato in secondo piano l'esigenza di proseguire nel processo di riforma delle nostre istituzioni. Anzi, le vicende dell'autunno scorso, con la crisi di Governo prima aperta e poi faticosamente ricomposta, ci hanno ricordato che l'obiettivo della stabilità non può ancora considerarsi definitivamente raggiunto. Il paese sta conquistando faticosamente, con sacrificio, una credibilità internazionale da tempo perduta. Ma i nostri sforzi saranno tanto più credibili quanto in prospettiva duraturi, solidi e non destinati ad essere contraddetti. Ebbene, non vi è chi non veda quanto ciò dipenda dalla capacità di continuare a mettere ordine anche nell'ambito delicatissimo dei meccanismi di decisione collettiva. Prima ancora che ai nostri partner europei è a noi stessi che dobbiamo un Governo democratico forte e vigoroso, in grado di assecondare le grandi potenzialità del nostro paese e di guidarlo, con il consenso della maggioranza dei cittadini, verso le sfide di un mondo sempre più competitivo.
Questo dunque è il primo punto. La riforma costituzionale deve andare fino in fondo. Questo è il compito che abbiamo come parte politica della classe dirigente del nostro paese. Con questo spirito, a nome del gruppo di rinnovamento italiano, chi parla ha partecipato ai lavori della Commissione presieduta dall'onorevole D'Alema, che colgo l'occasione per ringraziare del grande lavoro compiuto, della determinazione con la quale lo ha portato avanti, della sensibilità con la quale ha guidato un dibattito a volte difficile, spesso contrastato, in qualche occasione confuso.


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La nostra decisa ed appassionata volontà costruttiva non può farci deflettere dal necessario rigore nel valutare i passaggi decisivi del progetto di riforma della parte seconda della Costituzione, emerso dai lavori della bicamerale. Può essere utile richiamare le finalità essenziali da cui trae origine il nostro tentativo di riforma.
Primo: assicurare nel nostro ordinamento l'efficacia e la legittimazione del potere democratico; secondo: puntare a creare le condizioni istituzionali per un Governo forte di poteri giuridici e di investitura politica, capace di operare per il tempo necessario e periodicamente chiamato a rispondere del proprio operato davanti al corpo elettorale; terzo: rafforzare la funzione dell'opposizione; quarto: anche a garanzia di un maggior pluralismo istituzionale, giungere ad una forte redistribuzione sul territorio del potere politico; quinto: una vera riforma del bicameralismo per superare l'attuale assetto in una direzione coerente con l'evoluzione di tutto il moderno costituzionalismo e naturalmente in coerenza con la redistribuzione territoriale del potere politico; sesto: rafforzare il complesso delle garanzie giurisdizionali e costituzionali di cui all'ultima parte della nostra Costituzione. Occorre infine, pur nel rispetto della natura, ovviamente e necessariamente politica, delle scelte di fondo, garantire la qualità tecnico-costituzionale minima, anche sotto il profilo della coerenza interna, delle soluzioni individuate.
Alla luce di queste finalità dico subito che delle principali tematiche affrontate dalla riforma due mi sembrano meno efficacemente risolte e mi lasciano profondamente perplesso. Si tratta del cosiddetto federalismo e delle soluzioni proposte in materia di Parlamento e di formazione delle leggi. Tre mi paiono, invece, con alcune correzioni, in grado di rispondere alle aspettative che in esse si ripongono. Si tratta degli articoli in materia di pubblica amministrazione ed autorità di garanzia, di quelli relativi alla giustizia e degli articoli in materia di garanzie costituzionali.
Quanto alla forma di governo ed all'annunciata intesa in materia elettorale, si impone un ripensamento per risolvere le notevoli ed irrisolte ambiguità. Mi si consenta però di affrontare per primo l'aspetto relativo alla partecipazione italiana all'Unione europea.
I colleghi forse ricorderanno che il presidente D'Alema mi aveva fatto l'onore di affidarmi il compito di riferire in Commissione su questo tema specifico. La Commissione ha deciso di non far proprio il testo da me proposto, se non in minima parte, il che mi indusse, per coerenza e serietà, a rinunciare all'incarico.
Introdurre un titolo sull'Unione europea rappresenta per l'Italia una triplice opportunità. Innanzi tutto quella di dotare di una sufficiente copertura costituzionale la partecipazione italiana all'Unione, ben oltre quella forzatamente e per necessità rintracciata nell'attuale articolo 11. In secondo luogo, quella di predisporre delle procedure che tentino di diminuire, almeno sul versante interno, il deficit democratico di cui tutti si lamentano con riferimento al funzionamento dell'Unione. Infine, quella di compensare la cosiddetta cecità federale dell'Unione, garantendo alle regioni la possibilità di far adeguatamente valere la propria posizione in merito alle politiche comunitarie.
Per raggiungere seriamente tali obiettivi si tratta però di intervenire non solo con affermazioni di principio, ma anche con la previsione di dettagliate procedure e di dispositivi specifici, adottando un metodo seguito da pressoché tutti gli altri Stati membri dell'Unione (cito la Germania, l'Austria, la Francia, la Finlandia). Si è invece scelto fin qui di adottare una disciplina decisamente scarna, priva di disposizioni in grado di mutare significativamente le modalità di partecipazione italiana all'Unione e tale da lasciare sia il Parlamento, sia le regioni sostanzialmente ai margini del circuito decisionale interno e quindi comunitario. Una prospettiva questa che ci è apparsa inaccettabile, tanto più perché da molti colleghi motivata con l'argomento che il nostro ordinamento

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non sarebbe in grado di reggere il rigore delle procedure che altri in Europa hanno adottato.
Ci sarebbe da domandarsi se problemi come quelli della crisi delle quote latte non abbiano qualcosa a vedere proprio con questa filosofia della via italiana all'unificazione comunitaria.
Quanto alla nostra proposta di rendere espliciti in Costituzione quei riferimenti organizzativi - e dunque ben collocabili nella seconda parte della Carta - a mercati liberi e competitivi, che sono il vero pilastro dell'intero edificio comunitario, la Commissione ha deciso di non farne nulla. Rimane, per fortuna, il principio di autonomia della banca centrale che per primi abbiamo proposto e che è essenziale per consentirci la piena partecipazione alla prossima banca centrale europea.
Veniamo agli altri punti, innanzitutto al federalismo. La prima osservazione di carattere generale è che il testo presentato cerca di dar vita ad un presunto federalismo addirittura a quattro livelli - Stato, regioni, comuni e perfino province -, che non ha eguali al mondo.
Tra le soluzioni individuate ve ne sono in particolare alcune che appaiono paradossali. Per esempio, il terzo comma dell'articolo 58 prevede che lo Stato possa alla fin fine, in nome di non meglio identificati imprescindibili interessi nazionali, riassumere a colpi di maggioranza qualunque competenza legislativa.
Rimettere al Parlamento nazionale, non a livello costituzionale ma - si badi bene - a livello ordinario e con maggioranze semplici, la titolarità di una fondamentale competenza sulle competenze, è particolarmente grave, soprattutto perché si coniuga con la rinuncia a fare della seconda Camera il luogo di rappresentanza degli enti substatali.
Le soluzioni individuate per la seconda Camera sono quanto di più contorto e confuso il progetto abbia allo stato degli atti delineato. La proposta prevede leggi monocamerali, potenzialmente bicamerali, senz'altro bicamerali, bicamerali potenziali a seconda Camera in composizione semplice o integrata, obbligatoriamente bicamerali in composizione semplice o integrata: quasi uno scioglilingua! In realtà si tratta di un sistema delle fonti ingestibile ed irragionevole.
L'idea stessa di affidare funzioni di garanzia ad un organo politico, eletto a suffragio universale, svincolato dalla responsabilità del rapporto fiduciario e per il quale si ipotizza dichiaratamente un sistema elettorale proporzionale, appare priva di alcuna seria motivazione politico-istituzionale.
Per trovare organi del genere occorre ritornare ai senati conservatori - così si chiamavano - di due secoli fa, poi spazzati via dalla storia e dall'evoluzione delle istituzioni liberali prima e democratico-liberali poi.
Non solo si rinuncia alla soluzione assolutamente generale negli Stati federali di un bicameralismo, appunto, a base federale - credo che l'unica eccezione fosse quella delle isole Comore, che mi dicono sia stata di recente superata -, ma s'inventa un Senato delle garanzie che pressoché su tutto può mettersi di traverso rispetto alle decisioni della maggioranza parlamentare espressa al momento delle elezioni.
Rischiamo di rendere obbligato per via istituzionale quel consociativismo al quale in passato siamo stati vincolati dal quadro internazionale.
La verità è che sull'uno e sull'altro punto - federalismo e bicameralismo - occorre compiere ancora molta strada. Il gruppo di rinnovamento italiano considera le proposte avanzate di recente da regioni e comuni un grande passo in avanti in vista della definizione di un assetto seriamente federale dello Stato, che veda regioni e comuni, ciascuno al proprio livello di competenza ed attraverso una reciproca collaborazione, interlocutori credibili dello Stato centrale perché dotati di effettivi poteri.
Quanto alla seconda Camera si opti per soluzioni che valgono ad assicurare il serio concorso degli enti territoriali nella

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determinazione delle scelte che non possono essere assunte che a livello nazionale.
Riguardo alla forma di governo non posso che ribadire la preferenza del gruppo di rinnovamento italiano per una soluzione semipresidenziale e dunque ribadisco la soddisfazione per il fatto che, anche grazie al nostro voto, gli italiani potranno essere finalmente chiamati a scegliersi direttamente il proprio Presidente.
Purtroppo però l'ipotesi del cosiddetto semipresidenzialismo temperato, quale brillantemente, ma non sempre convincentemente, è descritto nella relazione del senatore Salvi, non appare in grado di dare efficace soluzione ai problemi italiani.
Proprio la constatazione dell'esistenza di tante ipotesi di semipresidenzialismo, che da alcune parti si richiama allo scopo di far accantonare il prototipo semipresidenziale francese, ci rafforza in realtà nella convinzione che non si tratta di dare all'Italia un qualsiasi sistema semipresidenziale. Si tratta, invece, di dotarci di un sistema semipresidenziale nel quale vi siano i presupposti per cui la diarchia Presidente-premier si risolva, di norma, a vantaggio del Presidente, sicché emerga chiaramente che il Presidente della Repubblica che i cittadini eleggono è il titolare ultimo delle funzioni di indirizzo politico.
Sul punto il progetto della Commissione va in direzione diversa. Quello che è stato definito da qualcuno un garante-governante rappresenta un'ambiguità grave che nella relazione Salvi trova pieno e non celato riconoscimento.
Mi riferisco ad un passaggio nel quale, parlando dei poteri del Presidente, si legge: «Ciò non è in effetti molto rispetto all'idea di un Presidente governante, ma non è certamente poco rispetto alla visione di un Presidente esclusivamente garante». Insomma, nessuno oggi può dire con certezza se esso sarà garante o governante, arbitro o capitano.

CESARE SALVI, Relatore per la forma di governo e sulle pubbliche amministrazioni. In tutto il mondo è così! Come è possibile che non si riesca a capire questo concetto?

NATALE D'AMICO. In realtà, nell'esperienza francese, abbiamo visto con chiarezza che quando non vi è stata coabitazione era evidente che il capo della maggioranza era...

CESARE SALVI, Relatore per la forma di governo e sulle pubbliche amministrazioni. Adesso governa Chirac!

NATALE D'AMICO. Quando non c'è coabitazione, non c'è ambiguità: il modello è flessibile, ma non ambiguo.

CESARE SALVI, Relatore per la forma di governo e sulle pubbliche amministrazioni. Adesso governa Chirac in Francia, titolare dell'indirizzo politico!

NATALE D'AMICO. Altra cosa è costruire un sistema per sua natura ambiguo. Ne ci si può rifugiare nell'alibi di un Presidente eletto sì, ma senza poteri, cui sembrano mirare le forze politiche che auspicano un ulteriore dimensionamento delle competenze già ridotte del capo dello Stato, perché la sproporzione tra l'investitura diretta e le competenze presidenziali meramente notarili può aprire la strada a quel Presidente demagogo di cui parla Maurice Duverger.
Questa situazione di ambiguità è aggravata dalle ipotesi avanzate in materia elettorale. Il cosiddetto accordo di casa Letta infatti comporta la rinuncia a qualsiasi ulteriore evoluzione del sistema politico, punta al consolidamento ed alla blanda razionalizzazione della frammentazione attuale, dando a ciascun gruppo dirigente una sorta di passe-partout per il proprio futuro.
L'obiettivo politico dell'accordo, rafforzamento ad un tempo del bipolarismo e frammentazione con quanto di intimamente contraddittorio ha un simile approccio, viene perseguito fra l'altro a


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danno della quota maggioritaria dei seggi, quota che scenderebbe dal 75 al 55 per cento.
Il gruppo parlamentare di rinnovamento italiano, che pure potrebbe forse trarne un vantaggio immediato da un sistema proporzionalizzato, in coerenza con il proprio programma elettorale, si è subito schierato su posizioni contrarie e quell'accordo. Da qui nasce l'opposizione di chi vi parla, condotta in Commissione in ottima compagnia, nel momento in cui l'accordo è stato presentato, avanzando un documento alternativo favorevole ad una legge elettorale compiutamente maggioritaria basata sul doppio turno di collegio sul modello francese.
Nel dibattito di oggi, di questi giorni, è emerso qualche elemento di sorpresa. Era chiaro a tutti (alcuni illustri professori del Polo ce lo insegnano con dotte citazioni) che un modello seriamente semipresidenziale di ispirazione francese richiede una legge elettorale compiutamente maggioritaria, perché esiste un necessario collegamento tra quest'ultima, sulla quale si basa quel sistema ed i poteri, i compiti ed il ruolo effettivamente svolto dal Presidente della Repubblica. Eppure, nel momento in cui su questi temi si è votato, il Polo delle libertà per intero si è pronunciato contro quella legge elettorale. Eppure, nel momento in cui ho presentato modestamente un documento alternativo all'accordo ormai noto, cosiddetto della crostata, ho trovato firme autorevoli, ma solo all'interno del centrosinistra.
L'altro elemento di sorpresa - consentitemi di dirlo - consiste nel fatto che io, che non ho votato questo testo della riforma in Commissione bicamerale, mi trovo continuamente scavalcato nelle critiche da chi questo testo ha votato e sostenuto di cui solo oggi scopre le debolezze, forse il relazione a motivazioni tattiche legate alla politica del giorno per giorno.
Il tema elettorale resta per noi un punto non rinunciabile della riforma istituzionale considerata complessivamente. Guardiamo con preoccupazione al rischio che si apra di nuovo un conflitto fra l'opinione prevalente dei cittadini a favore di un sistema compiutamente maggioritario e le rinnovate tendenze proporzionalistiche diffuse tra le forze politiche. D'altra parte se queste tendenze dovessero prevalere sarà necessario considerare seriamente il ricorso allo strumento referendario di recente riproposto da personalità di tutto rispetto per consentire ai cittadini di far sentire nuovamente la loro voce.
Tornando agli aspetti ordinamentali, le ambiguità del testo del progetto in materia di forma di governo, possono essere affrontate rafforzando adeguatamente le prerogative presidenziali a partire dal potere di scioglimento della Camera. Il gruppo parlamentare di rinnovamento italiano ha presentato propri emendamenti che vanno in questa direzione.
Occorre poi rafforzare il ruolo del Governo in Parlamento con previsioni più specifiche in tema di ordini del giorno, legislazione a tempi brevi e certi, prevalenza costituzionalizzata del voto palese su quello segreto e così via. Anche in questa direzione abbiamo presentato nostri emendamenti.
L'ultima annotazione riguarda i rapporti tra istituzioni e società civile. Il progetto della Commissione bicamerale prevede sia l'ampliamento delle immunità garantite ai membri del Parlamento, sia l'abbassamento del quorum per la concessione dell'amnistia. Mi limito ad osservare che rischia di accreditarsi l'immagine di un ceto politico che blinda le proprie garanzie e pone le condizioni per autoassolversi dalle proprie responsabilità. Non potremmo commettere errore più grave.
Per concludere, alla luce dei parametri che ho richiamato all'inizio, occorre compiere ancora un buon tratto di strada verso soluzioni che permettano di dare effettivamente alla società italiana quelle risposte che si attende da noi. È in questo spirito che avanziamo le nostre proposte di emendamento, dispostissimi a ritirare quelle non assolutamente essenziali, ma anche persuasi che vi è un tasso di coerenza minima che consente di distinguere le soluzioni da approvare da quelle

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da non approvare, gli emendamenti cui si può rinunciare da quelli irrinunciabili. Alla fine dell'iter, signor Presidente, signor presidente della Commissione, colleghi, valuteremo gli esiti cui si perverrà nel complesso per assumerci le nostre responsabilità in piena trasparenza davanti al paese (Applausi dei deputati del gruppo di rinnovamento italiano).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, la necessità di procedere alla riscrittura della seconda parte della Costituzione nasce da due ragioni di fondo.
La prima ragione è la fine della guerra fredda, la sconfitta delle ideologie, il compimento della vita democratica. La seconda ragione è la crisi della democrazia dei partiti, almeno come l'avevano immaginata i padri costituenti del 1946-1948 e come l'avevano praticata le forze politiche dopo di allora. È un passaggio solenne, una svolta profonda nella nostra vita nazionale.
Molti hanno sottolineato il rischio di un certo continuismo. Noi riscriviamo, appunto, la seconda parte e teniamo ferma la prima, quella sui valori. È vero, ma non sottovalutiamo le differenze da allora ad oggi. Allora eravamo un paese lacerato, una democrazia fragile e minacciata, avevamo paura gli uni degli altri. Il compromesso fu cercato sulle garanzie, sulla reciproca difesa. Il lavoro della Costituente fu lo spartiacque tra una guerra di liberazione non ancora archiviata e un'aspra contesa ideologica appena divampata. È forte la continuità di alcuni valori, ma non è meno forte il passaggio epocale che stiamo attraversando e non deve essere meno forte, quindi, la nostra spinta innovativa.
Per anni si è lamentato che mancasse un motore per le riforme. La Francia ha avuto la crisi algerina per passare dalla quarta alla quinta Repubblica; noi abbiamo affidato alla politica, ai partiti, al Parlamento la possibilità di una sua rigenerazione. Le delusioni dei tentativi del passato hanno lasciato il segno. Anche per questa ragione avevamo proposto un'assemblea costituente; volevamo darci un appuntamento a cui il popolo sovrano partecipasse fin dall'inizio e nel modo più forte, un appuntamento che fosse sganciato dalla quotidianità della politica, dalle logiche di maggioranza, dalle fedeltà di schieramento. Si è scelta un'altra strada; l'abbiamo condivisa malvolentieri e solo a patto che portasse alla stessa destinazione, cioè quella di un nuovo rapporto tra lo Stato e i cittadini.
Oggi, onorevoli colleghi, valutiamo appena una tappa di questo cammino, il testo che viene presentato all'Assemblea. È una tappa che giudichiamo insufficiente, per molti aspetti deludente, ma che pure segna l'inizio di un cammino. La domanda che ci poniamo e che orienterà il nostro voto è se questo cammino prosegue, se si fa più spedito, se è destinato ad arrivare ad un esito di vera riforma. Finora questo cammino ci ha portato, almeno sulla carta, a disegnare un semipresidenzialismo innovativo ma controverso, un federalismo fin troppo timido e ritroso e una giustizia che cerca ancora un assetto di maggiore equità. Proverò ad analizzare questi aspetti uno alla volta.
Forma di Stato. La bozza approvata sulla scorta dell'intelligente fatica del senatore D'Onofrio muove dal principio di sussidiarietà. Non ho bisogno di ricordare che si tratta di un principio cardine della dottrina sociale cristiana, ma anche di un riferimento delle politiche e degli orientamenti di quasi tutti gli Stati europei. Con questo tentativo di riforma cambia il concetto di sovranità nazionale. Cambia per via dei poteri che l'Europa avoca alla comunità sovranazionale e cambia per via dei poteri che lo Stato restituisce alle autonomie locali. È questa, forse, la più grande rivoluzione del nostro tempo tra radici localiste che premono dal basso e globalizzazione dei mercati, dei costumi e forse, un domani, delle leggi, che si verifica sopra la nostra testa.
Noi reputiamo cruciale - lo dico al presidente D'Alema - ai fini di una nuova


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architettura dello Stato, che questa parte della riforma non resti arenata in quel groviglio di pigrizia, di ritardi, di conformismi, di conservatorismi istituzionali che minacciano il nostro lavoro. Vi sono alcuni nodi irrisolti che sicuramente fanno parte di quel groviglio. D'Onofrio ne ha elencati cinque ed io li voglio ricordare nello stesso ordine: è troppo generico il potere legislativo dello Stato in materia di interesse nazionale; il sistema impositivo locale non è un pieno federalismo fiscale; il Senato non diviene una Camera di autentico snodo federale; le assemblee legislative regionali non partecipano al procedimento di revisione costituzionale; non è chiaro infine il senso dell'autonomia speciale delle regioni.
C'è poi un sesto nodo da sciogliere che riguarda il rapporto tra pubblico e privato, tra poteri pubblici e iniziativa dei singoli, quella che D'Onofrio ha chiamato la sussidiarietà orizzontale.
Lo scioglimento di questi nodi per noi è decisivo. Diamo atto alla lega di aver fatto sventolare per prima la bandiera del federalismo, quando molti erano legati ad un'idea, ad una prassi centralista dello Stato. Ma ora, paradossalmente, quella bandiera rischia di andare smarrita tra derive secessioniste e pulsioni centraliste che si alimentano a vicenda.
Il movimento politico dei cattolici - lo dico agli amici popolari - fu decisivo alla Costituente nel battere le resistenze di Togliatti e del PCI contro le regioni. Oggi deve essere altrettanto capace di ricavare dalle sue ispirazioni il principio che esiste un legame non egoistico, non gretto tra le risorse prodotte e i diritti della comunità. Questo legame, per noi, si chiama federalismo e noi lo coltiviamo come un antidoto fondamentale tanto all'arroccamento del paese quanto alla sua disunione. Vogliamo ribadire una volta di più che questa non è una battaglia di circostanza, è un processo, non un prodotto; un divenire, non ancora una conquista. Conosciamo gli ostacoli e le resistenze. Per molti, anche in quest'aula il federalismo è una questione marginale, per noi è decisiva. Misureremo principalmente su questo terreno e sull'accoglienza riservata ai nostri emendamenti come a quelli presentati dai comuni, dalle province, dalle regioni, il grado di innovazione dell'intera riforma costituzionale.
Forma di Governo: vengo al semipresidenzialismo. È persino rituale ricordare da parte nostra che l'elezione diretta del Capo dello Stato è uno dei fulcri delle proposte istituzionali del Polo. Il nostro partito ha concorso in Commissione a votare a favore consapevole della portata di questa novità e delle resistenze che sentivamo già allora intorno ad essa. Oggi queste resistenze aumentano. Da un lato si rimette in discussione il principio dell'elezione popolare diretta del Capo dello Stato nel nome di una tradizione parlamentaristica da salvaguardare; dall'altra si contestano i pochi poteri concessi al Capo dello Stato nel nome della pienezza e della coerenza del disegno presidenzialista. È bene osservare, colleghi, che queste due critiche sono opposte e non giova alla chiarezza che a volte si sommino l'una all'altra nel segno di un verdetto definitivo e senza appello. I poteri, le competenze, le responsabilità del Presidente eletto - lo ha detto il relatore Salvi - non ci sembrano così scarne; riguardano la politica estera e di difesa, che ha effetti sempre più forti in tempi di frontiere aperte e di collaborazione internazionale; riguardano la possibilità, non arbitraria, di scioglimento delle Camere. Non è poco. Ci batteremo perché non sia meno di questo, almeno su questo punto, ma voglio dire con chiarezza che saremmo preoccupati se, invece, fosse di più. C'è, indubbiamente, qualche rischio nel paese di derive plebiscitarie. Ma questi rischi stanno nella crisi della politica, nello smarrimento dell'opinione pubblica, nell'uso distorto del sistema della comunicazione.
Non si può confondere la domanda dell'uomo forte con la riforma presidenzialista. E non si può esorcizzare la deriva plebiscitaria limitando quello che a molti appare ormai come un diritto di scelta. Si può invece, e si deve, porre un argine alla tendenza a personalizzare oltre misura il processo politico. Questo è il senso di

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alcuni contrappesi che la Commissione bicamerale ha individuato e ai quali, per la parte nostra, terremo fede nel voto sugli emendamenti.
Ci sembrano esagerate certe paure ed esagerate certe sottovalutazioni. Dovremo fugare le paure con un'azione di equilibrio e di bilanciamenti costituzionali, ma non vorrei che, all'estremo opposto, finissimo per dar corda all'idea che si tratta di una riforma all'acqua di rose. Qui sta in fondo il cuore del passaggio che ci siamo ripromessi da un tempo all'altro della nostra Repubblica. Qui si realizza una connessione forte con il federalismo. Qui sta il di più di sovranità, di potere decisionale che viene restituito agli elettori. Tornare indietro su questo punto, disperdere questa promessa, magari con un miraggio di un risultato migliore, ci sembra un errore e una miopia.
La giustizia è la terza grande questione a cui la Commissione si è dedicata, con alterne fortune e nel mezzo di controversie politiche di principio che appaiono tuttora ben lungi dall'essere risolte. Il relatore Boato è arrivato a chiedersi se esista uno Stato di diritto. È una domanda così forte, così inquietante che lascia un dubbio a quanti l'hanno ascoltato, quale che sia la risposta che ciascuno in quest'aula in coscienza si sente di dare.
Lo stato della giustizia è stato descritto efficacemente dal Capo dello Stato nel suo messaggio di fine anno. Il Presidente Scàlfaro ha giustamente denunciato il «tintinnar di manette», la troppa loquacità dei magistrati, la stessa incertezza del diritto. Evidentemente, le indebite interferenze politiche dei magistrati non sono solo quelle che lamentava Calamandrei cinquant'anni fa. Non c'è dubbio che un certo giustizialismo abbia condizionato la politica di questi anni, riservando agli uni una condanna, a volte immeritata e a volte no, e agli altri un vantaggio di parte che non ha a che vedere né con i meriti né con le virtù. La domanda se questo stato di cose non richieda un ripensamento di alcuni aspetti istituzionali non è tuttavia un aspetto della contesa politica; è un aspetto del rapporto tra lo Stato e i cittadini. La separazione delle carriere avrebbe garantito al meglio la parità tra accusa e difesa. È ovvio che se il giudice e l'accusatore fanno parte della stessa carriera, se uno dei due può essere superiore all'altro, se uno dei due può trovarsi un domani a giudicare l'altro, si forma uno squilibrio a tutto danno della difesa. Parlo della difesa dei cittadini, non di quella dell'estabilishment politico e finanziario del paese. Del resto, le due sezioni del CSM che senso hanno se non quello di riconoscere che questo problema esiste?
Noi abbiamo riconosciuto il problema, ma abbiamo dimezzato la soluzione. Da parte nostra ci batteremo perché ci sia coerenza, perché la soluzione o sia coerente, intera, netta e forte, più di quanto non sia il problema che abbiamo davanti a noi, o non sia per nulla, perché è chiaro che c'è una schizofrenia nel testo finale a cui si è pervenuti. Quello che non possiamo accettare in ogni caso è l'idea che esista un tabù, un argomento precluso da ragioni misteriose alla libera discussione e decisione parlamentare.
C'è infine un convitato di pietra a questo tavolo delle riforme: è la legge elettorale. Rispetto la tacita convinzione che ha portato in questo avvio di dibattito ad evitare di affrontare una questione che formalmente non rientra nell'ordine del giorno. Ma avverto anche che una riforma costituzionale non può che essere un atto di reciproca garanzia. Essa non può prevedere, da nessuna parte, una furbizia volta ad avvantaggiare gli uni o gli altri attraverso la forzatura dei meccanismi della rappresentanza. Tutto si può fare in questa materia, tranne una cosa: decidere una legge controversa con una maggioranza risicata o casuale. Questa considerazione vale per chi immaginasse un doppio turno di collegio congegnato in modo da favorire l'annessione di un partito rispetto all'altro e vale ancor di più per chi immaginasse un sistema elettorale tale da diminuire il grado di democraticità, di trasparenza nel consenso popolare. In nome di questi principi non andremo a lezione dal professor Sartori e

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ci faremo spiegare meglio quali sono gli ingredienti di una crostata politica che va per la maggiore. Per ora constatiamo che la schizofrenia dei sistemi elettorali crea sconcerto tra gli eletti e gli elettori. Basti pensare alla necessità di una coerenza unitaria e all'attuale sistema in vigore per comuni, province, regioni, Camera e Senato: non ve ne è uno che coincida, nemmeno casualmente, con l'altro!
Mi avvio alla conclusione. Signor Presidente, mi è capitato di dire più volte nei giorni scorsi che noi non saremmo stati i dinamitardi della bicamerale. Naturalmente, di dinamitardi ce ne sono molti altri. Ce ne sono tra quanti si dedicano già al referendum, prima di avere misurato un risultato finale ancora in larga parte da costruire; ce ne sono tra quanti i referendum li vorrebbero moltiplicare, per trovarne almeno uno sul quale organizzare una maggioranza nel dissenso; ce ne sono tra quanti, all'opposto, vorrebbero imprimere su quel risultato un tale sigillo di conservazione da archiviare qualsiasi riforma per chissà quanto tempo.
C'è poi il rischio di isolare le riforme dalla quotidianità della politica. Un nuovo disegno può riuscire solo a patto di legarsi a comportamenti coerenti.
Esistono almeno tre condizioni politiche essenziali da rispettare.
La prima. Deve finire la commistione tra partiti e Stato. Il superamento delle pratiche di occupazione della società e delle istituzioni; la diminuzione del tasso di statalismo; un ripensamento del rapporto tra politica ed economia sono parti essenziali di un nuovo assetto della Repubblica.
La seconda. Non deve mai più riaffiorare la tentazione di demonizzare l'altra parte, di trasformare l'avversario in nemico, di ricorrere a pratiche di delegittimazione che non hanno più ragione, a partire dalla fine della grande guerra ideologica che è stata combattuta in questo secolo e che nel nostro paese si è conclusa con la piena affermazione di quei valori di democrazia e di tolleranza che solo cinquant'anni fa, al tempo di De Gasperi, erano così insidiosamente minacciati.
Questa considerazione - è ovvio - riguarda anche il tema della giustizia. Non ho bisogno di ripetere che non è un paese normale, onorevole D'Alema, quello in cui una parte politica viene colpita per via giudiziaria; tanto meno può dirsi normale un paese in cui un'altra parte politica viene inopinatamente risparmiata da indagini, accertamenti, processi.
La terza ed ultima condizione. Deve rafforzarsi un tessuto di rappresentanza, di associazionismo, di partecipazione politica, che il lungo disincanto degli ultimi venti-trent'anni e le difficoltà della nostra transizione ancora incompiuta hanno finito per sfilacciare. Sapremo, signor Presidente, rispettare questa condizione?
Anche questi comportamenti fanno parte di un tentativo di novità politica ed istituzionale a cui siamo chiamati.
C'è, infine, una condizione in più, fondamentale, che riguarda la capacità del Parlamento - e, soprattutto, della maggioranza - di sottrarsi a logiche di parte. Anche su questo si misurerà uno spirito costituente, che fino ad ora abbiamo sentito aleggiare in modo assai debole e confuso.
L'onorevole D'Alema ha invitato tutti a non spezzare il filo del dialogo. È un invito che non respingiamo. Noi diciamo a lui, però, di non attorcigliare troppo quel filo e di non volgerlo nelle direzioni degli interessi della sua parte. Il filo delle riforme non può essere un filo rosso e nero, tessuto nel segno di una impensabile rivincita postuma degli eredi delle ideologie sconfitte; deve essere, al contrario, un filo pluralista. Se quel filo riuscirà a legare maggioranza ed opposizione in un disegno istituzionale comune ed innovativo, non saremo certo noi a spezzarlo (Applausi dei deputati dei gruppi del CCD, di forza Italia, di alleanza nazionale e misto-CDU - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bertinotti. Ne ha facoltà.


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FAUSTO BERTINOTTI. Signori Presidenti, signore e signori deputati, svolgiamo questo dibattito - mi pare - con un distacco ed una distanza rispetto al paese reale. La discussione, del resto, è avara di tensione politica. Il clima, insomma, è lontano dallo spirito di riforma.
Ho letto qualche aristocratica stroncatura di entrambe queste distanze, come riferita a chi non capisca l'importanza di quello che sta accadendo. Penso, invece, che si tratti di un distacco - quello del paese reale da questo dibattito - in larga misura meritato. Si paga lo scotto di una forzatura politicista e di una forzatura politicista nella direzione sbagliata. Non c'è il clima perché questa che stiamo discutendo, così come la stiamo discutendo, non è una necessità sentita prioritariamente dal paese.
È stato confuso un sentimento di diffusa critica di un sistema politico colpito a morte da Tangentopoli con la richiesta di un nuovo ordine costituzionale. La richiesta era invece di cambiare la politica, non la Costituzione.
Naturalmente una Costituzione come la nostra richiede dei miglioramenti, degli aggiornamenti, degli adeguamenti, ma questa è altra questione che non richiede né un'Assemblea costituente né una bicamerale e del resto ha iscritta in sé la possibilità di operare questi cambiamenti.
La Costituzione si cambia per grandi eventi, per grandi passaggi di storia, per guerre o rivoluzioni. Il presidente D'Alema è sembrato consapevole di questa difficoltà, quando ha detto che non ci è stato dato il tempo eroico della difesa della democrazia.
Noi possiamo dire con Bertolt Brecht «beati i popoli che non hanno bisogno di eroi» perché crediamo che, anche in tempi che non hanno bisogno di eroi, la politica possa essere alta. La politica nella pace e nella democrazia non è necessariamente grigia, solo deve trovare nella soluzione dei grandi problemi del suo tempo la sua ragione fondamentale.
Se, come diceva Bernardo, siamo nani seduti sulle spalle di giganti, dobbiamo saper vedere che ieri, lo «ieri» di questa Costituzione era quello del vento del nord, non dell'attuale vento della lega, ma del vento del nord che chiedeva un cambiamento profondo del modello sociale del paese, della sua idea di giustizia. Oggi viviamo in tempo di bonaccia e così abbiamo sentito anche delle relazioni introduttive a questo dibattito quasi apolitiche. Con quelle si può cambiare un regolamento, non la Costituzione.
Invece, quasi di soppiatto, grandi cambiamenti vengono annunciati, tali da sfigurare la Costituzione repubblicana così come la abbiamo ereditata. A tale riguardo vi è una contraddizione molto grave. Non c'è il clima, la tensione politica per il grande cambiamento, eppure si fanno grandi mutamenti.
La responsabilità di questa maggioranza è grave perché realizza una regressione nell'ordinamento costituzionale. A questa noi abbiamo annunciato, con la relazione di minoranza di Armando Cossutta, la nostra radicale opposizione; un'opposizione dovuta al fatto di vedere questa regressione guidata da due sostanziali concessioni alle destre: l'una a Fini, la tendenza presidenzialista, bandiera sua e del suo partito fin da quando si chiamava movimento sociale italiano; l'altra a Berlusconi, con un ridimensionamento dell'autonomia della magistratura che sembra essere la sua ossessione e quella della sua forza politica.
Questo è il frutto di un errore costituzionale e di un errore politico delle forze di centro-sinistra: quello di perseguire un'intesa ad ogni costo con le destre, anche a rischio di produrre la dissoluzione del ruolo di questa maggioranza progressista.
Per quanto concerne l'errore di politica costituzionale, si è detto che la prima parte della Costituzione non doveva essere toccata, perché essa era l'ispirazione fondamentale alla quale dobbiamo ancora attingere. Ma se questo non vuole essere un inerte riconoscimento, dopo di che si passa all'ordine del giorno vero, bisogna chiedersi che cosa vive nella realtà e se vive l'ispirazione alta della Costituzione o


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se, invece, si è prodotto uno scollamento tra il paese ed il suo grande ordinamento.
Noi ci troviamo di fronte ad una Costituzione mutilata; mutilata nella sua ispirazione civile. La spinta propulsiva della resistenza è messa in discussione, l'antifascismo come religione civile di questo paese è oscurato da un revisionismo storico spesso d'accatto, che tende a mettere in discussione il suo valore fondativo. Ci troviamo di fronte ad una Repubblica che rischia di essere senza padri, che rischia di recidere le sue radici da cui invece può venire ancora una linfa vitale. È inoltre una Repubblica mutilata socialmente, essendo l'altro elemento fondativo della nostra Costituzione proprio la giustizia sociale.
La Costituzione materiale dell'Italia oggi non è più soltanto una incompiuta opera della Costituzione, come lo è stata fino agli anni settanta. No, essa sta producendo un distacco dalla Costituzione.
L'offensiva liberista, il primato del mercato scavano sotto la prima parte della Costituzione, la logorano, tanto che autorevoli esponenti di questa cultura chiedono la messa in discussione della prima parte proprio per questa ragione. Vogliamo vederla più da vicino questa prima parte? Uno dei suoi articoli più importanti - l'articolo 4 - come sappiamo tutti recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Dove? Come? Quando? Quasi il 13 per cento di disoccupati, un'intera generazione fuori dal lavoro in intere realtà del paese! Come volete che non ci sia un distacco quando la Costituzione, in sue parti vitali, risulta lettera morta?
E ancora l'articolo 3, lo sappiamo tutti, recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona...». Uno dei punti più alti toccato dal pensiero costituente, ma oggi persino nella difesa del bene più elementare, quello della salute, questo non è vero: chi è ricco può avere subito una visita specialistica, chi è povero, invece, rischia di non averla quando ne ha bisogno. Persino nella scuola, da tutti considerata il luogo strategico di formazione, ritorna la selezione di classe per il costo dei libri e della formazione. Lo Stato sociale è un fondamento essenziale della legittimità democratica della Repubblica; se viene meno, va in crisi la coesione sociale e l'apporto vivente alla Costituzione.
È un modo di ragionare solo dei marxisti, solo delle sinistre? Non lo credo. Non devo essere io a ricordare ai cattolici che nella Centesimus annus si recita: «Esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti».
Si può discutere di riforme istituzionali senza discutere di giustizia e di verità, senza discutere della natura dello Stato sociale, della Costituzione materiale, di come vive e, se non vive, di come può essere modificata? Invece si è fuggiti verso l'ingegneria delle forme di Governo e dello Stato, e male. Vi siete rifiutati di vedere che la sovranità è attaccata da fenomeni giganteschi di trasformazione dell'economia su scala mondiale, che viviamo qui, in Europa, una crisi della democrazia. Eppure è una realtà che non è sfuggita a liberali avvertiti. Ralf Dahrendorf scrive su Die Zeit che i fenomeni che vengono compresi nel termine «globalizzazione» influiscono negativamente sui sistemi democratici, così come sono stati concepiti in occidente negli ultimi duecento anni. Dice ancora Dahrendorf: «La globalizzazione sottrae infatti ogni valore economico all'unica sede delle democrazie rappresentative che lo abbiano fatto finora funzionare, lo Stato nazionale, e mina la coesione delle società moderne». Aggiunge: «Queste riflessioni inducono a pensare che gli sviluppi della globalizzazione e le sue conseguenze sociali favoriscano sistemi costituzionali di tipo autoritario, piuttosto che democratico». Afferma

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Dahrendorf: «Non mi sembra affatto inverosimile affermare che il XXI secolo sarà il secolo dell'autoritarismo».
Speriamo di no, ma intanto anche qui, in questo dibattito, voi «andate in bocca» a questa tendenza, accogliendo la tendenza presidenzialista, che produce due gravi guasti insieme: il danno di introdurre i germi di culture autoritarie (la personalizzazione della politica, la delega al leader, l'idea dell'affidarsi al «salvatore della patria») e il danno - come ricordava Armando Cossutta - di una conflittualità nel Governo del paese tra il Presidente della Repubblica ed il Presidente del Consiglio, con fenomeni di instabilità e di conflittualità che rischiano soltanto di oscurare il conflitto politico positivo e dinamico, quello sui programmi, quello che rende le grandi organizzazioni protagoniste della politica.
Anche sulla questione della giustizia non siete riusciti a leggerla dal punto di vista della democrazia. L'autonomia della magistratura certo deve rispondere, in primo luogo, alla costruzione di una garanzia di tutti i cittadini e delle persone. Su questo terreno do atto che un certo lavoro è stato fatto, mentre non è stato risolto il problema di come questa vada coniugata con l'istanza democratica dell'uguaglianza di tutti di fronte alla legge e della sottrazione della magistratura alla soggezione ad altri poteri, come quello esecutivo. Siete sicuri che siamo immuni da tentazioni di giustizia di classe? Siamo sicuri che un episodio, come quello che ha riguardato l'onorevole Previti, non induca il paese a pensare che vi siano potenti e poteri forti che possono sottrarsi al giudizio ordinario della magistratura? Siete sicuri che anche operando la divisione nel CSM non si dia un colpo all'autonomia della magistratura stessa e si apra la strada ad una sottomissione della giustizia al potere esecutivo?
Invece di fronteggiare queste tendenze, si è prodotto un arretramento del livello dell'autonomia della magistratura. Così si sono perseguite piste sbagliate, sia in direzione del presidenzialismo sia verso una riduzione dell'autonomia della magistratura. Contemporaneamente non si è data una risposta convincente al problema esistente del mutamento della dislocazione delle sedi di decisione nell'ordinamento statuale, di fronte alla sfida della globalizzazione e dell'integrazione europea. Così si sono rincorse le mode, gli strattonamenti della lega, piuttosto che rispondere alla domanda: questa cessione di sovranità che pur lo Stato nazionale deve fare verso l'Europa è verso un'Europa democratica che vuole colmare il suo deficit di democrazia o verso un'Europa tecnocratica? Ancora: l'attribuzione, che noi riteniamo necessaria e che va fatta coraggiosamente, di poteri alle comunità locali, territoriali, regionali e cittadine a che fine deve essere perseguita? Ai fini di rafforzare anche qualitativamente lo Stato universalistico e una cittadinanza universale o al fine di frantumare e dividere la cittadinanza tra aree ricche e aree povere? Lo si deve fare per riqualificare un progetto pubblico, oggi colpito anche da elementi di discredito per i processi corruttivi che ha subito, oppure questo progetto deve essere rilanciato per riorganizzare nel territorio modelli di vita e di lavoro che diano una risposta alla crisi dello sviluppo del nostro tempo? O questo decentramento dei poteri deve accompagnare un laisser faire, un laisser penser, cioè la cancellazione dell'idea del progetto pubblico?
Così è uscito un patchwork incongruo, il cui segno prevalente è un colpo di piccone sul grande edificio costituzionale progressivo che abbiamo ereditato. Il centro-sinistra ha inventato l'esigenza della bicamerale e poi l'ha piegata alla congiuntura politica. In nome della priorità del risultato, cioè della conclusione quale che sia dei lavori della bicamerale, ha perseguito un'intesa con le destre. Così si è introiettata una divisione nella maggioranza e di volta in volta la parte del centro-sinistra più vicina alla destra è quella che è andata alla conclusione su quel punto; la parte del centro-sinistra più convinta di una tendenza presidenzialista ha dettato l'intesa su questo punto; la parte del centro-sinistra più

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vicina all'idea della separazione delle carriere è andata più vicino all'intesa su questo punto.
Nel patchwork prevalgono dunque i colori della destra. Questa la ragione della nostra radicale avversità e della nostra preoccupazione forte per la dissoluzione della maggioranza di fronte ad un problema grande ed impegnativo di progettazione della politica.
Abbiamo evitato, in tutti i modi, di trascinare le conseguenze di dissenso su materie così altamente politiche sul terreno del Governo. Abbiamo evitato cioè che il dissenso che si è manifestato nella bicamerale producesse effetti negativi sulla vita del Governo. Ma abbiamo il dovere di segnalare l'indebolimento della maggioranza e della coalizione per questa via che si produce.
Si indebolisce la maggioranza, si indebolisce nel paese e rispetto al paese. Questa maggioranza di centro-sinistra più rifondazione comunista ha vinto nella battaglia contro le destre, certo, in primo luogo per una richiesta di cambiamento sulle grandi questioni economiche e sociali e sulle questioni di civiltà, anche di civiltà del diritto. Ma ha vinto anche esprimendo ed interpretando una forte attesa di democrazia e di partecipazione. Non si può non vedere che questa attesa oggi viene colpita. Non si può non vedere che, attraverso questo, si introduce un logoramento dell'immagine, della forza dello schieramento progressista nei confronti del paese e si introduce una divisione al suo interno.
Può una maggioranza di Governo che si vuole riformatrice, non avere un'idea comune sullo sviluppo della democrazia colpita dal riemergere dei poteri forti e dai grandi processi di scompaginamento dell'economia del mondo? Non si oscura così la sua capacità di organizzazione e di promozione del consenso riformatore del paese? Noi pensiamo di sì. Allora, non ci si può affidare a dei bizantinismi. Una maggioranza divisa su punti essenziali, anche e specie in materia costituzionale, è una maggioranza meno autorevole sul terreno direttamente politico.
Non è la crisi di Governo; non l'abbiamo voluta e quando siamo stati costretti a perseguirla, l'abbiamo perseguita sul terreno specifico e diretto dell'azione del Governo. Abbiamo però il dovere di segnalare alla maggioranza che così è come se si riducessero le difese immunitarie di un corpo, in questo caso il corpo politico della maggioranza. Quando si riducono le difese immunitarie ci si può ammalare più facilmente; anche se le malattie non sono previste, possono provenire da parti diverse e, in ogni caso, aumenta l'esposizione al rischio.
Ci ripensi il centro-sinistra! Si può ancora? Nella politica ordinaria e grigia non si può più; la macchina è avviata, il convoglio è partito, la meta è attesa e sembra che essa, quale che sia, sia considerata salvifica per le sorti del paese, ma così non è!
La politica può uscire da questo ambito ordinario e, scusate, un po' grigio; può riscoprire le sue ragioni di fondo; può tornare ad indagare il rapporto tra la Costituzione reale, materiale e la Costituzione; può indagare il rapporto tra la legittimità della sovranità e la rimozione delle cause che ostacolano la libera crescita della personalità umana, il rapporto tra lo Stato sociale e lo Stato di diritto. È sempre tempo, è ancora tempo per la politica alta! Si può avere il coraggio anche di constatare che una strada intrapresa ha dato cattivi frutti, pochi frutti e domani alcuni di questi potrebbero essere velenosi. Ci si può fermare, riaprire una discussione, ricominciare dal paese reale, dalle tante ragioni per cui il paese reale ha bisogno di una grande riforma, di una riforma sociale, di una riforma democratica, di una riforma morale (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti e di deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Bertinotti.
È iscritto a parlare l'onorevole Maroni. Ne ha facoltà.


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ROBERTO MARONI. Il prodotto della Commissione bicamerale arriva in aula, per la prima lettura, dopo una settimana in cui sono stati lanciati quelli che io considero messaggi intimidatori alle forze politiche di opposizione. La tentata carcerazione dell'onorevole Previti e il processo di Bergamo contro Umberto Bossi, che ha visto gran parte del Parlamento con i parlamentari della sinistra, del PPI e di AN, schierati compatti a sostenere la sera prima l'azione di condanna del giorno dopo del magistrato di Bergamo. Quel magistrato che - quando si dice il caso! - è il fratello dell'ex sindaco democristiano di Bergamo, nonché presidente democristiano della provincia, nonché candidato al Parlamento della DC - trombato, grazie alla lega - e poi del PPI - trombato sempre grazie alla lega - nonché magistrato civile nello stesso tribunale di Bergamo.
Con il processo di Bergamo si è avviata di fatto una nuova fase della politica italiana. La fase in cui il cambiamento, non potendo più avvenire all'interno delle istituzioni romane, sta per esplodere nella società e nella quale il Governo e i partiti che lo sostengono, insieme alla falsa opposizione, mettono in campo il loro armamentario fatto di poliziotti manganellatori, di magistrati che fanno i processi politici e di servizi che denunciano rischi di terrorismo che imputano ad altri, ma che forse si preparano a fare loro (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
La lotta politica della lega nelle istituzioni romane può ormai solo rallentare la restaurazione del regime. Ormai, tutti i poteri dello Stato ed anche i partiti di questo Parlamento sono uniti in quello che molti sentono come un complotto di unità nazionale, grave come e più degli anni di piombo. Allo stesso modo, è la ragion di Stato che guida ormai l'azione dei vari pool di magistrati che carcerano molto ma processano poco. Eppure, viene prima la verità della giustizia. Devo prima conoscere la verità, cioè svolgere il processo, per poter poi fare giustizia, cioè assolvere o condannare. Da noi invece pare che non si voglia sapere, che non si voglia scoprire, come se già si conoscesse fin troppo bene quali siano ed a che livello siano l'illegalità e la corruzione. Se la gente sapesse, se sapesse tutto, allora sì sarebbe davvero pericoloso. Se si portasse a galla la verità, quasi certamente si verificherebbe il crollo dello Stato, la cancellazione dei partiti e di molti dei principali manager pubblici. È per questo motivo che la verità sulle madri delle tangenti è difesa dalla ragion di Stato. I magistrati, che il popolo immagina intenti a fare giustizia, in questo caso fanno il contrario, mettono in galera gli avversari politici del regime e minacciano i figli del popolo padano (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania). Mettono in galera prima dei processi; si interessano di «cosette» minori, ma soprattutto impediscono - per la ragion di Stato - che venga a galla la verità, che pure è molto semplice: il consociativismo fu costruito alla fine degli anni settanta, con i Governi di unità nazionale, da comunisti e democristiani. Viene da pensare, cari giudici, che, se non siete capaci di trovare i colpevoli veri, ve li possiamo indicare noi: democristiani e comunisti, sono costoro i responsabili del consociativismo, delle terribili madri delle tangenti. Hanno nomi famosi questi latitanti che nessun magistrato cerca. Furono osannati i segretari di partito ed i loro esperti economici - ben conosciuti in questa sede - ed i loro portaborse.
Penso inoltre al ruolo della magistratura che soltanto dopo la caduta del comunismo e solo dopo che la lega aveva fatto crollare il CAF avviò, con «mani pulite», un processo di condanna del consociativismo. Un'azione comunque cominciata fuori tempo massimo e che si fermò all'affare Enimont, che è soltanto un episodio di quella grande madre delle tangenti che si chiama affare IMI-SIR.
Di tutto il resto di questo grande scandalo non vi è niente, tranne l'ultimo riverbero su Previti.


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Una voce dai banchi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo: Avete votato contro!

ROBERTO MARONI. Quando avviene una rapina, bisogna risalire innanzitutto ai principali colpevoli, a chi l'ha ideata, a chi l'ha messa in pratica, senza fermarsi alla manovalanza. Avete coinvolto anche la lega ed un giorno ci si racconterà come andò, chi tramò, perché fu colpita la forza del cambiamento. Se si risalisse ai veri responsabili, ai distruttori del paese, i magistrati dovrebbero entrare nei meandri del «Palazzo». Dovrebbero ad esempio capire in che modo venne disattesa la legge n. 787 del 1978 che dava la possibilità di creare consorzi bancari per salvare aziende in crisi. La magistratura dovrebbe spiegare perché la classe politica centralista sostenne il progetto faraonico del polo chimico mediterraneo di uno sconosciuto imprenditore; dovrebbe spiegarci chi realmente dirigesse l'IMI e chi il consorzio bancario della SIR. È garantito che i nostri cari magistrati, in certi casi, si perderebbero negli alberi genealogici di nomi noti. Dovrebbero interrogarsi su come fu possibile bruciare 4 mila miliardi solo nel primo anno (circa 20 mila miliardi di oggi), di cui 1.269 di titoli decennali infruttiferi dell'IMI, prestati dalla Cassa depositi e prestiti (a cui i nostri comuni sono oggi costretti a cedere gratis i loro risparmi) e ben 1.600 miliardi persi in proprio. Dovrebbero chiedersi se, quando il comitato per la SIR cedette numerose delle sue attività fallimentari all'ENI ed alla Montedison, le perizie che vennero fatte fossero aderenti ai valori aziendali, occupazionali e tecnologici vantati. Quelle perizie, infatti, ebbero il loro peso nella sentenza con cui il tribunale di Roma ha costretto l'IMI a pagare circa mille miliardi agli eredi Rovelli.
I signori magistrati dovrebbero considerare come mai non sia stato preso in considerazione il circostanziato esposto del sindacato autonomo SILCEA, presentato alla procura generale presso la Corte dei conti ed inviato anche personalmente a Di Pietro, che denunciava il comportamento negligente del presidente dell'IMI, che avrebbe fatto ricadere solo sul suo istituto la condanna a pagare mille miliardi ai Rovelli.
Quante cose si sarebbero potute fare e non si sono fatte. Ci si è limitati al caso del povero Gardini, il quale, truffato dalla promessa della licenza per poter produrre la benzina ecologica, comprò la Montedison distrutta dalle operazioni dei politici, accettando di accollarsi gli oneri del rilancio e che poi per disfarsene fu travolto dal giro tangentista.
Questa è stata la sola parte indagata da Mani pulite in un processo che è servito senz'altro a sciogliere i resti del pentapartito, ma che di fatto ha interferito con il processo di normale concorrenza politica che, se lasciato a sé, avrebbe forse permesso alla lega di cambiare davvero il paese.
Per fare pulizia occorre cercare a monte, ma è in quella direzione che c'è l'impedimento della ragione di Stato, perché il paese perderebbe l'ultimo partito che gli è rimasto, perché lo scandalo coinvolgerebbe manager e uomini politici che stanno molto in alto. Si sceglie invece di cercare solo in basso.
A Previti, il quale avrebbe distribuito qualche decina di miliardi ai magistrati romani per indirizzare positivamente il processo Rovelli, si faccia il processo subito, invece di mandarlo in carcere cautelativamente, perché il carcere è un luogo pericoloso per chi fosse a conoscenza di verità scottanti. È stato pericoloso per Cagliari, il mediatore della vendita delle aziende SIR all'ENI ed alla Montedison, morto in carcere suicida - dicono - con un sacchetto di plastica. È stato pericoloso per Gardini, pure lui suicida, dicono.
La ragione di Stato sembra essere alla base di tutto questo girare a vuoto. È un teatro dove i famosi «pulitori» non possono o non vogliono pulire, o addirittura devono garantire che nessuno possa farlo.
Mi sono dilungato sugli antecedenti del caso Previti sia perché la stampa di regime ha fatto credere che la lega abbia salvato Previti e non invece la giustizia,


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quella onesta, ma soprattutto perché tutto questo ha a che fare moltissimo con la bicamerale. Se la magistratura, che dovrebbe essere garante del sistema democratico, decide di non agire contro queste madri delle tangenti per la ragione di Stato, diventa allora impossibile cambiare il sistema.
Se la ragione di Stato trasforma in un teatro ipocrita la giustizia, diventa teatro e finzione anche la bicamerale; un teatro drammatico e vergognoso, la cui logica è quella del Gattopardo: fingere di cambiare affinché nulla cambi. Ed infatti questa bicamerale è semplicemente dannosa per il paese.
Di federalismo, caro onorevole D'Onofrio, nel testo da lei predisposto non c'è neppure l'ombra. Resta in vita la scelta dei Savoia, che poneva nel Parlamento romano la mediazione tra nord e sud, lasciandola alle trattative libere tra segreterie e lobby di partito, senza regole certe, senza chiarezza costituzionale, ma favorendo invece ambiguità e corruzione.
C'è sullo sfondo la concezione dalemiana del federalismo, che poggia sul vecchio progetto craxiano, fatto proprio dal Governo Prodi, e cioè togliere peso alle regioni, che sono gli unici organismi istituzionali sufficientemente grandi da potersi opporre al centralismo statale, cancellare le province ed accorpare i comuni: quindi annientare le identità storiche, sostituendole con il becerume artificiale delle aree metropolitane.
È una prospettiva brutalmente centralista, che se sposata alla forma di governo presidenziale esporrebbe il paese a rischi di un centralismo ancora più autoritario di quello che oggi abbiamo.
C'è poi il fondamentale problema di una magistratura largamente inquinata dalla politica e dai partiti. Il testo presentato in bicamerale ha reso praticamente impossibile votare per un compiuto cambiamento del sistema giudiziario, in quanto prima bisognava votare per il CSM, poi per l'eventuale separazione delle carriere e, da ultimo, per l'elezione dei magistrati della procura. Tutto è stato cioè messo al contrario di come doveva essere presentato.
Prima occorre, infatti, decidere se i magistrati debbano continuare ad essere nominati dall'alto oppure se sia finalmente arrivato il momento di farli eleggere dal popolo, di farli uscire dal loro aristocratico e statocentrico paradiso (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
Solo dopo aver deciso se anche la magistratura inquirente deve essere eletta dal popolo o da Roma si potrà decidere in merito alle carriere e al CSM.
Dalla bicamerale è uscito, invece, un testo squinternato. La magistratura resta completamente nominata da Roma, ma c'è il doppio CSM, il che significa che i due poli si spartiranno il controllo della magistratura: ad uno andranno i procuratori, all'altro i magistrati giudicanti. Siamo al peggio del peggio, alla magistratura controllata e spartita!
Un'altra perla della bicamerale è la nuova legge elettorale. L'unica cosa che peraltro interessa davvero ai due poli, oltre naturalmente alla cancellazione di ogni speranza, anche per un futuro remoto, di arrivare al federalismo.
Vogliono la legge elettorale basata sul doppio turno, così da poter annientare chi non sia asservito al centralismo romano. Nel primo turno la lega correrebbe contro i due poli romani, che però nel secondo turno si unirebbero contro di noi come nelle elezioni comunali. Una legge elettorale quest'ultima che intendiamo portare a referendum abrogativo prossimamente.
Il paese è tradito da questa bicamerale e noi ci auguriamo che il suo frutto indigesto non trovi il consenso necessario per essere approvato. Si faccia un'assemblea costituente, piuttosto che un simile obbrobrio antidemocratico! È follia, mentre la lotta politica si sta scatenando nella società, dar vita ad un simile sistema elettorale! Al contrario, ne occorre uno capace di decomprimere le tensioni sociali che la lotta politica gonfierà a dismisura. Creando invece un sistema parlamentare

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blindato, lo scontro sociale finirà per essere l'unica via per la lotta politica di cambiamento.
Forse qualcuno non ha ben capito che sta finendo il periodo iniziato trent'anni fa, nel 1968, allorché venne applicata allo Stato la formula «meno tasse e più servizi», lasciando alla stampa dei titoli di Stato la copertura dei costi dello Stato. Una formula che, finché ci fu da mangiare il risparmio dei cittadini, fu accompagnata criminalmente da un'altissima inflazione, che è stata la causa di molti figli mai nati, di case mai acquistate, del genocidio che si è esteso in Padania e non solo.
È uno Stato, quello italiano, che dopo aver distrutto il presente pensò di rubare con il debito pubblico anche il futuro. Adesso che il Governo con i suoi trucchi contabili e le sue stangate fiscali ha abbassato il deficit siamo tornati come prima del 1968 con in più 2 mila 500 milioni di miliardi di debito, un macigno che gli ossequiosi «lecchini» di regime hanno come per magia fatto sparire dalle colonne dei giornali.
In conclusione, signor Presidente, il gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania esprime un giudizio radicalmente negativo del lavoro sin qui svolto dalla Commissione bicamerale. Esso è gravemente insufficiente per ciò che concerne l'assetto della giustizia ed è addirittura dannoso per i cittadini della Padania, per quanto riguarda la proposta di un assetto federalista che non c'è e neppure si vede.
Per quanto ci concerne, dunque, la lotta politica per il cambiamento dello Stato esce dal pantano della Commissione bicamerale e va direttamente nella società, a fianco delle categorie di produttori padani, che, sull'esempio degli allevatori, possono decidere di ribellarsi al centralismo romano (Applausi dei deputati del gruppo lega nord per l'indipendenza della Padania)! Siamo a fianco dei cittadini padani, perché vogliamo evitare che essi siano costretti a battersi contro il manganello dei poliziotti, contro i processi dei magistrati politici, oppure contro le tentazioni di chi vuole far nascere una nuova stagione del terrorismo di Stato (Applausi dei deputati del gruppo lega nord per l'indipendenza della Padania)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marini. Ne ha facoltà.

FRANCO MARINI. Signor Presidente, colleghi, debbo dire che non condivido il giudizio espresso poco fa dall'onorevole Bertinotti sul quadro nel quale ci muoviamo, cioè il presunto disinteresse del paese e del cittadino rispetto al dibattito sulle riforme avviato in questi giorni nell'Assemblea della Camera dei deputati.
Sono convinto che vi sia questa consapevolezza, che essa sia forte e che si sia aperta una fase in cui la capacità di risposta della struttura politica del Parlamento rispetto ai problemi del paese possa aiutare a superare una diffidenza che negli ultimi anni si è diffusa tra cittadino e politica. Trovo peraltro il segno di questo dato anche nella vicenda della crisi, aperta e conclusa, sull'esperienza di Governo. Allora ci fu emozione nel paese, ci fu partecipazione, al di là delle nostre aspettative, di quelle dei partiti politici e forse anche del Parlamento.
Credo che non possiamo non partire dal rilevare questa consapevolezza, la quale risponde a ragioni di fondo che il cittadino avverte e tocca con la sua esperienza. C'è innanzitutto una esigenza di stabilità politica nel nostro paese, che è guardata come fase di partenza, dato ineliminabile per affrontare i problemi che concernono poi la vita del cittadino e delle nostre famiglie. Se penso al futuro dell'impresa, alla grave questione della disoccupazione, al ritardo meridionale, all'avvio e alla conclusione della riforma di uno Stato sociale che non distrugga condizioni di protezione conquistate nei decenni, credo che il cittadino avverta l'esigenza di una stabilità politica come dato di riferimento generale per tale azione. Insomma, le potenzialità del nostro paese rilevate a livello europeo da osservatori mai teneri con l'esperienza del nostro paese, sono nella testa dei nostri


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cittadini e noi non dobbiamo dimenticarlo. Certo, per quanto riguarda la stabilità non tutto dipende dall'assetto istituzionale, ma una riforma sul piano di una maggiore stabilità e concretezza delle istituzioni è un punto importante.
Credo anche si sia diffusa la consapevolezza di difendere le condizioni per un ricambio normale dei gruppi dirigenti politici. Viviamo una fase della vita dell'Italia e dell'Europa caratterizzata dal senso di angoscia indotto da una velocità continua di cambiamento. Tutto cambia intorno con grande velocità nell'economia e nella società ed è sentita l'incapacità ad affrontare anche il senso di un ricambio politico più adatto a tutto quello che si muove intorno.
Oggi il rafforzamento di un bipolarismo, certamente non compiuto, e di una democrazia dell'alternanza risponde ad una profonda esigenza del paese, che il cittadino avverte.
Ancora, io credo che dobbiamo lavorare, nell'aggiornamento delle nostre istituzioni, con la preoccupazione di fare scelte che mettano il cittadino al centro della politica, il cittadino arbitro, trovando formule, anche elettorali (seppure non discuteremo di legge elettorale all'interno della riforma predisposta dalla bicamerale), norme che facciano sì che il cittadino decida per i parlamentari, per il suo Governo, per la sua maggioranza. Insomma, si tratta di lasciarsi per sempre dietro le spalle la teorizzazione delle mani libere dei partiti, per cui si raccoglie il voto e poi si decide quale assetto dare al Governo del paese.
Tutto questo all'interno di una sorprendente consapevolezza e voglia di Europa. Sorprendente per chi, secondo me, non coglie i dati di maturazione del dibattito tra i cittadini e nell'opinione pubblica, perché ha camminato l'idea che il futuro dell'impresa, dei giovani, del lavoro italiano passi per l'integrazione che partirà nei prossimi mesi con le decisioni sull'euro. Questa volontà di Europa non si risolve, ovviamente, soltanto con le scelte, anche dure, di politica economica e monetaria che il Governo ha portato avanti con successo, ma anche rendendo lo Stato, le nostre regioni e le nostre autonomie locali più europee, nel senso della stabilità, della sicurezza, della possibilità del ricambio.
Il Parlamento ha risposto positivamente a questa esigenza e a questa consapevolezza. Voglio soltanto ricordare che, dopo 15 anni di discussioni e di strumenti messi in piedi dal Parlamento (proprio 15 anni fa cominciò a lavorare la prima Commissione Bozzi), questa volta la bicamerale approda in aula con un suo progetto, compiuto per quanto discutibile e migliorabile. Dobbiamo dedicare i prossimi mesi a questo lavoro straordinariamente importante. Sottolineo che, all'interno della bicamerale, la proposta che abbiamo portato in quest'aula è stata largamente accettata, certo con riserve, ma è stata accettata.
Il Parlamento, secondo me, deve avere, oltre che la responsabilità rispetto alle esigenze del paese, l'orgoglio di portare a conclusione questo lavoro. Penso alle elezioni del 1996: nelle ultime elezioni politiche non vi fu forza politica che non si spese tra le priorità per la riforma della Costituzione. Se non sbaglio, furono tutte, ed è un impegno che è stato preso con gli elettori. Per questo sono sicuro che la legislatura, dopo i buoni risultati ottenuti sul piano della politica economica e sociale dal Governo, si giocherà su questo passaggio, su questa capacità di rispettare gli impegni che le forze politiche hanno preso con gli elettori.
Sul metodo dei nostri lavori voglio ribadire una scelta già fatta e non contraddetta, almeno in maniera esplicita, da alcuna forza politica. Quando si riscrivono le regole, la pretesa di andare avanti a colpi di maggioranza è sbagliata e probabilmente anche ingiusta. Nella bicamerale ci siamo mossi con questa consapevolezza. Ricerchiamo le intese più larghe possibili, perché questo impone l'altezza della materia che trattiamo. Ciò naturalmente non vuol dire escludere lo sforzo di ricerca di unità all'interno dei singoli schieramenti, nel nostro caso della maggioranza, ma non vuol dire che, una volta scelta la via

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delle maggioranze più larghe possibili, vi possano essere recriminazioni se a volte emergono posizioni che dividono gli schieramenti, non auspicabili ma possibili con un metodo di questo genere. Noi popolari rivendichiamo la giustezza di tale metodo e ad esso continueremo con linearità ad ispirare il nostro comportamento.
Sul merito del lavoro svolto dalla bicamerale, credo di poter dire che il nostro giudizio è di sostanziale positività. Si è approvato un progetto che su qualche aspetto, anche rilevante, non ha avuto il nostro voto, ma il lavoro globale ha ricevuto anche la nostra approvazione. Mi soffermerò brevemente su tre questioni, forma di governo, magistratura e federalismo, ma prima voglio sgombrare il campo da due problemi.
Io rifiuto le stroncature esterne al Parlamento, ma anche quelle interne (l'intervento dell'onorevole Maroni non è stato di certo tenero sul lavoro svolto). Io credo che all'esterno del Parlamento - dobbiamo essere attenti anche ai giudizi degli esperti della società civile - spesso il rifiuto del lavoro della bicamerale sia legato non tanto al merito delle decisioni proposte all'aula, quanto all'insoddisfazione per un'evoluzione politica che non viene condivisa. Se c'è un problema legato alla discussione politica chiedo che venga risolto a livello politico. È difficile accettare queste stroncature se hanno un obiettivo del genere. Credo che tutto sia stato fatto alla luce del sole. Mi rivolgo ai più critici: mi sembra un po' banale e superficiale parlare, per esempio, di «patto di casa di un esponente dell'opposizione». Il lavoro lo abbiamo svolto in bicamerale coinvolgendo tutti e con il metodo che ho richiamato. Rivendico anche il diritto di discutere di riforme attorno ad una crostata - per altro di alta qualità -; non è questo che inficia la linearità di una posizione che in sede di Commissione abbiamo portato avanti.
Ribadisco invece un giudizio politico. È ovvio che il Parlamento è sovrano e che possiamo operare aggiustamenti, anche profondi. Sono però convinto che la volontà di far saltare dalle fondamenta l'impianto dell'intesa della bicamerale creerà forse le condizioni per un fallimento del nostro lavoro e questo non lo vogliamo.
Sul merito, parlando di forma di governo debbo dire che alcuni rilievi di esponenti di forza Italia - mi riferisco in particolare all'onorevole Calderisi che sta ascoltando il mio intervento - non si può dire che non siano legittimi (sono infatti riecheggiati anche in Commissione bicamerale) ma non tengono conto di alcune scelte di fondo. Come è noto noi eravamo favorevoli al governo del premier; non è un mistero che non eravamo d'accordo sull'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Abbiamo però preso atto del voto della maggioranza della Commissione. Nessuna voglia di rivincita, anche se l'intervento della lega, in quell'occasione, fu un po' occasionale: determinò tuttavia una maggioranza che noi abbiamo rispettato.
Mi è sembrato inoltre che tutti quelli che hanno votato il documento della bicamerale fossero d'accordo sul fatto che il Presidente della Repubblica non dovesse avere poteri diretti di Governo. Compiti forti sì, garante dell'unità nazionale (e Dio sa se ne abbiamo bisogno nella vita dell'Europa di questi anni!), garante della correttezza istituzionale, ma non poteri di Governo. Vorremmo chiarire qui in aula cosa significhi intervenire nella politica di difesa ed estera. Se si tratta di ribadire la dizione formale della bicamerale su questo punto (per esempio sulla politica estera) che recita: «Assicura il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali», siamo d'accordo; se invece vogliamo tirare questa affermazione per dare poteri veri di gestione della politica estera, allora non siamo d'accordo.
Allo stesso modo non condividiamo l'obbligo del Governo di dimettersi appena eletto il Capo dello Stato o la sua facoltà, come Presidente della Repubblica, di rinviare il Governo alla Camera per una verifica anche quando il Governo scoppi di salute. Sono queste due facoltà che

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rischiano di provocare un conflitto tra Presidente eletto e Capo di Governo e minare quindi la stabilità delle istituzioni. È una discussione che dobbiamo fare tra di noi. Credo che non sia giusto accusare una posizione come quella che sto sottolineando dicendo che alziamo il tiro sulla forma di governo per ottenere poi uno scambio con altre cose. Non è così. Noi siamo affezionati ad un sistema limpido: Presidente eletto (lo abbiamo accettato) ed un Governo che risponda e sia espressione del Parlamento che gli dà l'investitura, senza confusione di ruoli. Abbiamo importanti esempi in Europa di linearità delle istituzioni, di distinzione tra Presidente della Repubblica e Governo che funzionano, se non alla perfezione, certamente bene.
Sarò assolutamente breve sul tema della giustizia. I costituenti del 1947 assicurarono l'indipendenza della magistratura. Noi confermiamo questa linea. Dovremmo tentare di uscire dai condizionamenti di una dialettica che esiste nel paese, di un contrasto che è quotidiano e pensare a tutto questo in maniera più alta, più legata alla prospettiva che all'attualità. Noi ci muoviamo per riformare, ma non abbiamo conti da regolare con la magistratura. L'indipendenza del giudice va fissata in Costituzione, così pure l'autonomia del pubblico ministero da altri poteri e in Europa ci sono situazioni diverse, alle quali non aspiriamo. Proprio perché ribadiamo l'indipendenza del pubblico ministero, riteniamo necessaria una distinzione netta di funzioni tra pubblico ministero e giudice che giudica, il giudice terzo. Questo perché vogliamo creare condizioni per il processo giusto e rafforzare i poteri della difesa, un problema aperto nella vita quotidiana del nostro paese. Vogliamo insomma mettere l'interesse del cittadino al centro di questa nostra azione di riforma, senza voglia di penalizzare questo o quell'ordine, ribadendo che siamo affezionati all'indipendenza della magistratura.
Le esigenze - queste che ho detto - del cittadino nel processo giusto, rivalutando i diritti della difesa, sono esigenze per noi irrinunciabili, lo voglio sottolineare. Il modo, il metodo, credo possa essere rimesso ad un confronto serio tra di noi; può darsi che ci siano soluzioni alle quali possiamo chiamare una larga maggioranza in questo Parlamento. Ci sentiamo fortemente impegnati in questa direzione.
Sul federalismo, debbo dire che quella dell'onorevole Maroni appare una chiusura, un giudizio drastico, duro, netto. Forse dopo quell'intervento ho il dubbio se farlo, ma do lo stesso questo riconoscimento. In sede storica, come si può negare che la lega anni fa abbia posto un problema? La lega più di altri, perché avevamo anche noi un nostro parlamentare giurista, che poi fu vittima delle brigate rosse, che poneva questo problema. Ma come forza politica la lega pose il problema di un rapporto diverso tra Stato, cittadino e autonomie, regioni in particolare, ma anche comuni e province (sottolineo le province per i discorsi che dovremo fare). Lo pose questo problema e non inventandolo, perché le forze politiche non nascono mai dall'invenzione; una forza politica nasce quando coglie il senso di una spinta che c'è in una parte del paese. Nacque così la lega e la bandiera è stata il federalismo. In Europa, entrando in Europa questa è l'unica battaglia possibile. Questo Parlamento deve affrontare questo problema per risolverlo.
La proposta di D'Onofrio non è accettabile? Naturalmente si può discutere. Per me è una base attorno alla quale si può ragionare, per uno sbocco positivo che colga l'esigenza, matura ormai non soltanto in ambienti del nord ma in tutto il paese. Questo è un passo fondamentale per risolvere anche problemi di disagio del nord del paese e forse anche per affrontare la vera emergenza italiana, la capacità di risposta delle regioni nel Mezzogiorno, perché lì sono i giovani disoccupati e questa è la preoccupazione che, anche come Parlamento, prioritariamente dobbiamo avere.
Sono così ingenuo da fare un appello - a volte l'ingenuità può essere accettata, da me almeno -: questa è un'occasione

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probabilmente irripetibile. Esprimo un giudizio: non ci sarà il fallimento dell'azione di riforma, non credo. Questo Parlamento ormai un passo avanti lo ha fatto e di fronte alle proprie responsabilità sa - come io credo - che questa esigenza si lega ad un'esigenza fortemente sentita dal popolo italiano ed ha mostrato questa voglia di decisioni vere della politica. Ci si tira indietro dopo essere stati capaci di suscitare e portare all'attenzione del paese un problema di questo rilievo? Credo che ci si debba pensare.
Semmai forse il problema un pochino più spinoso, più difficile dentro questa materia del rapporto Stato-regioni-autonomie è quello del ruolo della seconda Camera, del Senato. È stato faticoso trovare il consenso attorno alla soluzione che abbiamo portato e non è stato unanime. Probabilmente, dovremo ripartire dal considerare la seconda Camera come luogo di reale raccordo tra Stato, regioni e autonomie locali. Questo discorso ci può portare anche a probabili aggiustamenti.
Mi ricollego alla mia visione del lavoro in aula: un lavoro che non sovverta la faticosa e seria intesa raggiunta tra le forze politiche in bicamerale, ma che ha spazi di aggiustamento serio, profondo che dobbiamo cercare di affrontare.
Caro Presidente, colleghi, ho concluso. Ringrazio il presidente della Commissione bicamerale ed i relatori per lo sforzo di serietà, per l'approccio di responsabilità che hanno realizzato con i loro interventi all'inizio di questo dibattito ed assicuro, al di là dell'asprezza che qualche volta può caratterizzare la difesa di posizioni nelle quali si crede realmente, il contributo costruttivo e serio, nella direzione del successo del lavoro riformatore, del partito popolare italiano (Applausi dei deputati dei gruppi dei popolari e democratici-l'Ulivo, della sinistra democratica-l'Ulivo e di rinnovamento italiano).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fini. Ne ha facoltà.

GIANFRANCO FINI. Signor Presidente, colleghi, nel corso del dibattito è stato giustamente ricordato più volte che l'esigenza di modificare la Costituzione è antica, un'esigenza della quale - se si vanno a rileggere gli atti della Costituente - vi era consapevolezza già nell'epoca storica in cui fu scritta l'attuale Costituzione. Abbiamo tutti quanti alle spalle - chi più, chi meno - un dibattito che, a livello politico, culturale, in alcuni momenti a livello istituzionale, è durato quasi mezzo secolo.
L'andamento del dibattito è stato per molti aspetti simile a quello di quei fiumi carsici che scompaiono, magari per chilometri e chilometri, ma che pur tuttavia continuano a vivere. Ed è corretto dire che in alcuni momenti, nel cinquantennio che abbiamo alle spalle, la sensibilità sulla necessità o sull'esigenza di riformare la Costituzione non era così avvertita, così come, al contrario, accade da almeno quindici anni a questa parte.
E, pur tuttavia, il dibattito c'era. È stato ricordato un pensatore come Calamandrei. Affinché ne rimanga traccia a futura memoria, ne voglio ricordare altri, i quali non appartenevano culturalmente a quel mondo che, con un compromesso, diede vita alla Costituzione del 1946, persone che, non appartenendo né al filone di carattere culturale e politico riferibile al mondo cattolico né a quello riconducibile al mondo allora comunista, si trovarono in qualche modo ad essere portatrici di idee di rinnovamento che non ebbero però una grande dignità o, se volete, un grande indice di ascolto nel dibattito e che, pur tuttavia, elaborarono tesi, prospettive, pensieri, idee di rinnovamento. Voglio soltanto ricordare pensatori come Panfilo Gentile, Carlo Costamagna, Giuseppe Maranini, come - e cito un nome che so essere in qualche modo scomodo, perché ingiustamente demonizzato e condannato - Randolfo Pacciardi.
Il dibattito c'era, e c'era anche quando non appariva. Non vi è ombra di dubbio che quel dibattito sia comunque esploso - ed è stato ricordato - da almeno quindici-venti anni a questa parte ed ha riempito non soltanto le discussioni in quest'aula e nelle Commissioni ma anche le pagine dei


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giornali; ciò perlomeno dal periodo in cui fu lanciata, con una valida intuizione che poi fu tradita, dall'onorevole Craxi l'idea della grande riforma (ripeto, un'intuizione tradita), perlomeno dal momento in cui nacque la prima Commissione presieduta dall'onorevole Bozzi e la successiva De Mita-Iotti. E poi la stagione referendaria; e poi i tanti dibattiti...
Ho voluto ricordare tutto questo, perché vorrei fosse chiaro, almeno a coloro che ascoltano, in particolar modo ai molti italiani che stanno seguendo il dibattito, che quest'ultimo non è un dibattito qualsiasi ma ha alle spalle una sua lunga storia. Lo ricordo anche perché mi sembra che in alcuni momenti l'Italia sia un paese dalla memoria corta o - se preferite - in cui vi sia una tendenza ingiusta, autolesionista, a leggere tutto in chiave di quotidianità, magari aggiungendovi anche dosi industriali di banalità.
Ritengo sia politicamente miope pensare che questo dibattito e i successivi lavori possano essere considerati come uno dei tanti momenti della dialettica parlamentare, magari come un pur importantissimo decreto su una quota latte o su una qualsiasi altra questione della politica contingente.
Non è un dibattito qualunque, non è un momento qualunque. Alleanza nazionale ne è consapevole, perlomeno vuole trasmettere la sua consapevolezza. Alleanza nazionale ritiene che i lavori che abbiamo alle spalle, quelli che abbiamo svolto in Commissione, e quelli che abbiamo iniziato in quest'aula e che proseguiremo rappresentino un momento importante. Non voglio usare aggettivi enfatici, ma si tratta di un momento essenziale per capire qualche cosa, per capire anzitutto se l'Italia può davvero voltare pagina, se l'Italia può chiudere la fase di una transizione estremamente turbolente, che è iniziata più o meno nel periodo 1992-1994, o se, al contrario, l'Italia è destinata a rimanere ancora in una situazione di incertezza e, aggiungo, di pericolo. Infatti, non vedo come non si possa scorgere il pericolo che si correrebbe qualora dovessero fallire quelle riforme che, come è stato ricordato, giungono per la prima volta in un'aula del Parlamento, avendo alle spalle non solo un dibattito ormai ultradecennale, ma anche un elaborato organico che comprende tutta la seconda parte della Costituzione.
Il pericolo c'è e bisogna esserne consapevoli, perché l'Italia rischia, se davvero non darà vita a delle riforme, la deflagrazione. Ci sono troppi segnali che devono essere ascoltati. Troppe volte chi rappresenta il popolo si sente dire dagli elettori che è ormai una consapevolezza diffusa nei ceti produttivi, che c'è in tanti strati della nostra società la sensazione di dover lavorare e di poter lavorare contro lo Stato o, nella migliore delle ipotesi, nonostante lo Stato, mentre noi sappiamo che una democrazia funziona quando si lavora e si produce in ragione degli spazi di libertà, in ragione delle regole e delle garanzie che lo Stato attribuisce ai ceti produttivi, alle categorie, ai lavoratori.
Il rischio di non fare le riforme è anche il rischio di una deflagrazione di una tensione che c'è. I segnali della inadeguatezza delle istituzioni nel loro complesso agli occhi di tanti elettori sono stati ben percepiti. Non è un caso, credo, che sia cresciuta, anche recentemente, una certa disaffezione nei confronti della politica.
L'Italia rischia anche la subordinazione, se mantiene l'attuale assetto istituzionale, perché la sfida nei confronti dell'Europa comincia adesso, comincia domani, comincia quando, entrati con parità di diritti e di doveri nell'ambito della moneta unica, occorrerà competere con interlocutori che sono più avanti di noi, e non parlo di questioni economiche, ma sono più avanti di noi nella costruzione di uno Stato che funzioni, sono più avanti di noi nell'edificazione di un sistema di democrazia governante, di democrazia trasparente, di democrazia efficiente.
Noi rischiamo per davvero di perdere la competizione se continuiamo ad avere un assetto istituzionale che, a detta di tutti, è una delle cause della difficoltà che

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l'Italia ha nel confrontarsi con i suoi partner occidentali e nel competere in una dimensione internazionale.
Allora, senza enfasi, si può anche dire e si dirà, lo affermerò anche io, che il testo elaborato dalla bicamerale non è ciò che era nell'animo di tutti coloro che credevano nelle riforme, non è ciò che di meglio si poteva fare, però c'è e, come cercherò di dimostrare, cambia, innova.
Ritenere che debba essere respinto e in qualche modo annullato può significare per davvero far correre all'Italia il rischio di una subordinazione, di una deflagrazione, di un ulteriore momento di incertezza.
Allora non mi meraviglio che questo possa essere l'obiettivo di chi all'Italia non crede. Abbiamo sentito gli interventi di chi non ci crede, di chi in qualche modo persegue il «tanto peggio, tanto meglio», di chi sa perfettamente che la follia, l'utopia, la bestemmia della secessione può diventare realizzabile soltanto se il sistema Italia crolla, se non risponde. Ma mi chiedo se possa credere all'opportunità di non fare le riforme chi nell'Italia ha creduto, chi ha rappresentato l'Italia al più alto livello, chi - lo dico con rispetto - in certi momenti ha aiutato l'Italia anche facendole capire che era arrivato il momento di discutere delle riforme.
Mi riferisco a chi nell'Italia ha creduto, a chi l'Italia l'ha rappresentata al più alto livello, a chi - lo dico con rispetto - in certi momenti l'Italia l'ha aiutata, anche facendole capire che era arrivato il momento di discutere delle riforme. Mi riferisco direttamente al Presidente Cossiga, che mi sembra vittima di una pericolosissima illusione ottica, perché «picconando» la classe dirigente, la quale ha trovato il faticoso accordo nella Commissione bicamerale, non colpisce soltanto una classe dirigente che - me ne rendo conto - ai suoi occhi ha il torto, magari inconfessato ma reale, di rappresentare qualche cosa di profondamente diverso rispetto alla classe dirigente di cui Cossiga orgogliosamente e senza pentimenti ha fatto parte per cinquant'anni; «picconando» quella classe dirigente e quelle riforme si rischia di colpire l'Italia, di colpire l'interesse nazionale. Ecco perché ho parlato di «illusione ottica». Qui non si tratta di delegittimare qualcuno o un testo, si tratta bensì di negare per molti aspetti l'urgenza di fare le riforme e la possibilità concreta, questa volta, di farle.
Da questo concetto ne faccio discendere un altro che ci riguarda. Non è un mistero che alleanza nazionale ha avuto un ruolo all'interno della Commissione bicamerale, ruolo che ha fatto dire a molti che per la destra italiana si è alle viste di un traguardo di grande rilievo, addirittura storico, la cosiddetta costituzionalizzazione. Voglio dire con grande franchezza che alleanza nazionale vuole le riforme non perché voglia costituzionalizzare se stessa, bensì perché ritiene che le riforme siano in questo momento particolare un obiettivo che attiene strettamente all'interesse della nostra patria.
Alleanza nazionale ha una ragione di esistere nel momento stesso in cui difende l'interesse nazionale. Se avessimo voluto costituzionalizzarci, avremmo accettato qualsiasi riforma, avremmo accettato le ipotesi minimaliste di riforma; non avremmo sostenuto, fino all'ultimo momento possibile, la necessità di imboccare quella che chiamavano la via maestra, vale a dire l'assemblea costituente, che ai nostri occhi aveva il grande pregio di associare i cittadini al processo costituente non soltanto nella fase terminale, ma anche in quella iniziale.
Noi non vogliamo una riforma purché sia; noi riteniamo che il tipo di riforma che scaturisce dalla bicamerale serva all'interesse nazionale. E da questa considerazione ne discendono per lo meno altre due, che spero siano altrettanto chiare. Non è assolutamente vero che esista un asse tra alleanza nazionale e PDS, perché è ridicolo per lo meno per coloro i quali hanno un minimo di consapevolezza di che cosa sia la storia politica italiana e di che cosa significhi essere garanti e portatori di valori che sono radicalmente alternativi (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale). Quando parlo di «banalità», quando

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parlo di una tendenza a vedere tutto in ragione di una quotidianità, che dovrebbe essere in qualche modo rimossa se si discute per davvero dell'avvenire dell'Italia e dell'interesse nazionale, mi riferisco anche a questa sorta di ridicolo «tormentone». Alleanza nazionale ritiene che le riforme debbano essere fatte e che, se pure dopo la necessaria discussione, dopo le opportune modifiche, debbano essere ratificate perché le ritiene innovative.
L'altro concetto che io cerco, nei limiti delle mie possibilità, di far comprendere è che qui non c'è alcun asse per una legittimazione. Qui c'è la consapevolezza, almeno da parte di qualcuno, della opportunità di procedere a delle riforme che cambiano in modo reale il volto dell'Italia e fanno quel cambiamento perché in qualche modo spostano quello che proprio Cossiga definì, nel messaggio alle Camere, il «baricentro della sovranità». È stato detto - e ripeto parole altrui - che dal testo della bicamerale in qualche modo prende corpo un'ipotesi di Repubblica non basata sui partiti, bensì sui cittadini - la Repubblica dei cittadini - perché la Repubblica dei partiti, che si è suicidata, non l'ha uccisa una congiura, si è appunto suicidata quando la Repubblica dei partiti è degenerata in partitocrazia. La Repubblica dei partiti è alle spalle, è archiviata e nel testo della bicamerale ci sono tutti quei segnali che fanno comprendere che la politica italiana, almeno al livello di un'ampia maggioranza, è disponibile a lavorare perché cresca il potere dei cittadini.
Non mi riferisco solo all'elezione diretta e popolare del Capo dello Stato, il cavallo di battaglia, la bandiera istituzionale della destra. Mi riferisco anche ad altro.
Se passa quel tipo di riforma, i cittadini avranno la possibilità di scegliere direttamente nell'urna, con il voto, la maggioranza che poi li dovrà governare, perché la Costituzione approvata dalla bicamerale prevede per il cittadino la possibilità, quando siano in ballo diritti fondamentali, di ricorrere direttamente alla Corte costituzionale; perché viene introdotto il referendum propositivo; perché viene avvicinato il cittadino alle istituzioni, nello stesso momento in cui si dà vita ad un ampio procedimento di snellimento dello Stato, di maggiore autonomia, di ulteriore decentramento, di federalismo nell'ambito dell'unità nazionale e di una doverosa solidarietà tra nord e sud.
Lo spazio del cittadino cresce anche nel momento in cui si scrive nella parte relativa alla giustizia che è indispensabile, nel rispetto dell'autonomia della magistratura, garantire anche agli occhi del cittadino non solo l'imparzialità, ma anche la terzietà del giudice.
Come non cogliere allora che, se pure il modo che è stato trovato è per certi aspetti farraginoso o non al 100 per cento in sintonia con un astratto ideale di purezza costituzionale, un modo che è però il frutto di un lavoro, di un dibattito, di un accordo, di un compromesso fatto alla luce del sole (almeno si leggano gli interventi svolti in bicamerale per scoprire che anche ciò che è stato deciso in altri momenti poi è stato portato in quella sede), come non capire che dal testo uscito dalla Commissione bicamerale l'idea di un'Italia che cambia volto, di un'istituzione diversa rispetto a quella che ci ha accompagnato nel corso di questo cinquantennio c'è ed è forte?
Alleanza nazionale non cerca la legittimazione. Non accettiamo una riforma purché sia. Siamo disponibili a lavorare per mantenere la riforma che è uscita dalla bicamerale, per migliorarla. Bisognerà farlo, perché ci sono alcune parti che necessitano di un ulteriore approfondimento. Penso, ad esempio, che nell'ambito del federalismo occorra tener conto della specificità culturale dell'Italia, l'Italia delle cento città e dei mille villaggi, non l'Italia delle tot regioni. C'è quel federalismo municipale che viene richiesto, come difesa di un'identità, dai sindaci di tutti i colori e deve trovare uno sbocco più appropriato nel testo della bicamerale.
Quando penso alle cose da migliorare, mi riferisco anche al procedimento legislativo, che è estremamente contorto, al

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ruolo della seconda Camera, l'ha ricordato testé l'onorevole Marini, a tutti quei pesi e contrappesi che occorrerà definire in modo ancor più compiuto, tenendo conto - non dico nulla di nuovo - che non si tratta soltanto di un problema di merito, ma anche di metodo: la ricerca di maggioranze più ampie rispetto a quelle di un singolo segmento del Parlamento e tenendo conto soprattutto che, alla fine, la parola spetterà direttamente ai nostri connazionali, che si pronunceranno con un voto, cosa che non fu fatta in altri tempi.
Allora, e concludo, alleanza nazionale non accetta una riforma purché sia, non insegue la costituzionalizzazione fine a sé stessa. Agisce nella presunzione, se volete, di difendere l'interesse nazionale dando vita ad una stagione di riforme, che può diventare reale e concreta. Lavoreremo per migliorare quel testo, pronti a denunciare l'accordo se dovessimo scorgere, nel corso del dibattito, la tentazione di far venir meno quella forte carica innovativa che al contrario, a nostro modo di vedere, oggi c'è.
Ci auguriamo sinceramente di non doverlo fare, perché la necessità di una nuova Costituzione, alla fine di quello che è stato chiamato il secolo breve, alla fine del più lungo dopoguerra che un popolo abbia mai avuto l'avventura di vivere, per portare davvero l'Italia in Europa nel terzo millennio, non è della destra, della sinistra o del centro. Credo che a molti sia ormai ben chiaro che è una necessità di tutta l'Italia. Alleanza nazionale lavora esclusivamente per questo obiettivo (Vivi applausi - Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Fini.
È iscritto a parlare l'onorevole Berlusconi. Ne ha facoltà.

SILVIO BERLUSCONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il 2 agosto 1996 votammo alla Camera la legge istitutiva della bicamerale. Era passato esattamente un anno da quando mi ero rivolto, a nome di tutto il Polo delle libertà, a questa Assemblea per spiegare e sostenere le ragioni e l'urgenza di una profonda riforma della seconda parte del nostro ordinamento costituzionale.
Si dava così inizio ad un cammino difficile che non era la via maestra della Costituzione da noi auspicata. Si trattava di un cammino diverso, accidentato e faticoso, tentato altre volte senza esito, quello di una Commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Con senso di responsabilità e di realismo ritenemmo di doverci impegnare; dall'opposizione non potevamo certo imporre l'assemblea costituente se non puntando su una crisi politico-costituzionale che avrebbe esposto il paese a gravi rischi.
La posta in gioco era alta, poiché si trattava, e ancora si tratta, di ricostruire un tessuto politico e costituzionale lacerato dalle contraddizioni esistenti tra istituzioni indubbiamente datate e una società civile sempre più complessa, aperta e dinamica. Il crollo della prima Repubblica aveva creato disorientamento, vuoti di potere, ambiguità costituzionali e politiche. Esso era avvenuto mediante la distruzione dei partiti di tradizione democratica e occidentale da parte di alcune procure che hanno però risparmiato il PDS e la sinistra democristiana. Questo squilibrio rende molti di noi dubbiosi sulla qualità democratica dell'attuale condizione del paese (Commenti).
Noi non ci chiamiamo certo fuori da un processo costituente che abbiamo per primi determinato, ma non possiamo non preoccuparci di quanti temono che esso finisca per legittimare quella realtà illiberale che sta pericolosamente emergendo sotto i nostri occhi.
Era necessario quindi un nuovo patto per la ricostruzione, come quello che permise la nascita della Repubblica dopo le devastazioni della dittatura e della guerra. Un patto fondato sul comune obiettivo di modernizzare il paese e metterlo al passo con l'Europa. Su quell'obiettivo potevano e possono ancora convergere le energie e le tradizioni del centro-destra, in nome dei valori del liberalismo e del mercato, e quelle del centro-sinistra,


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in nome di quei valori della socialdemocrazia europea che tanti nel PDS dichiarano di voler far propri. Fu questa, lo ripeto, una scommessa fondata sul nostro senso di responsabilità verso il paese. Scegliendo la riforma della Costituzione abbiamo cercato di aprire una via per dare a tutti gli italiani il sentimento di avere, nelle loro istituzioni, la sicurezza della libertà.
Noi, tutti noi di forza Italia, abbiamo lavorato per il successo della bicamerale, spesso non compresi dai nostri stessi elettori. Tuttavia non siamo riusciti a rafforzare la tutela costituzionale delle libertà del cittadino nella vita quotidiana, nella attività di impresa e di lavoro; non siamo riusciti a far fare un passo indietro allo Stato. Anzi, mentre operavamo per una riforma liberale, nella realtà lo Stato faceva passi avanti imponendo nuovi vincoli e aumentando la pressione fiscale. Decidemmo di puntare sui propositi di rinnovamento del PDS, sulla dichiarata intenzione del gruppo dirigente del PDS di allinearsi alle socialdemocrazie europee: per questo contribuimmo anche all'elezione dell'onorevole D'Alema alla presidenza della bicamerale.
Al congresso del suo partito, nel febbraio del 1997, l'onorevole D'Alema ebbe un atteggiamento aperto sul welfare e sulla riforma, a proposito della quale annunciò di rifiutare maggioranze precostituite, auspicando anzi il superamento delle logiche di parte. Era l'interesse generale del paese a dover prevalere.
L'andamento dei lavori della Commissione, tuttavia, non è stato purtroppo all'altezza delle nostre aspettative. Spesso, troppo spesso, il gruppo dirigente del PDS ci ha dato l'impressione di mettere al primo posto gli interessi di una sinistra che, invece di portarsi al livello delle grandi socialdemocrazie europee, cerca in tutti i modi di conservare e compiacere il proprio elettorato, ricalcandone passivamente gli umori e le oscillazioni. Solo qualche mese fa, la lotta di potere all'interno della maggioranza ci ha portato addirittura ad una crisi politica che avrebbe potuto determinare le elezioni anticipate con la fine certa delle riforme ed il mancato ingresso nella moneta unica europea. In quella occasione il destino delle riforme non fu certo la principale preoccupazione del PDS.
Tra alti e bassi, dunque, tra spinte ideali e veti incrociati, il lavoro della Commissione bicamerale è giunto al termine. Sul risultato di tale lavoro, oggi la nostra valutazione può solo essere critica: attenta ai lati positivi e negativi, a ciò che va eliminato perché residuo del passato ed a ciò che invece va sviluppato e rafforzato guardando al futuro.
L'elezione diretta del Capo dello Stato rappresenta sicuramente una conquista e più di ogni altra riforma dà il segno del cambiamento. Ma la nuova fisionomia costituzionale del Presidente della Repubblica appare ancora incerta. Non è chiaro quali siano i suoi poteri, i suoi limiti, le sue funzioni, sicché potremmo avere una figura costituzionale legittimata da milioni di voti e dunque con un grande peso politico, ma povera di poteri reali. Un Presidente eletto dal popolo deve essere responsabile dell'indirizzo politico del Governo e deve disporre degli strumenti per attuarlo. Se non si scioglie questo nodo, che decide degli equilibri politico-istituzionali, non sarà possibile concludere positivamente il processo di riforma.
Notevoli ambiguità permangono anche su altri aspetti. Per esempio, il modo di fare le leggi non aderisce certamente ai criteri di chiarezza e di efficienza richiesti dalla nostra società; inoltre, non è stata disegnata un'assemblea federale che serva da raccordo con le autonomie locali.
Venendo alla legge elettorale, la bicamerale ha prodotto solo un documento di indirizzo, ma anche in esso è contenuto il rischio che gli elettori votino prima per un Presidente della Repubblica e poi per il Presidente del Consiglio. Resterebbe così irrisolto il primo problema per cui abbiamo fatto le riforme, quello cioè di stabilire chi sia il responsabile della politica di Governo.
Quanto alla giustizia, si tratta sicuramente di un progetto innovativo: giudice terzo, equilibrio tra accusa e difesa, centralità

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dei diritti dei cittadini. Ma la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, presupposto perché vi sia una giustizia realmente equa ed efficiente, sembra ancora di là da venire. Questa distinzione esiste in tutte le democrazie occidentali che pure hanno a cuore, almeno quanto noi, l'autonomia e l'indipendenza dei giudici. Pertanto, essa non può e non deve essere intesa come una soluzione contraria alla magistratura. Chiediamo l'equidistanza tra giudice e pubblico ministero. Se essi hanno la stessa carriera, la stessa associazione, lo stesso elettorato attivo e passivo nell'organo di autogoverno, lo stesso ufficio e si scambiano le funzioni ogni volta che lo desiderino, non vi è più parità tra le parti. In queste condizioni, il pubblico ministero è più vicino al giudice di quanto lo sia il difensore. Perciò - lo ribadiamo - non c'è equidistanza né parità; senza parità, le garanzie dei cittadini si affievoliscono o decadono. Ecco perché la separazione delle carriere è per noi un punto fondamentale.
È tuttavia sul federalismo che appare più forte la distanza tra le esigenze del paese ed il testo della riforma licenziato dalla Commissione bicamerale. Certo, rispetto al passato si sono fatti passi in avanti. Le regioni avranno qualche autonomia legislativa e gli enti locali autonomia finanziaria, tributaria ed organizzativa in materie che interessano direttamente la vita del cittadino. Tale autonomia, però, in base alla proposta della bicamerale può essere sospesa dallo Stato centrale in qualsiasi momento. Possiamo definire tutto questo federalismo?
Ed ancora: non è stato compiutamente definito il principio di sussidiarietà, quello per cui la mano pubblica non deve intervenire là dove il privato può fare da sé ed a costi minori, ovvero, per dirla con la migliore tradizione socialdemocratica europea, il mercato ovunque possibile, l'intervento pubblico solo quando necessario.
Se è vero che nel progetto si riconosce il ruolo dei privati, è anche vero che si tratta solo di un benevolo riconoscimento dall'alto dello Stato centrale, con l'intento, neppure tanto velato, di mantenere sotto controllo l'iniziativa privata. Francamente, non possiamo pensare di entrare e restare in Europa senza la piena accettazione delle regole di mercato.
I nodi da sciogliere, come si vede, non sono pochi. Noi questi nodi vogliamo scioglierli perché non accettiamo l'idea di una riforma dimezzata, perché vogliamo fortemente una riforma che aiuti il nostro paese a diventare più moderno, più giusto e più libero, ma, colleghi della sinistra, sia chiaro un punto. Noi di forza Italia non abbiamo bisogno di legittimarci mediante la riforma della Costituzione. Noi siamo nati legittimi, abbiamo reso possibile il cambiamento e lo stesso bipolarismo (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).
Forza Italia è la novità politica ed istituzionale del nostro paese, ma è la realtà in cui viviamo che impedisce al nostro popolo di riconoscersi senza riserve in questa proposta di riforma.
La preoccupazione degli italiani, più che da quello che la bicamerale ha scritto o non scritto, nasce dalla realtà in cui essi vivono. Molti si interrogano se questa realtà non evolva verso il monopolio politico del PDS e temono che la riforma rischi di diventare la legittimazione di un sistema politico-istituzionale che i cittadini non accettano e non possono accettare. Non è il testo della bicamerale che fa il problema, ma l'attuale, concreta realtà delle cose.
Noi - lo ribadisco - vogliamo la riforma della Costituzione, ma solo se verranno superati i limiti del testo nella formulazione attuale, che non corrisponde alla vocazione di libertà del nostro movimento, perché siamo fedeli alla riforma, ma soprattutto alla libertà (Vivi applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e misto-CDU e di deputati del gruppo di alleanza nazionale - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Berlusconi.
È iscritto a parlare l'onorevole Mussi. Ne ha facoltà.


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FABIO MUSSI. Signori Presidenti, nei nostri ordinamenti resta - e con la riforma credo resterà indelebilmente impresso - il segno democratico, repubblicano ed antifascista della Costituzione del 1948. La prima parte di essa non è toccata. La memoria e la storia non vengono cancellate. Siamo tutti consapevoli che un popolo che le perda non cancella solo le tracce del passato; smarrisce la via del suo futuro. Questo è il tratto di continuità fondamentale.
Credo però che oggi la volontà di riforma debba essere forte e la nostra responsabilità è certamente grande.
Il presidente D'Alema, nella sua introduzione in questa sede, ha fatto bene a ricordare da quanto tempo si sia fatta largo nel nostro paese la percezione di una inarrestabile crisi del sistema istituzionale e politico ed i tentativi, fin qui falliti, ma non sterili proposte, di affrontarla, almeno negli ultimi quindici anni; tentativi effettuati - voglio dirlo al collega Bertinotti, con il quale qui c'è un punto di dissenso - ben prima che esplodesse la questione morale, che la corruzione, non da ultimo dovuta al blocco del sistema, ad una difficoltà radicale di innovazione e di ricambio, travolgesse le vecchie classi dirigenti, travolte principalmente per loro colpa, onorevole Berlusconi, non per un complotto delle procure della Repubblica (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo)!

VITTORIO SGARBI. Ma che c... dici: roba da pazzi!

FABIO MUSSI. Stabilità, alternanza, potere diretto dei cittadini, capacità di decisione, limite alla funzione dei partiti: ecco quel che è venuto via via mancando; un'assenza, un vuoto che è il ritratto delle debolezze e delle fragilità italiane. Clamorosa assenza in un mondo che così rapidamente va cambiando, che riclassifica ruoli nazionali e poteri dello Stato.
Sì, se si fallisce, il pericolo è grande, sono d'accordo con l'onorevole Fini. E lo dico, lo cito, non per alimentare la favole dell'asse PDS-alleanza nazionale, ma perché mi interessa trovare, proprio quando si discute della legge fondamentale, della Costituzione, idee a destra che possano essere condivise a sinistra: questo è lo spirito costituente!
Alziamo la testa, diamo un'occhiata a capitali, merci, uomini, tecnologie, conoscenze, informazioni: conoscono sempre meno frontiere. Ma sono i paesi forti, non quelli deboli, che fronteggiano meglio la grande trasformazione di questa fine secolo.
L'idea dissolutiva della lega - ognuno per sé -, che porterebbe ad una moltiplicazione degli Stati, può nascere solo da un radicale fraintendimento di quello che sta accadendo e condannerebbe alla marginalità, alla irrilevanza non solo l'Italia, il paese che amiamo, ma anche quella mitica Padania, dove si immagina una nazioncella con tanto di ideologia di Stato e di partito unico, proprio là dove è più forte l'economia e più strutturata la società.
L'Europa: l'Europa durerà poco, se ci fermeremo alla moneta unica, o tornerà al punto di partenza, alla pura competizione nazionale che tante tragedie ha provocato in questo nostro novecento oppure evolverà verso una progressiva integrazione politica sovranazionale; grande potenza democratica che potrà sempre più avere un ruolo pacifico e cooperativo nello sviluppo del mondo.
Allora, colleghi, riformare le istituzioni italiane non è solo un debito nostro verso la storia d'Italia e le difficoltà e i paradossi e i conflitti che si sono aperti nel nostro paese, è anche uno dei maggiori contributi che si possono dare all'idea nuova di Europa che sta faticosamente facendosi largo tra i lasciti dell'ottocento e del novecento, inventariando i quali troviamo grandi ideali, straordinarie esperienze, ma anche autoritarismo, dispotismo, nazionalismo, razzismo, spirito di guerra, draghi da uccidere in questa fine secolo.
Sono riparo sicuro l'integrazione sovranazionale, forti paesi, democrazia forte. Ma quale democrazia? Con la proposta che stiamo qui discutendo tentiamo


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una riforma ordinamentale della nostra Costituzione, molto radicale, a tutto campo. La fantasia a questo proposito poteva e può pure sfrenarsi, ma il nostro spazio di pensiero non poteva, non può che essere quello europeo: in Europa non esistono due sistemi identici, ma le varianti, tuttavia, non sono infinite.
La variante scelta a proposito della forma di governo, se si guarda bene, può essere criticata, se ne possono vedere i limiti, ma non pare così stravagante o artificiosa. Voglio ricordare, colleghi, che la mia parte politica, la sinistra democratica, in prima battuta aveva avanzato un'altra ipotesi, quella del premierato: un voto, un deputato, una maggioranza, un premier con il nome sulla scheda, ed anche distinti poteri di scioglimento in caso di crisi. Era certamente una soluzione positiva, semplice, che rispondeva a certe esigenze, che peraltro ho sentito riecheggiare, ma è stata respinta dal voto prevalente dei colleghi del centro-destra, non per nostra responsabilità.
Avremmo preferito questa ipotesi e tuttavia il relatore Salvi, che appartiene al gruppo parlamentare della sinistra democratica, ha lavorato giustamente ad essa ed anche ad un'altra ipotesi, che poi in Commissione bicamerale ha ricevuto la maggioranza dei consensi, condivisa in particolare dai colleghi del centro-destra. Un'ipotesi che noi non abbiamo ritenuto affatto irricevibile è quella del semipresidenzialismo temperato: così è nata l'ipotesi maggioritaria in Commissione bicamerale. In Europa, dove non c'è la monarchia prevalgono modelli presidenziali o semipresidenziali, ma in realtà solo il pregiudizio ideologico può far gridare allo scandalo e agitare lo spettro dell'autoritarismo, perché paesi a regime presidenziale o semipresidenziale sono grandi democrazie moderne.
Il Governo, nella proposta della Commissione bicamerale ora in discussione, è ancorato fortemente al Parlamento, da cui riceve la fiducia; sono le maggioranze parlamentari che sostengono il Governo, nel quale spicca comunque, più di oggi, la figura del premier.
Il Presidente, eletto direttamente dal popolo, non ha poteri attivi di governo, salvo particolari prerogative in tema di difesa e di politica estera, ma non li ha in nessun paese d'Europa. Egli svolge un ruolo di garanzia, di equilibrio e, aggiungo io, di sviluppo dinamico delle situazioni politiche. Il potere di scioglimento non è come l'abbiamo indicato e mi pare che esso sia né esagerato, né troppo limitato. Un potere che si esercita in momenti cruciali, quando, appena eletto, il Presidente può verificare l'orientamento politico dell'elettorato; quando, in caso di crisi della maggioranza, può sciogliere le Camere, riducendo drasticamente le opportunità trasformistiche che così a lungo hanno segnato la vicenda italiana; quando, infine, può rinviare il Governo davanti alle Camere per verificare se vi sia ancora una maggioranza. Questo voglio dire quando parlo di funzione di sviluppo dinamico delle situazioni politiche.
La funzione politica per la quale si può chiedere ai cittadini di essere votati sulla base di un'intenzione e di un programma, certo non si confonde con quelle più direttamente di Governo e di gestione. Troppo potere? Con meno potere si verificherebbe il rischio segnalato da Duverger, ricordato in questa sede dall'onorevole Calderisi nel suo intervento, quello di un décalage pericoloso tra investitura popolare e poteri assegnati. Troppo poco potere? Comunque più di quanto sia è previsto e diversamente non si capirebbe la necessità, come l'ha chiamata il professor Sartori, di un doppio motore, che è intima ed organica all'ipotesi che abbiamo discusso insieme e che affrontiamo in questa sede.
Per tale motivo non capisco la perentorietà di chi sostiene - mi è parso di sentirlo dire dall'onorevole Martino, il cui intervento ho ascoltato con grande attenzione - che dovrebbe verificarsi una situazione analoga a quella degli Stati Uniti, oppure nulla. Ci sarà pure qualche ragione se il vecchio continente ha preso altre vie. Perciò non può ritenersi offensivo il fatto che l'Italia si proponga di seguire tale tracciato.

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La soluzione individuata dalla Commissione bicamerale ci sembra generalmente equilibrata, capace di dare una risposta alle esigenze di stabilità e di dinamismo politico. Vi è qualche dubbio nelle file di questo gruppo, ma generalmente la soluzione è condivisa. Ho sentito invece molti in questa sede esprimersi contro, mentre in Commissione bicamerale avevano votato a favore: trovo ciò francamente curioso e sorprendente. Certo, quella soluzione avrebbe bisogno di un naturale completamento.
Non posso dire di condividere tutto dell'intervento dell'onorevole Occhetto, ma un punto effettivamente significativo è quello di una nuova legge elettorale maggioritaria che favorisca e spinga ancora il bipolarismo.
Si vuole di più, un sistema politico più nettamente competitivo, antagonistico: la soluzione è quella francese con il doppio turno e un sistema uninominale di collegio. Mi permetto di ricordare che il sottoscritto presentò un emendamento per costituzionalizzare il principio e che dai banchi della presidenza scese l'onorevole D'Alema per sostenerlo. Fu bocciato dal voto di una parte del centro-sinistra, ma di quasi tutto il centro-destra.
Due partiti - questo è astratto -, l'idea che l'Italia possa evolvere rapidamente verso due partiti; ma due schieramenti fondamentali che si contendono la palma del Governo, questo sì è ormai nelle corde del nostro paese, è un bisogno autentico. Guardiamoci dalla frammentazione, dalle tentazioni neoproporzionalistiche. Certo, saremmo in migliori condizioni se fosse passata la proposta di legge del collega Rebuffa, che toglieva sostanzialmente ai partiti non dico una funzione di proposta in questo campo, ma il monopolio della decisione. Le ipotesi per lo più circolate non ci trovano d'accordo, sono deludenti, conservatrici. Spero che, quando sarà il momento, se ne possa discutere senza che ciascuno voglia piantare la bandiera nell'orto che, con occhio miope, sembri più immediatamente conveniente.
Dal Governo allo Stato. Abbiamo misurato, toccato sempre più con mano (qui c'è la verità dell'apparire della lega sulla scena politica italiana; lo ricordava il collega Marini e sono d'accordo con lui) il peso di una macchina enorme e lenta, di uno Stato vecchio, irrigidito, accentratore, luogo dove la vitalità delle autonomie si spegne piuttosto che esaltarsi, dove male si specchiano i pubblici doveri e trovano insufficienti risposte i bisogni e i diritti dei cittadini, costoso ma inefficiente, impalcatura inadatta ad accogliere lo spirito autentico di una società aperta e dinamica.
La Costituzione del 1948 prevedeva le regioni, nuove articolazioni rispetto allo Stato prefascista e fascista. Vennero introdotte concretamente 22 anni dopo, nel 1970. Una grande occasione, un'occasione persa. Regioni a sovranità limitata, vigilate, titolari di poteri parziali, ma prive di autentica responsabilità in un paese in cui, tutto sommato, insieme all'identità regionale, forte, fortissima è l'identità municipale, comunale, nella quale si riconoscono i cittadini. In questi anni si sono presentate, irrisolte, esattamente le questioni relative al rapporto tra regioni, comuni, provincie e Stato.
Oggi, per quanto questo bisogno insopprimibile di autonomia venga usato dalla lega nord come un grimaldello per spezzare l'unità nazionale, non ci sono più ragioni per temere che il federalismo minacci la nazione. Anzi, è vero il contrario: è esattamente il momento della riforma federalista. Non è poco quello che è scritto nel testo della bicamerale, lo spostamento di poteri e risorse dal centro alla periferia è vero, importante. Noi ci sentiamo, in coscienza, di difendere sostanzialmente questo impianto, che non ci pare gattopardesco. Si tratta di un'autentica rivoluzione negli assetti dello Stato e della pubblica amministrazione. Ma devo esprimere un dissenso rispetto al testo.
Il cambiamento dal basso non può non riflettersi adeguatamente nei rami alti delle istituzioni. Nel testo, per quanto riguarda il Parlamento, superiamo il bicameralismo perfetto, riduciamo il numero dei parlamentari, ma, così come è scritto, il rapporto tra la Camera, titolare

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del potere di dare o revocare la fiducia al Governo, e il Senato è irrisolto. Complesso, confuso il sistema delle fonti normative; deludente l'impalcatura istituzionale in rapporto alla questione federale. La fisarmonica di un Senato che varia l'assetto a seconda degli argomenti non può suonare bene. Su questo punto in particolare la sinistra democratica intende impegnarsi; vi sono numerosi emendamenti, alcuni presentati dal presidente della bicamerale, con due varianti, fondamentalmente, che raccolgono le attese e le domande delle regioni e dei comuni. L'idea di un Senato misto, in parte elettivo e in parte rappresentativo in secondo grado di regioni e comuni, e quella di un Senato integralmente elettivo, con un forte carattere di rappresentanza territoriale: nell'un caso e nell'altro, comunque, abbiamo bisogno che uno dei due rami del Parlamento abbia pieni poteri in materia federale. Il testo, quindi, deve essere modificato, a nostro parere.
Infine, la giustizia. Dobbiamo certamente (anche su questo concordo con il collega Marini) metterci dal punto di vista del cittadino. Che cosa serve al cittadino? Un controllo efficace di legalità, rapidità nei processi, imparzialità ed efficienza nell'amministrazione giudiziaria, garanzia di parità tra accusa e difesa, affermazione della terzietà del giudice. Però sulla nostra discussione - è inutile negarlo, ne abbiamo sentita anche oggi l'eco - pesa il rapporto irrisolto tra politica e giustizia. E il fatto che mai - mai - nella storia dell'Italia moderna si è raggiunto un livello accettabile di equilibrio tra fondamentali poteri dello Stato, quel maturo, evoluto sistema di bilanciamenti, controlli, autonomie da cui dipende la salute di uno Stato di diritto. I principi sono restati scolpiti nel bronzo, ma la realtà è diventata figlia di adattamenti e rimbalzi, di compensazioni e slittamenti. Abbiamo tanti magistrati martiri - ed è bene magari render loro qui onore, piuttosto che criticarli - della difesa della legge e della democrazia (Applausi dei deputati dei gruppi della sinistra democratica-l'Ulivo, di rifondazione comunista-progressisti, dei popolari e democratici-l'Ulivo e di rinnovamento italiano). Certo, vi sono molti scrupolosi amministratori di giustizia, però la tendenza ad oscillare poi tra conformismo, subordinazione al potere e fiammate giacobine - sì, è vero - ha portato ad un pericoloso pendolo, sempre fuori dal punto esatto di equilibrio. Nostro compito, mi pare, è identificare la norma che favorisca la costituzione del campo vero dell'autonomia e dell'indipendenza del potere giudiziario. Insomma, né giudici governanti, né giudici governati dall'esterno, ma solo autogovernati con i loro organismi.
Il relatore Boato ha lavorato, attraverso discussioni ampie e spesso burrascose, ad un testo largamente condivisibile. Si vuole modificare? Qui voglio ripetere che noi non potremo in nessun modo condividere l'introduzione della separazione delle carriere. Inutile parlare in astratto; qui, ora, c'è chi auspica la possibilità - se si vuole l'inevitabile tentazione di fronte ad una soluzione così - che si istituisca un corpo di PM separati, una superpolizia che pure avrà bisogno di un comando. E il comando non potrebbe essere che corporativo o politico. Bene, questa possibilità è concreta ed è sbagliato arrischiarla. Chiediamo a tutti di riflettere perché il testo non sia sostanzialmente modificato. Anzi, se dovesse essere condivisa - spero vivamente di sì - questa posizione, appare tanto più ultronea ed improvvisata la soluzione delle due sezioni del CSM.
Condivido invece l'apertura fatta ieri dall'onorevole Folena rispetto all'ipotesi di un'elezione con criterio proporzionale del Consiglio superiore della magistratura. Vorrei appellarmi alla saggezza dei colleghi.
Ho finito. Il tentativo è difficile e coraggioso. Era un viottolo, Fini, poi un po' lo abbiamo allargato. Forza Italia - ho ascoltato l'onorevole Berlusconi - critica, ma di qua o di là dalla linea d'ombra rispetto alla quale la critica è volta a fermare oppure a lavorare insieme per trovare le soluzioni? Insomma, andiamo avanti? Io penso che dobbiamo andare

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avanti. Se ce la faremo, alla fine ci sarà un referendum, alla fine il dominus, il signore della decisione finale sarà il popolo. Ma il Parlamento deve avanzare una proposta utile e convincente, che offra al popolo italiano, ai suoi cittadini, ragioni nuove di fiducia e di speranza. In questo senso l'impegno della sinistra democratica è totale (Applausi dei deputati dei gruppi della sinistra democratica-l'Ulivo, dei popolari e democratici-l'Ulivo e di rinnovamento italiano).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle 17,50.

La seduta, sospesa alle 17,30, è ripresa alle 17,50.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI PETRINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Olivieri. Ne ha facoltà.

LUIGI OLIVIERI. Signor Presidente della Camera, signor presidente della Commissione, onorevoli colleghi deputati e senatori, giunti a questo punto di elaborazione della proposta di riforma costituzionale, mi sembra opportuno operare qualche puntualizzazione su alcuni tra i principali elementi della riforma, che credo siano meritevoli di una più approfondita considerazione prima che a pronunciarsi sia chiamato il popolo sovrano. Tengo in questa sede a precisare che concentrerò il mio intervento sull'elemento della ripartizione verticale del potere territoriale disegnata dal progetto.
Credo che sia di particolare importanza che i rappresentanti delle regioni autonome facciano sentire la propria voce in questo momento, per portare un sia pure piccolo ma importante contributo alla discussione su federalismo ed autonomia da parte di chi l'autonomia, ai limiti del federalismo, si trova a viverla quotidianamente nella propria realtà di provenienza.
Il primo punto che ritengo indispensabile affrontare è un tema politicamente centrale, per quanto non tecnicamente indispensabile, in relazione ad una riforma in senso federale dell'ordinamento: la necessità di una diversa gradazione dell'autonomia in base alle diverse esigenze delle varie comunità regionali.
Si consideri l'esempio di un ordinamento che, sotto questo profilo, ha compiuto interessanti passi istituzionali, come la Spagna. Come si sa, quel paese, nel breve volgere di neppur due decenni, è passato da un potere completamente accentrato, sotto la dittatura franchista, ad un sistema di autonomie articolato e passibile di evoluzione differenziata. Anche l'Italia presenta caratteristiche simili; in particolare, la presenza sul territorio di gruppi linguistici diversi e soprattutto una realtà socio-economica, nonché probabilmente un approccio al federalismo, assai diversi tra le varie zone del paese. L'unione nella futura Repubblica federale italiana può essere mantenuta ben più efficacemente, secondo chi parla, che con il generico richiamo al pur fondamentale principio dell'unità ed indivisibilità, di cui all'articolo 5 della Costituzione, con la predisposizione di un sistema elastico e modulabile sulle diverse esigenze, in maniera analoga a quanto si è scelto di fare in Spagna ai tempi della Costituzione del 1978.
In questo senso, la prima bozza del relatore D'Onofrio, pur nella provocatorietà della sua improponibilità tecnica, centrava sicuramente l'obiettivo di politica costituzionale da perseguire: far sì che siano le diverse regioni a decidere autonomamente tempi e modi dell'adesione al nuovo modello federale.
Se questa scelta, apparentemente coraggiosa ma in realtà banalissima, non sarà effettuata, il rischio che sembra profilarsi all'orizzonte è quello di un regionalismo minimo, appiattito cioè sulle attuali scarse capacità di autonomia delle regioni, quale quello delineato dal presente progetto, con il conseguente rischio di acuire l'insoddisfazione di quelle parti di territorio nazionale che considerano


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non più procrastinabile l'introduzione di un sistema che renda le periferie inserite nei nuovi centri.
Le modalità tecniche per perseguire questo obiettivo possono essere diverse, anche se appare chiaro che i limiti della differenziazione debbono essere stabiliti nella Costituzione della Repubblica e non possono in alcun modo essere demandati, come invece faceva la prima bozza D'Onofrio, alla determinazione degli statuti regionali.
Insomma, Presidente, è indispensabile che la Costituzione predisponga una cornice certa relativa alle materie differenziabili, nonché tempi e modi per la differenziazione. A tale proposito mi sembra opportuno far riferimento alla proposta di legge costituzionale da me presentata nel gennaio scorso, il cui presupposto di partenza era ed è la convinzione, peraltro facilmente percepibile nel clima politico generale, che il modello autonomistico finora seguito abbia definitivamente segnato il passo, non essendosi dimostrato in grado di far fronte alle esigenze sempre più complesse che una società moderna pone in capo ai titolari di pubblici poteri.
Se ciò sia avvenuto per ragioni strutturali, per incapacità politica o, come più probabile, per una combinazione di entrambi questi elementi, è tema che non è qui possibile approfondire. Il dato da cui partire è tuttavia un problema concreto ed appare innegabile che esso si sostanzi nella necessità di riformare profondamente il rapporto centro-periferia nell'ordinamento costituzionale italiano.
Ecco il perché della proposta di un'ipotesi massima, prevedendo una struttura federale avanzata, coraggiosa e decisamente innovativa rispetto alla situazione attuale, dotata di una serie di meccanismi che consentano l'autogoverno delle diverse comunità regionali e comunali, nel rispetto del quadro generale - il patto federale - che è la ragione stessa dello stare insieme.
La cornice istituzionale delineata dalla proposta da me presentata, che ritengo oggi più che mai attuale, prevede la garanzia di un procedimento cooperativo e giuridicamente conoscibile nel sempre possibile ed auspicato, veloce passaggio di competenze tra i vari livelli, in base alla pratica constatazione della maggior funzionalità nella gestione di una data competenza ad un livello piuttosto che ad un altro. In quella proposta si prevedeva non soltanto una clausola di prevalenza del diritto federale su quello regionale, tipica degli ordinamenti federali, ma si introduceva anche la regola generale della suppletività del diritto statale rispetto al diritto regionale.
Da queste disposizioni del progetto si evince l'esercizio delle competenze legislative, che risulta elastico in due direzioni: da una parte, il centro può autorizzare la regione, in base ad una richiesta del consiglio regionale, ad adottare provvedimenti legislativi in materia di competenza statale esclusiva; dall'altra, è possibile che la regione decida consapevolmente di non esercitare una propria competenza e di far scattare la supplenza del diritto statale in una data materia.
Questo meccanismo è pensato, in particolare, per canalizzare, specie nel primo periodo dell'esperienza federale, le differenze esistenti tra le diverse regioni, alcune delle quali possono avere interesse a richiedere quante più competenze possibili e la capacità organizzativa e finanziaria per farvi fronte, altre possono non avere interesse o non disporre della capacità necessaria.
La correttezza del sistema viene assicurata da una disposizione in materia finanziaria secondo cui la perequazione verticale si fonda sul criterio del bisogno, ma anche delle competenze effettivamente svolte.
Un sistema differenziato deve riguardare anche e soprattutto il meccanismo fiscale; in questo senso il progetto da me presentato prevedeva fondamentalmente la tripartizione dei tributi in statali, regionali e comunali, nonché una serie di imposte a gettito ripartito, aggiungendosi inoltre una norma del tutto simile a quella presente nella legge fondamentale tedesca (articolo 104 di quella Costituzione), norma che è stata la base costituzionale

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degli incentivi economici per la ex Germania est e che potrebbe risultare particolarmente adatta anche per il nostro Mezzogiorno.
Come ho detto, tuttavia, le modalità per l'introduzione di un modello asimmetrico che consenta il libero dispiegamento delle diverse attitudini, capacità e volontà autonomistiche delle varie regioni possono anche essere diverse da quelle ora brevemente tratteggiate. L'importante è non perdere la storica occasione di modernizzare l'ordinamento costituzionale italiano, tenendo conto delle differenze e garantendo nel contempo l'unità del paese.
Sulla base delle considerazioni appena svolte, ritengo essenziale soffermarmi, nella mia veste anche di deputato del Trentino, sulle asimmetrie già fortemente presenti nell'ordinamento attuale e dunque, in primo luogo, sul futuro della regione da cui provengo, che ha costituito, costituisce e non può che continuare a costituire una realtà specialissima nel panorama istituzionale italiano.
Come è noto, cinquant'anni fa veniva approvato, con legge costituzionale, il primo statuto di autonomia per la regione Trentino-Alto Adige e la travagliata storia di quell'esperienza ha portato, dopo venticinque anni, al superamento sostanziale della formula regionale disegnata nel 1948. Ne è derivato nel 1972 il cosiddetto secondo statuto che ha configurato la regione come la conosciamo oggi, ossia un ente dotato di pochissime competenze legislative ed amministrative, radicalmente svuotato di peso politico ed istituzionale, posto completamente in capo alle due province di Trento e di Bolzano.
Dall'approvazione del secondo statuto è trascorso un altro quarto di secolo, dunque, casualmente ma simbolicamente lo stesso periodo di vigenza del primo statuto. Anche da questa coincidenza temporale si può vedere come pure l'attuale sistema sia ormai giunto al capolinea dopo la chiusura del cosiddetto pacchetto, che ha rappresentato il completamento delle condizioni di base dell'autonomia della provincia di Bolzano a tutela delle minoranze in essa residenti e la definitiva trasformazione del problema della minoranza di lingua tedesca in una questione meramente interna allo Stato italiano.
Era perciò inevitabile che questa nuova condizione portasse ad ulteriori rivendicazioni autonomistiche da parte di Bolzano, alle quali Trento si è accordata, anche se talvolta in maniera non del tutto efficace.
Come è noto, la posizione largamente dominante in provincia di Bolzano spinge per il superamento definitivo del sistema regionale e per la trasformazione delle due province autonome in regioni altrettanto autonome. Credo che questa rivendicazione sia innanzi tutto da capire, anche se non totalmente da condividere. Negli ultimi mesi in tutta la regione è andata affermandosi, un po' a tutti i livelli, la convinzione della necessità di superare l'attuale quadro istituzionale regionale, pur nella necessità di mantenere quella forma di collegamento tra le due province.
Il punto è sapere quali debbano essere queste forme connettive tra le due realtà provinciali e quale scopo dovranno avere. Per quanto riguarda la prima questione, ossia quali debbano essere questi collegamenti, le opinioni personali possono divergere anche profondamente tra loro. Personalmente ritengo indispensabile la previsione di un livello di cooperazione necessaria tra le due province, un livello non dotato di competenze legislative né amministrative, i cui organi siano costituiti dall'unione funzionale di stampo confederale degli organi provinciali riuniti per deliberare politiche comuni in una determinata serie di materie.
Ciò su cui, tuttavia, la riflessione dovrebbe concentrarsi più che sulle diverse preferenze per l'una o l'altra soluzione tecnica è lo scopo di questa futura regione sui generis, non più ente politico, ma semplice sede della collaborazione interprovinciale.
Si ha l'impressione che le posizioni siano tuttora troppo fortemente ideologiche sia da parte di chi vuole abolire ogni forma di collegamento sia da parte di chi vuole mantenere lo status quo, illudendosi

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così di salvare gli italiani dell'Alto Adige dalla tedeschizzazione dello stesso, evitando nel contempo al Trentino di essere fagocitato dal colosso del nord-est.
Non si tratta di far prevalere, dopo un'aspra battaglia, l'una o l'altra posizione; il punto è scoprire se ci sono interessi comuni tra le due province e se ci sono materie che è conveniente gestire in modo concordato.

PRESIDENTE. Onorevole Olivieri, deve concludere.

LUIGI OLIVIERI. Signor Presidente, le chiedo cortesemente di autorizzare la pubblicazione di considerazioni integrative del mio intervento in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, onorevole Olivieri.
È iscritto a parlare l'onorevole Tremonti. Ne ha facoltà.

GIULIO TREMONTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, fermerò il mio intervento su tre punti: sulla figura del Presidente della Repubblica, sulla struttura del testo costituzionale, sul federalismo. Cercherò di dimostrare che la nuova figura del Presidente della Repubblica, creatura artificiale dotata di forza sovrannaturale, farà irruzione sulla scena costituzionale come il mostro Frankenstein. Cercherò di dimostrare che avremo in contemporanea tre testi costituzionali e che il federalismo introdotto nel semilavorato della bicamerale ha la singolare caratteristica di essere un federalismo giacobino, cioè la negazione del federalismo.
La figura del Presidente della Repubblica sembra derivare dal compromesso tra la forza che nasce dall'elezione popolare, forza legittimante, e l'attribuzione di una limitata competenza funzionale. L'impressione è che la competenza funzionale sia tutto fuorché limitata e che rappresenti in realtà il monopolio della politica futura. Integrata l'Italia nell'Unione europea, la politica estera, che sarebbe l'oggetto decorativo e marginale della competenza del nuovo Presidente, sarà tout court con la politica, perché spostandosi l'asse del potere da Roma a Bruxelles ci sarà un'intensa continua ibridazione tra politica estera e politica interna; quello che si farà in Italia sarà rilevante in Europa e quello che si farà in Europa sarà rilevante in Italia. Il nuovo Presidente, titolare della competenza in materia di politica estera, ha competenza in materia di controllo sul rispetto del Trattato d'Unione, controllo sull'ottemperanza ai vincoli. Detto in italiano significa: la struttura delle prossime leggi finanziarie.
Non so se la scelta di attribuzione di poteri così intensi sia davvero razionale, se questo fosse l'effettivo volere di chi ha costruito la nuova figura. Temo che ci sia stata una eterogenesi dei fini; penso che una visione culturale limitata, sostanzialmente novecentesca e agraria, abbia fatto pensare alla politica estera come ad una combinazione tra cerimoniale e tecnostruttura. La politica estera non è solo questione di feluche; la politica estera sarà essenzialmente questione di interessi economici fondamentali. Il nuovo Presidente sarà il dittatore democratico.
Se questa fosse davvero la scelta, sarebbe in qualche modo razionale, ma penso che chi ha attribuito la competenza in politica estera al nuovo Presidente non volesse attribuirgli poteri così intensi. In realtà, chi ha il dominio della politica estera ha tout court il dominio della politica, perché ci sarà una sistematica e continua ibridazione e confusione tra politica estera e politica interna.
Dicevo che ci sono tre testi di Costituzione in contemporanea. In base ad una curiosa e superstiziosa idea di anatomia giuridica, il testo della Costituzione è stato spaccato in due parti. La prima, contenente i diritti fondamentali, avrebbe dovuto restare invariata, la seconda avrebbe potuto essere modificata.
La storia ha già abrogato, in cinquant'anni, parti essenziali della prima parte della Costituzione; molte parti sono state superate da un nuovo corpus di diritti, di principi, di funzioni che si sono


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costituiti in una specie di Costituzione esterna. Le corti dei diritti sovranazionali hanno una intensità di poteri decisamente superiore rispetto a quella della prima parte della Costituzione, che dovrebbe restare invariata.
Dunque, una parte che doveva restare invariata è abrogata dalla storia: che senso ha dire che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa; sembra che tra le nazioni la guerra sia fuori ormai dalla meccanica dei rapporti internazionali. Inoltre i grandi, intensi principi di diritto sono già contenuti in un corpus di Costituzione esterna, sovranazionale.
La seconda parte della Costituzione, che non dovrebbe toccare la prima, in realtà costituzionalizza la Costituzione esterna, in qualche modo la importa indebitamente perché il mandato non era quello di modificare la prima parte della Costituzione. In sostanza siamo di fronte a tre Costituzioni contemporaneamente: la prima parte della Costituzione con le limitazioni impresse dalla storia e dal superamento prodotto dalla Costituzione esterna; la seconda parte della Costituzione ed infine la Costituzione esterna che, ripeto, è stata importata dalla seconda parte invadendo la prima.
Passo al federalismo. Durante i lavori della Commissione ho sostenuto che si era di fronte ad un'occasione, quella di scrivere la prima grande Costituzione dopo il Trattato di Maastricht, la quale non veniva adattata marginalmente, ma riscritta dopo la crisi dello Stato-nazione, in un nuovo contesto di integrazione sovranazionale. L'occasione però è stata persa.
Il fenomeno della crisi dello Stato-nazione è noto: mi permetto di ricordare che nel 1989, anno del bicentenario della rivoluzione francese, in un fondo sul Corriere della Sera scrissi che la rivoluzione del 1789 aveva natura parlamentare nel senso di costituzione dello Stato-nazione, mentre la rivoluzione prodotta nel 1989 dall'avvento dell'economia-mondo e dall'integrazione europea in un grande unico mercato era di natura extraparlamentare, nel senso che sarebbero state erose le basi dello Stato-nazione. Esso è troppo piccolo rispetto a fenomeni che si sviluppano su scala mondiale e troppo grande rispetto alle esigenze di Governo locale; troppo piccolo per gli affari grossi, troppo grosso per gli affari piccoli. Ripeto, si è persa un'occasione.
Vi era però un'alternativa tra due ipotesi entrambe corrette a mio parere. La prima, coerente in sé ma non accettabile politicamente, era: Costituzione sostanzialmente invariata, legge Bassanini attuata, il che significava che tutte le competenze legislative - quelle politiche - erano attribuite al centro, mentre quelle amministrative alla periferia. La seconda era un'alternativa effettivamente federalista. A fronte di queste due ipotesi si è scelto un ibrido; di qui la mia dichiarazione che è stato elaborato un testo che combina la formula del federalismo con quella del giacobinismo, abbiamo cioè il federalismo giacobino. L'aggettivo federale è stato imposto su un testo che nulla ha di federale.
Scorrendo l'elenco delle competenze legislative che lo Stato si riserva - che sono le competenze politiche - si scopre che esso comprende tutto l'alfabeto, dalla A alla V e che solo per ragioni estetiche è stata esclusa la lettera Z. Analizzando il contenuto delle competenze ci si accorge che alla lettera M è stato inserito un curiosum, ossia la riserva alla competenza politica dello Stato della legislazione in materia di sistema metrico, tipico attributo, secondo la meccanica degli arcana imperii, delle competenze sovrane. Evidentemente l'idea di riservarsi la competenza metrica era un esorcismo verso l'ipotesi che forze irredentiste introducessero la pertica o la iarda. Personalmente ritengo che la riserva dei poteri allo Stato dovesse essere costruita su presupposti meno pittoreschi!
La scelta di concentrare un enorme catalogo di competenze legislative, e quindi politiche, in capo allo Stato esclude in radice il federalismo, il quale in Italia non avrebbe potuto o dovuto seguire il percorso classico, dal diviso all'unito, dalla pluralità all'unità, e pluribus unum. Questo non poteva essere il percorso politico

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realizzabile perché il problema da noi definito federalismo, secondo una metafora della modernità politica, non è dal diviso all'unito, ma l'opposto, ossia reazione ad un eccesso di centralismo. Il modello di federalismo che avremmo dovuto e dovremmo applicare è quello della devoluzione, ossia la formula della devolution applicata nel Regno Unito, che riserva solo cinque competenze devolvendo quelle non essenziali alle aree che possono e devono essere autogovernate affinché il regno resti unito.
Ricordo di aver presentato in Commissione bicamerale, nel corso dei lavori, l'ipotesi di conservare allo Stato solo cinque competenze che poi sono quelle che nella Costituzione inglese si prevede siano riservate allo Stato. Questa scelta fu considerata come un paradosso costituzionale; sembra invece che in Europa rappresenti un modello costituzionale moderno. Credo che il tasso di federalismo di una soluzione si misuri in funzione del numero delle competenze legislative riservate allo Stato. Fino a che tale elenco comprenderà tutto l'alfabeto è difficile parlare di federalismo. Aggiungo che il federalismo non si esaurisce nel fisco; tuttavia, se non vi è fiscalità federale, è difficile realizzare il federalismo perché l'essenza del federalismo è il budget alla Tocqueville, è il controllo dei cittadini, espresso con il voto democratico sul territorio, tra entrate ed uscite.
Già la scelta «anatomica» di dividere il testo costituzionale in due parti rende impossibile il federalismo fiscale nel senso vero. Infatti, nell'articolo 23, contenuto nella prima parte della Costituzione, è prevista la riserva di legge dello Stato in materia fiscale. È difficile modificare, invariato l'articolo 23, la struttura della seconda parte della Costituzione per creare un vero federalismo fiscale. Tuttavia nel testo approvato ed oggi in discussione il principio è quello della concentrazione del potere fiscale nello Stato. Non c'è il movimento essenziale del federalismo: le risorse economiche prodotte sul territorio sono originariamente dello stesso ed è quest'ultimo a devolvere allo Stato la quota necessaria al suo funzionamento. È invece un modello al rovescio: un modello autoritario, sovrano, grazioso, per cui viene ottriata, concessa graziosamente dallo Stato ai governi locali la titolarità delle risorse finanziarie.
Credo che il testo che stiamo discutendo, rappresenti una regressione dal punto di vista logico e semantico rispetto a quello elaborato dalla precedente Commissione bicamerale De Mita-Iotti. Tutto era quello, tutto è questo, tranne che federalismo.
In conclusione, ritengo che l'essenza dei testi costituzionali sia strutturalmente un compromesso, un compromesso costituzionale. Il testo di cui stiamo discutendo, rispetto al quale mi riservo di esprimere dubbi per quanto riguarda una possibile evoluzione positiva, dati i vizi che ho cercato di rappresentare, non è un compromesso costituzionale bensì la tentata, ed a mio parere non riuscita, costituzionalizzazione del compromesso, il che è l'esatto opposto di ciò che deve essere una Costituzione (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e della lega nord per l'indipendenza della Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Storace. Ne ha facoltà.

FRANCESCO STORACE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ritengo che nel dibattito in corso il problema da porsi sia essenzialmente uno: se l'Italia di domani sarà o meno più libera. Il processo riformatore, al di là del discorso accademico su chi vincerà e chi perderà al tavolo del cambiamento, sta proprio qui. E l'impianto delineato dalla Commissione bicamerale per le riforme sembra rispondere, per ora sufficientemente, al quesito iniziale, sia pure con le timidezze imposte da conservatorismi che vediamo prosperare ancora in settori dell'Ulivo.
L'Italia di domani, se confermeremo e soprattutto miglioreremo il testo al nostro esame, si vedrà riconosciuta una grande libertà che la destra ha sognato per decenni, rappresentata innanzitutto dall'elezione popolare diretta del Capo dello


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Stato e da quanto ha poco fa ricordato il presidente Fini, riconoscendo il valore della democrazia diretta: il cittadino sceglie, si riappropria dello scettro, decide il cambiamento, ed i partiti tornano al grande ruolo di animatori della proposta. Sembrava impossibile, potrebbe diventare una conquista.
Certo, non è tutto; va sviluppata ancora una discussione seria, serena e non estremistica su un tema fondamentale qual è quello della giustizia e più in generale delle garanzie per i cittadini.
Mi auguro che nel dibattito e nelle votazioni si riesca innanzitutto a garantire maggiori libertà per chi giudica, per chi accusa e per chi difende: libertà da contemperare.
Colleghi, sembra incredibile che negli Stati Uniti si corra il rischio di far precipitare nel caos la prima potenza mondiale per quello che potremmo definire «sessopoli», mentre noi viviamo nel paese in cui «affittopoli» sembra una cosa da pretura. A chi teme subordinazioni al potere politico dobbiamo chiedere quando mai si riuscirà - tanto per restare nel tema - ad arrivare a quel giorno in cui il magistrato non si preoccuperà, ad esempio, di ritorsioni per aver chiesto al potente uomo politico di turno come abbia fatto a garantirsi quel bell'appartamento.
Altra questione fondamentale - purtroppo il tempo a disposizione ci costringe a procedere per flash - è rappresentata da un'ulteriore libertà decisiva da garantire ai cittadini, quella di sapere, conoscere, verificare, controllare come vengono spesi i quattrini che versano al colosso pubblico nelle sue articolazioni. Qui sta la cornice federalista sulla quale mi pare non siano stati sciolti ancora nodi fondamentali. Mi riferisco innanzitutto - ovviamente per sintesi -, come parlamentare di Roma, alla grande questione rappresentata dalla nostra capitale.
Presidente D'Alema, sarebbe ben strano che il processo riformatore avviato dalla Commissione presieduta dal secondo consigliere comunale della città si limitasse a ribadire che Roma è la capitale. Lo sapevamo già; non c'era bisogno di scomodare 70 costituenti. Io vi chiedo di fare uno sforzo in più. Pensate, colleghi di centro-sinistra: si può fare anche una battaglia politica per riconoscere più poteri ad una città che in fondo amministrate voi. Roma, la capitale d'Italia, però, è più importante dei partiti, dei clan che la infestano, in un Campidoglio che sottrae sempre più - questo sì per scelta politica di potere - diritti di controllo al consiglio comunale.
Ritengo dunque sia giunta l'ora, lega o no, di riconoscere a Roma il ruolo che le compete nella storia, l'ora del distretto federale, l'ora che la capitale sia veramente tale con poteri propri e straordinari. Non servono lacrime di coccodrillo di un sindaco che bussa invano a quattrini, su trasferimenti statali del vostro Governo che penalizzano la città. È l'ora di un grande scatto di orgoglio.
Da ultimo, ma non per importanza, nel pochissimo tempo che ho a disposizione in questo dibattito, la grande questione della libertà collegata all'informazione. Penso che le garanzie in questo campo siano ancora tutte da conquistare. Va stabilito un principio che risiede nell'essenzialità del diritto del cittadino a ricevere un'informazione corretta, in particolare dal servizio pubblico.
Nella discussione sugli emendamenti ne esamineremo anche uno che ho proposto. Non pretendo il suo accoglimento integrale, per carità; può essere riformulato, ridiscusso, ma parliamone.
Le polemiche di questi giorni sulla RAI sono significative. Se i partiti si stufano cambiano i consigli di amministrazione e - lo dico all'onorevole D'Alema - la Commissione di vigilanza non c'entra nulla con queste questioni, con il crollo di credibilità della RAI. La crisi del servizio pubblico è frutto del rigetto popolare verso un'azienda a cui è stata imposta la museruola politica.
Non basta più la legislazione ordinaria, se vogliamo fare un ragionamento serio e sereno in questo campo. Se si crede davvero, come noi, nel ruolo fondamentale del servizio pubblico - e lo propongo

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come provocazione alla discussione - si abbia il coraggio di costituzionalizzarne l'esistenza, così come la nuova Costituzione (visto che si parla di diritti dell'opposizione) dovrà solennizzare il potere di controllo, che in democrazia, per quanto attiene ai diritti dei cittadini, deve vedersi riconosciuta una prevalenza rispetto al potere di gestione.
Si va verso un Presidente della Repubblica, nella forma attuale, visto innanzitutto come garante? Gli si affidi allora, se si vuole discutere, con procedure trasparenti e pubbliche, la decisione sul governo della concessionaria, si ribadisca il diritto-potere di controllo del Parlamento a nome dei milioni di cittadini che pagano il canone; si sottragga soprattutto l'azienda al vento della legislazione ordinaria e delle maggioranze d'occasione.
Onorevoli colleghi, concludo affermando di essere concorde comunque con chi dice che qui c'è la grande occasione. Dico che la politica potrà essere all'altezza della sfida che ha dinnanzi se saprà mettere da parte interessi particolari. L'appuntamento decisivo - è stato già detto - sarà con il popolo italiano. Tentiamo di esserne consapevoli di fronte al giudice più importante che c'è e che è il cittadino (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cerulli Irelli. Ne ha facoltà.

VINCENZO CERULLI IRELLI. Signor Presidente, presidente D'Alema, cari colleghi, limito questo intervento ad alcune osservazioni sulle norme in tema di amministrazione, che raggrupperei intorno a tre principali questioni.
La prima è quella dell'allocazione delle funzioni e dei compiti amministrativi nei quali si concretizza l'amministrazione in senso sostanziale tra i diversi livelli di governo.
La proposta della Commissione (articolo 56) intende portare alle sue estreme conseguenze il principio della sussidiarietà, peraltro già interamente accolto nell'ordinamento vigente, soprattutto in virtù della legge n. 59 dello scorso anno. Il principio impone, come è noto, di allocare le funzioni e i compiti amministrativi nella titolarità degli enti più prossimi agli interessi degli amministrati, salvo l'intervento degli enti di livello superiore, laddove i primi non abbiano la capacità di governo richiesta secondo le valutazioni del legislatore.
Che tale principio sia affermato in Costituzione ritengo estremamente opportuno. Esso peraltro, con l'inserimento nel testo del trattato europeo, ha già acquistato un rango elevatissimo nel sistema delle fonti. Tuttavia il principio deve essere inserito nel testo costituzionale per quello che è, senza ulteriori estrinsecazioni che, oltre tutto, possono dar luogo a fraintendimenti.
È opportuno, quindi, evitare di parlare della generalità delle funzioni amministrative da attribuire ai comuni, che potrebbe far pensare, come da qualche commentatore è stato già avanzato, che i comuni possano essere legittimati alla titolarità di qualsiasi specie di funzione o di compito amministrativo, ciò che sicuramente non è perché vi sono funzioni proprie dello Stato, funzioni proprie delle regioni e così via. Occorre quindi usare una formula che, limitandosi ad esplicitare il principio di sussidiarietà, ne chiarisca precisamente la portata ed i limiti.
La seconda questione concerne i principi dell'amministrazione sostanziale (particolarmente, l'articolo 106). Quanto alle fonti, sia sul versante dell'organizzazione che su quello dell'attività, il testo recepisce gli orientamenti dell'ordinamento più recente, a partire dalla legge n. 400 del 1988 fino alla n. 59 del 1997, intesi a dare forte consistenza al potere regolamentare del Governo e delle singole amministrazioni, restando alla legge esclusivamente la fissazione dei principi.
Questo processo di delegificazione è senz'altro da condividere, sia per ragioni che attengono all'organizzazione corretta del lavoro parlamentare (che proprio per svolgere un ruolo incisivo deve limitarsi a legiferare sulle grandi questioni del paese), sia per ragioni che attengono all'esigenza


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di flessibilità che in materia di amministrazione la fonte normativa deve possedere e al rilevante contenuto tecnico che essa presenta, tale da renderne più opportuna l'elaborazione a livello regolamentare, una volta che con legge vengano fissati i relativi principi. Sul punto si deve, peraltro, ricordare che i regolamenti del Governo sono sottoposti al parere del Consiglio di Stato, che assicura la massima garanzia sul piano tecnico.
In secondo luogo la normativa proposta stabilisce i principi dell'azione e dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, principi che sono quelli noti, ormai acquisiti, di imparzialità, ragionevolezza e trasparenza, cui si aggiungono quelli di efficienza, efficacia ed economicità, che nel testo vengono imputati all'organizzazione, ma che in effetti concernono tutta l'amministrazione e, segnatamente vorrei dire, il versante dell'attività.
Viene altresì esplicitato il principio, anch'esso acquisito, della distinzione tra organi di direzione politica ed organi amministrativi, principio che indubbiamente rafforza l'autonomia e l'imparzialità dell'amministrazione, ma tuttavia necessita di una legislazione ordinaria adeguata a renderlo effettivo, sia attraverso una maggiore valorizzazione economica e giuridica dei funzionari professionali chiamati a più alte responsabilità, sia conferendo agli organi di direzione politica strumenti tali da consentire loro una effettiva verifica dei risultati, una effettiva capacità di controllo sull'operato degli uffici professionali con strumenti corrispondenti a quelli propri dell'imprenditore privato.
Sul procedimento il testo propone l'inserimento dei principi ormai entrati nell'ordinamento, soprattutto a seguito della legge n. 241 del 1990. Appare tuttavia che un'articolazione così analitica e una così ampia generalizzazione non siano opportune in un testo costituzionale, nel quale sembra sufficiente inserire il principio del giusto procedimento, che tutti quelli in sé riassume e la cui mancanza nel testo costituzionale vigente ha fatto più volte sentire le sue conseguenze negative.
In terzo luogo, e vorrei dire soprattutto in termini di innovazione, il testo prevede che le pubbliche amministrazioni agiscono in base alle norme di diritto privato con forte sottolineatura del concetto, peraltro già diffuso nella migliore dottrina e nella più avanzata giurisprudenza, che esiste un diritto comune a tutti gli operatori giuridici. Questo diritto comune è quello che trova nel codice civile i suoi principi generali.
Occorre stabilire precisamente il senso di tale affermazione. Esso innanzitutto sta in ciò: le pubbliche amministrazioni, tutte, senza eccezioni, sono dotate della capacità giuridica generale, il che consente loro l'utilizzo della strumentazione di diritto privato per ogni azione giuridica da compiere, salve diverse previsioni di legge.
Si tratta di un principio che già può dirsi affermato nel vigente ordinamento, ma affiorano qua e là dubbi in giurisprudenza, soprattutto in ordine alla portata generale dello stesso; appare perciò necessaria una sua solenne affermazione.
Il senso di tale affermazione sta anche nel fatto che le amministrazioni, salvo i casi individuati dalla legge di esercizio dei poteri pubblici, applicano nel loro operare non il diritto pubblico, come per molti decenni si è ritenuto da noi e dagli altri paesi dell'area continentale, ma il diritto privato. Insomma, ribaltando l'antica affermazione del nostro Cammeo (il diritto pubblico è il diritto comune ordinario per i rapporti tra individuo e Stato), il diritto pubblico cessa di essere il diritto comune dell'agire amministrativo.
Resta disciplinata dal diritto pubblico l'area dell'esercizio dei poteri pubblici, la cui determinazione è lasciata al legislatore ordinario con riferimento non solo ai casi in cui il modulo dell'esercizio del potere è tecnicamente necessario per la produzione di un certo tipo di effetti, cioè l'area dell'imperatività in senso tecnico, ma anche i casi in cui esigenze di imparzialità e di trasparenza possono indurre all'utilizzo del modulo, pur se questo non risulti strettamente necessario sul piano tecnico.

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Si pensi, per esempio, alle procedure di evidenza pubblica nella ricerca del contraente nei contratti pubblici.
Quanto alla responsabilità per danni delle pubbliche amministrazioni, già affermata peraltro dall'articolo 28 e male, malissimo applicato dalla giurisprudenza, deve essere dichiarata in modo tale da rendere inequivoca la sua estensione ad ogni specie di attività amministrativa, sia mediante atti, sia mediante operazioni, sia se regolata dal diritto pubblico, sia dal diritto privato.
Anche l'amministrazione pubblica, come qualsiasi cittadino, deve essere chiamata a rispondere dei danni che produce a terzi per colpa o dolo dei suoi funzionari o anche soltanto per gli effetti prodotti da atti illegittimi, a prescindere dalla situazione soggettiva che il terzo danneggiato possa vantare, purché sussista ovviamente un chiaro nesso di causalità tra l'azione o l'omissione da parte dell'amministrazione e il danno prodotto a terzi.
L'ultima questione concerne la giurisdizione. Il testo proposto prevede la permanenza nell'ambito dell'unità funzionale della giurisdizione di un giudice amministrativo competente per la cognizione delle controversie con le pubbliche amministrazioni quali determinate dalle legge.
La scelta della Commissione su questo punto è da condividere sotto molti aspetti. Sicuramente è da condividere la previsione di un giudice amministrativo separato dal giudice ordinario e specializzato quanto a competenze anche di ordine tecnico, secondo il modello continentale, che non sembrerebbe opportuno abbandonare nel momento in cui nello stesso ordinamento inglese si sta facendo strada la formazione di organi giurisdizionali specializzati per le questioni concernenti le controversie con l'amministrazione.
Ma quali sono le controversie da attribuire alla cognizione di questo giudice? L'attuale sistema nel quale il giudice amministrativo è competente in ordine alle controversie concernenti interessi legittimi e il giudice comune in ordine alle controversie concernenti diritti è sicuramente da abbandonare. Nella nostra precedente esperienza esso è stato fattore di rilevanti guasti nel funzionamento complessivo dell'ordinamento e causa di disordine sociale, data l'incertezza che obiettivamente provoca nella determinazione del giudice cui i cittadini possono rivolgersi per la soluzione delle loro controversie con l'amministrazione. Deve essere viceversa la legge a determinare quali siano le materie, gli ambiti oggettivi delle controversie che, data la loro attinenza all'amministrazione in senso sostanziale, debbono essere affidati al giudice speciale dell'amministrazione.
Queste controversie (voglio fortemente sottolineare questo punto) non attengono soltanto all'esercizio dell'azione amministrativa disciplinata dal diritto pubblico, quella cioè che si concretizza nell'esercizio di poteri pubblici, ma attengono anche, secondo la scelta del legislatore positivo, all'esercizio di azioni amministrative disciplinate dal diritto privato, secondo il principio sopra ricordato della Commissione che si condivide pienamente. Deve essere quindi omesso ogni riferimento in materia di giurisdizione all'esercizio di poteri pubblici, come viceversa curiosamente compare nel testo, proprio perché questo significherebbe che l'esercizio dell'amministrazione secondo le regole del diritto privato, perciò una parte molto consistente dell'azione amministrativa, verrebbe sottratto al giudice amministrativo, il quale viceversa deve essere chiamato a conoscere dell'azione amministrativa a prescindere dal tipo di diritto applicato.
È altresì da condividere (questo punto va ancora sottolineato) la scelta della Commissione (articolo 131) che, modificando incisivamente il vigente articolo 111 della Costituzione, ha eliminato ogni riferimento al ricorso per Cassazione per questioni di giurisdizione contro le sentenze dei giudici amministrativi, in ciò consentendo al legislatore ordinario di disciplinare ex novo la materia in modo assai più flessibile di quello attuale, fondato sulla rigidità del riparto, consentendo perciò, ad esempio, secondo il modello

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tedesco, che ad ogni giudice sia dato il potere di ritenere la giurisdizione e prevedendo soltanto organi di risoluzione dei cosiddetti conflitti negativi, dei casi cioè in cui nessun giudice si ritiene competente.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 18,37)

VINCENZO CERULLI IRELLI. Nell'ambito dell'unità funzionale della giurisdizione, pur permanendo la specialità del giudice amministrativo, è opportuno organizzare il rapporto tra le giurisdizioni in maniera fluida ed elastica, eliminando perciò ogni vincolo che su questo terreno potrebbe essere posto dalla Costituzione (come effettivamente è nel testo vigente) al legislatore ordinario. La questione di giurisdizione, in quanto tale, dal caso Laurens del 1891 sino ad oggi, è una delle principali disgrazie che il nostro ordinamento giuridico, almeno sul piano tecnico, ha dovuto sopportare.
Quanto all'organizzazione del giudice amministrativo, il modello proposto dalla Commissione, di impronta tedesca anziché francese come quello attuale, prevede un giudice amministrativo organizzato in più gradi e del tutto distinto, anche nell'esercizio della giurisdizione superiore, dal Consiglio di Stato, che resta l'organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo. Questa scelta in se stessa è sicuramente sostenibile e trova riscontro in importanti ordinamenti europei, ma non pare tuttavia da condividere nell'ordinamento italiano, nel quale la specificità del Consiglio di Stato, organo giurisdizionale e insieme di alta consulenza del Governo, ha dato buoni frutti assicurando una proficua commistione di esperienze con reciproco arricchimento dell'una e dell'altra. La funzione di consulenza, esercitata da magistrati a pieno titolo, cioè titolari di funzioni giurisdizionali, si svolge con autorità assai maggiore e presenta più alte garanzie di imparzialità, mentre la funzione giurisdizionale, esercitata da organi composti da magistrati ricchi di esperienza amministrativa pratica, si arricchisce di elementi di valutazione, di ponderazione dell'assetto effettivo degli interessi che sfuggirebbero a magistrati ricchi soltanto di esperienza giurisdizionale.
Ovviamente, restando le funzioni di giurisdizione amministrativa superiore imputate al Consiglio di Stato, questo andrebbe incisivamente riorganizzato con una netta distinzione tra organi che esercitano le une e organi che esercitano le altre funzioni, così da garantirne la reciproca autonomia.
Altra questione è quella concernente la giurisdizione che ha ad oggetto il giudizio circa la responsabilità dei pubblici funzionari per danni prodotti all'erario, o comunque alle pubbliche amministrazioni, a causa di loro azioni od omissioni colpose o dolose, giurisdizione che oggi è attribuita alla Corte dei conti. Si tratta, come è noto, di una particolarità dell'ordinamento italiano mentre in altri paesi europei questo tipo di giurisdizione è inglobato nella giurisdizione comune in materia di responsabilità per danni. Si pone il problema, su questo punto, se mantenere la specificità dell'ordinamento italiano, e perciò conservare la giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa come separata dalla giurisdizione comune. Ciò può avere, invero, giustificazioni concernenti il buon andamento complessivo della pubblica amministrazione, ché la presenza di questa speciale giurisdizione e dell'azione pubblica prevista al fine dell'instaurazione dei giudizi costituisce, pur con i suoi difetti e nonostante gli eccessi che a volte emergono nell'esperienza concreta, un costante freno alla cattiva amministrazione, al comportamento scorretto, illecito o eccessivamente dispendioso dei funzionari e degli agenti pubblici.
L'alternativa, allo stato tuttavia a mio giudizio non condivisibile, sarebbe la soppressione di questa speciale giurisdizione e la sua riconduzione nell'ambito della giurisdizione comune. Non è poi condivisibile in alcun modo la soluzione prospettata


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dalla Commissione su questo punto che affida la giurisdizione in materia di responsabilità al giudice amministrativo. Il giudizio sulla legittimità dell'azione amministrativa non ha nulla in comune con il giudizio in ordine alla responsabilità per danni prodotti nei confronti dell'erario e delle pubbliche amministrazioni dagli agenti per loro azioni od omissioni colpose o dolose. Si verrebbe oltretutto a sanzionare, addirittura nella sede costituzionale, una delle più evidenti storture della giurisprudenza della Corte dei conti che in molti casi, con grave errore, fa derivare la responsabilità dell'agente dall'accertata illegittimità dell'atto emanato, mentre essa non può che derivare dall'accertamento di uno specifico danno di carattere patrimoniale prodotto all'ente dall'azione o dall'omissione colposa o dolosa dell'agente, cioè dall'accertamento di un elemento oggettivo - il danno - e di un elemento soggettivo - il dolo o la colpa - che pur con particolarità proprie è da assimilare allo schema del giudizio comune di responsabilità.
Su questo punto, dunque, signor Presidente, considerazioni e di ordine tecnico e di ordine politico spingono a mantenere la giurisdizione della Corte dei conti. Ovviamente con i dovuti aggiornamenti di carattere organizzativo e procedurale che sarà compito del legislatore ordinario definire (Applausi dei deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pisapia. Ne ha facoltà.

GIULIANO PISAPIA. Signor Presidente, signor presidente della bicamerale, onorevoli colleghe e colleghi. Nelle prossime settimane saremo chiamati a scelte destinate ad incidere profondamente sulla vita dell'intera collettività, sul rapporto tra cittadini e istituzioni, sul destino delle generazioni future. Proprio per questo, di fronte alla necessità ampiamente riconosciuta di adeguare alcune norme costituzionali all'evoluzione dei tempi, sento l'esigenza di ribadire il convincimento che tali modifiche potevano e dovevano avvenire con la procedura prevista dall'articolo 138 della Costituzione. Ne è conferma il fatto che - pure di fronte a modifiche fortemente innovative della seconda parte della Costituzione - non si è ritenuto di proporre la modifica proprio dell'articolo 138, confermando così la validità e l'attualità di tale norma di garanzia. Una premessa, questa, doverosa e necessaria, non certo per spirito polemico, ma per chiarezza nei confronti di chi sarà chiamato, col referendum, ad avere l'ultima parola sulle scelte del Parlamento. Accettare le decisioni della maggioranza, del resto, è la base stessa della democrazia. Così come, porre riserve sul metodo, sollevare rilievi e perplessità rispetto alle soluzioni adottate, battersi con forza per modifiche migliorative, non significa non riconoscere il lavoro e lo sforzo fatto dai componenti della Commissione. Il riconoscimento di tale lavoro spero possa diventare apprezzamento rispetto al risultato finale del vostro e del nostro approfondimento. Così come spero che il testo che stiamo esaminando non sarà considerato un punto di arrivo, ma la base per un ampio confronto costruttivo tra idee, opzioni, posizioni e proposte diverse. Un punto di partenza, quindi, per un lavoro comune, che sappia rispondere all'esigenza di una maggiore partecipazione dei cittadini rispetto a scelte che riguardano il loro vivere quotidiano, i loro diritti, le garanzie rispetto alla libertà individuale. E che, nel contempo, rafforzi le autonomie locali, senza però scalfire i principi di eguaglianza e solidarietà sociale che in una società pluralista e complessa come quella in cui viviamo tendono sempre di più ad essere, non a parole ma nei fatti, indeboliti.
Un progetto, quello che stiamo esaminando, che, a mio avviso, presenta luci ed ombre e lo dico con il massimo rispetto per chi ha profuso energie, intelligenze, speranze e pazienza nella ricerca, non certo facile, di un equilibrio tra posizioni anche profondamente diverse. Come non condividere, del resto, il richiamo fatto da


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più parti a considerare la Costituzione come patrimonio di tutti e non di una parte politica?
Luci ed ombre, dicevo. Ombre già evidenziate dall'onorevole Cossutta nella sua relazione, che si è soffermata in particolare sulle problematiche relative al Parlamento, alla forma di Stato e di governo.
Il modello semipresidenziale non ci convince, in quanto determina un rafforzamento dei poteri del Capo dello Stato a scapito del Parlamento, mentre il problema, a nostro avviso, era quello di trovare gli strumenti per rendere il Parlamento sempre di più il centro della rappresentanza democratica. La nostra posizione su questo punto è sempre stata chiara e coerente, in favore dell'adozione di un sistema monocamerale, che consentirebbe il rafforzamento delle prerogative parlamentari e una maggiore efficienza e rapidità nell'approvazione delle leggi; un sistema dunque rispondente alle aspettative della società. Le democrazie si misurano con la forza del Parlamento.
L'obiettivo era quello di uno snellimento del Parlamento, che avrebbe ridotto radicalmente una delle ragioni della sua crisi: i tempi lunghi del processo decisorio, il prevalere degli interessi localistici e la sua pletoricità. Un'unica Camera con non più di 400 parlamentari avrebbe risolto i grandi mali che affliggono il nostro paese nel campo dell'attività legislativa e della governabilità.
Nonostante la non condivisione delle nostre proposte, ci saremmo però aspettati un intervento più incisivo sull'attuale sistema di bicameralismo perfetto, che viene invece sostituito da meccanismi complessi che rischiano di essere forieri di gravi inconvenienti. Come non comprendere, ad esempio, che demandare alla legge ordinaria la possibilità di decidere sul numero dei parlamentari, pur tra un minimo di 400 e un massimo di 500, come è previsto dall'articolo 78, significa aprire un varco dai rischi incalcolabili? Basti pensare alla possibilità per una maggioranza di votare, anche nell'imminenza delle elezioni, una modifica tesa a favorire la propria parte politica a scapito delle opposizioni e in particolare delle minoranze.
Quanto alla forma di Stato, mi limito - dato il ridotto tempo disponibile - a poche osservazioni soprattutto sugli aspetti che più suscitano perplessità.
Il potere sostitutivo del Governo nei confronti delle regioni nei soli casi di pericolo per la sicurezza e incolumità pubblica incide anche sul principio di eguaglianza tra i cittadini. Confido fortemente e fermamente che il confronto parlamentare possa portare ad un'estensione di tale intervento quanto meno al fine di garantire a tutti un livello minimo di prestazioni sociali.
Né può essere condivisa l'attribuzione delle norme elettorali alla potestà legislativa regionale. La materia elettorale incide direttamente su uno dei diritti fondamentali del cittadino e va dunque interamente ed esclusivamente disciplinata dalla legislazione statale.
Per quanto concerne il sistema delle garanzie, il mio giudizio è sostanzialmente positivo in quanto ritengo si sia raggiunto, su gran parte del testo, un punto di equilibrio che, certo, non era facile. Tanto più se si considerano la delicatezza dei temi e le polemiche che hanno accompagnato i lavori della Commissione nonché, e a maggior ragione, se si considera che vi erano spinte forti, del tutto legittime anche se non condivisibili, che tendevano a mettere in discussione alcuni principi fondamentali, quali l'obbligatorietà dell'azione penale, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e, quindi, a mio avviso, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Debbo dare atto all'onorevole Boato di grande equilibrio, soprattutto di fronte ad attacchi ingiusti ed ingiustificati, provenienti anche da chi neppure si era premurato di leggere le proposte del relatore e fomentava le polemiche per fini che nulla avevano a che vedere con la giustizia. Un conto sono le critiche costruttive ed i rilievi a scelte non condivise, altro è l'attacco gratuito e strumentale.

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Anche in tema di giustizia, la Commissione ha fatto una precisa scelta rispetto al dibattito che ha diviso nel tempo i costituzionalisti di tutto il mondo e che già aveva diviso i Padri costituenti. Diversamente dalle prime costituzioni ottocentesche, che si limitavano ad enunciare alcuni principi fondamentali relativi all'organizzazione dello Stato ed ai diritti e doveri dei cittadini (basti ricordare, a tale proposito, l'affermazione napoleonica secondo cui una costituzione deve essere «breve ed oscura»), l'Assemblea costituente, seguendo la tendenza a comprendere nelle carte costituzionali un complesso più ampio di principi tesi a garantire una quantità maggiore di rapporti, fece la scelta di una Carta costituzionale più dettagliata e - aggiungerei - chiara e comprensibile a tutti. Il che era forse necessario, in quanto il nostro paese usciva da una dittatura e forte era l'esigenza, soprattutto da parte di chi era stato in prima linea nella lotta di liberazione, di regolare in modo preciso tutti i principi fondamentali di convivenza civile, in maniera tale da rendere più difficile un loro sovvertimento.
Nella stessa direzione si è mossa la Commissione bicamerale. Prendo atto di questa scelta e confido nel fatto che possa essere uno strumento ulteriore, se non il punto di partenza, per avvicinare i cittadini alla giustizia e la giustizia ai cittadini.
Non può non vedersi con favore, allora, la costituzionalizzazione di alcuni fondamentali principi di civiltà giuridica già consacrati nelle convenzioni internazionali: oralità, concentrazione ed immediatezza, tempestività dell'accusa, parità tra le parti del processo, effettività del diritto di difesa anche per i non abbienti.
L'unico rischio sul quale vale la pena di soffermare la riflessione di tutti, in pieno spirito costruttivo, è che, in periodi di profonda e continua evoluzione della società dal punto di vista politico, sociale, economico, una Costituzione eccessivamente rigida possa rendere più difficile - e in taluni casi ritardare - le eventuali, necessarie modifiche di adeguamento alla realtà sociale.
Per quanto riguarda il merito del testo, profonda è la mia convinzione che sia stato raggiunto l'obiettivo di impedire qualsiasi limitazione all'autonomia e all'indipendenza di tutta la magistratura. Le garanzie di indipendenza della magistratura requirente risultano addirittura rafforzate rispetto all'attuale formulazione dell'articolo 107. Il testo proposto dalla Commissione («I magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni altro potere e godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario») offre le più ampie garanzie rispetto al rischio di sottoposizione dei pubblici ministeri all'esecutivo o anche soltanto della limitazione della loro indipendenza.
È pur vero che in una prima ipotesi si prevedeva che non solo i giudici ma anche i PM fossero sottoposti soltanto alla legge; in tal senso andava anche la proposta di riforma costituzionale da me presentata. Ma, al di là della necessità di un ulteriore approfondimento, non è secondaria la considerazione che il PM non è un giudice e che quello del pubblico ministero è un ufficio con una precisa gerarchia: procuratore capo, procuratore aggiunto, sostituti procuratori.
La formulazione valida per i giudici, quindi, potrebbe creare per i pubblici ministeri difficoltà, polemiche e scontri che danneggerebbero la giustizia.
Viene inoltre riaffermata con forza l'obbligatorietà dell'azione penale. I reati debbono essere perseguiti chiunque sia il responsabile. Né sembra sminuire la portata di tale fondamentale principio il fatto che il pubblico ministero possa avviare le indagini solo in presenza di una notitia criminis. Anzi, tale indicazione potrà evitare in futuro eccessi, abusi o e invasioni di campo che vi sono state in passato, anche se da parte di un numero estremamente limitato di pubblici ministeri, e che tanto hanno danneggiato l'amministrazione della giustizia.
Particolarmente positive sono le norme tese a rafforzare il ruolo del giudice, a garantirne la terzietà nel senso di renderlo effettivamente imparziale tra accusa

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e difesa. Merita di essere sottolineato il secondo comma dell'articolo 129 - la cui formulazione è peraltro, a mio avviso, suscettibile di miglioramento - che attribuisce rango costituzionale al cosiddetto principio di offensività da tempo considerato dalla dottrina, soprattutto da quella progressista, un imprescindibile pilastro dell'ordinamento penale di uno Stato di diritto.
In virtù di tale principio non può avere rilevanza penale un fatto che non crei effettiva lesione del bene giuridico tutelato. È vero che il principio di offensività, secondo autorevole dottrina, è già sancito dall'articolo 49 del codice penale e che è ritenuto comunque operante quantomeno come canone interpretativo. Tuttavia, l'espressa consacrazione di tale principio a livello costituzionale non può essere sottovalutata ed è un forte segnale rispetto al tanto auspicato diritto penale minimo o diritto penale mite.
La formulazione dell'articolo 131 merita una più approfondita riflessione. È certamente positivo che, nell'ammettere il ricorso per cassazione solo nei casi previsti dalla legge, sia in ogni caso assicurato un doppio grado di giudizio. Ma mi chiedo, e vi chiedo, se non sia il caso di prevedere espressamente, quantomeno in presenza di condanne a pena detentiva, un doppio grado di giudizio di merito oltre alla possibilità di ricorrere in Cassazione. Non sarebbe questo un segnale di alta civiltà giuridica e un modo per limitare, per quanto umanamente possibile, i troppo frequenti errori giudiziari? Non vorrei che, dopo aver previsto nuove e giuste garanzie a tutela dei diritti individuali, si finisse per non porre uno steccato alla soppressione, purtroppo da più parti auspicata, di una garanzia fondamentale a tutela della libertà individuale, cioè la possibilità di impugnazione nel merito e per violazione di legge quantomeno quando le sentenze incidono sulla libertà personale dei cittadini.
Forti perplessità, invece, suscita la suddivisione in due sezioni del Consiglio superiore della magistratura ordinaria. Non credo realistico il rischio, pur paventato da molti, di un presunto imbavagliamento nei confronti dei pubblici ministeri. Al contrario, temo fortemente che, se il Parlamento non si orienterà diversamente, si rafforzerà ulteriormente il potere dei pubblici ministeri. Se l'obiettivo era quello di pervenire ad una effettiva terzietà del giudice, di restituire alla difesa il ruolo di garante del giusto processo senza indebolire il pubblico ministero, forte è il timore che la scelta della suddivisione del Consiglio superiore della magistratura in due sezioni finirà con l'essere un vero e proprio boomerang. Anziché la parità tra accusa e difesa e un giudice equidistante tra le parti, avremo un pubblico ministero con ancora più potere non solo rispetto alla difesa, ma anche - temo - nei confronti del giudice. Con il rischio di stravolgere, con questo solo articolo, quel delicato equilibrio cui tendono altre parti del testo approvato dalla Commissione.
Invito i colleghi tutti a riflettere sul rischio, anzi la certezza, del fatto che la divisione in sezioni del Consiglio superiore della magistratura determinerà un ulteriore squilibrio anche a livello istituzionale. Non mi soffermo in questa sede sulla distinzione fra potere e ordine. Certo è che - con la divisione del Consiglio superiore della magistratura in due sezioni, ciascuna con un proprio presidente - avremo di fatto quattro poteri dello Stato: l'esecutivo, il legislativo, il giudiziario giudicante e il giudiziario requirente, con tutte le conseguenze facilmente intuibili a livello istituzionale e a livello endoprocessuale.
Non condivido, invece, gli allarmismi suscitati dalla modifica della proporzione tra i componenti laici e i componenti togati. Resta la prevalenza dei membri togati e soprattutto questi, eletti dal Senato delle garanzie tra professori universitari in materie giuridiche e avvocati di grande esperienza, saranno e dovranno essere espressione non del potere politico, ma della cultura giuridica.
Come dimenticare, del resto, che proprio in sede di Comitato per le garanzie della Costituente era stata approvata, oltre che prospettata, la parità numerica dei

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componenti laici e di quelli togati. Piuttosto, vale la pena di rivedere il rapporto numerico tra componenti del CSM e componenti della corte di giustizia della magistratura, di costituzionalizzazione del quorum per l'elezione dei componenti laici, onde evitare che, in un sistema maggioritario, siano tutti espressione della stessa cultura e portatori degli stessi valori.
Fondamentale poi è una più approfondita riflessione rispetto alla presidenza del CSM. Con l'elezione diretta non avremo più un Presidente della Repubblica super partes e quindi con quel ruolo di garanzia anche per l'autonomia di indipendenza di giudici e di pubblici ministeri.
Nella direzione di un rafforzamento delle garanzie di indipendenza della magistratura si muove, a mio avviso, anche la proposta di attribuire l'azione disciplinare ad un organo realmente autonomo e indipendente, quale il procuratore generale eletto dal Senato della Repubblica a maggioranza dei tre quinti e con tassative incompatibilità. Tema delicatissimo, certo, ma troppi dimenticano che oggi l'azione disciplinare è facoltativa ed è demandata al procuratore generale presso la Corte di cassazione, che pure fa parte del CSM, e al ministro della giustizia, espressione dell'esecutivo e quindi soggetto politico e di parte. La stessa Associazione nazionale magistrati, del resto, oggi critica rispetto all'obbligatorietà dell'azione penale, si era in passato ripetutamente espressa «proprio allo scopo di garantire indipendenza e correttezza dei magistrati per la riforma del sistema disciplinare attraverso i due correlati istituti della tassatività degli illeciti e dell'obbligatorietà dell'azione penale».
Poche considerazioni ancora. Una prima relativa all'ultimo comma dell'articolo 130. L'attuale formulazione non mi convince in quanto, pur nel lodevole intento di rendere accessibile ed effettiva la possibilità di difesa anche per i non abbienti, appare del tutto inadeguata per il raggiungimento dello scopo preposto, riverberando anzi alcuni effetti decisamente negativi che potrebbero addirittura conculcare il diritto di difesa.
Il rischio è di trovarci di fronte ad un difensore pubblico che dovrebbe perseguire interessi in contrasto con quelli collettivi. Si pensi, in particolare, al processo penale ove il difensore ha come contraddittore chi rappresenta la potestà punitiva dello Stato e, in certi casi, anche l'Avvocatura dello Stato, che difende interessi civili opposti a quelli dell'imputato. Identica, paradossale situazione potrebbe determinarsi nel giudizio amministrativo, laddove il singolo ricorra contro lo Stato o una sua articolazione giuridica, lamentando lesione di interessi legittimi. Altro dato negativo sarebbe l'eliminazione della libertà di scelta del difensore di fiducia da parte del cittadino non abbiente, oggi prevista dalla legge ordinaria.
In realtà, piuttosto che inseguire modelli normativi estranei al nostro ordinamento ed alla nostra cultura giuridica e che, oltre tutto, non hanno dato risultati positivi neppure in ordinamenti del tutto differenti dal nostro ove ad esempio non vige l'obbligatorietà dell'azione penale si potrebbe conseguire, con risultati migliori, l'obiettivo dell'effettività della difesa dei non abbienti mediante opportune modifiche ai testi di legge ordinaria vigenti o alla loro costituzionalizzazione.
Particolare apprezzamento merita la soppressione dei militari tribunali in tempo di pace, un istituto ormai anacronistico, come da tempo e da più parti rilevato, e la previsione anche per i tribunali militari di guerra che il procedimento debba svolgersi nel rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo.
Di particolare rilievo è altresì il riordinamento della giurisdizione amministrativa, con l'unitarietà della funzione giurisdizionale e quindi l'equiparazione del giudice amministrativo e del magistrato ordinario quanto a status, incompatibilità e reclutamento. La competenza del giudice amministrativo non si baserà più sull'incerta dicotomia interessi legittimi-diritti soggettivi, ma sarà direttamente indicata dalla legge, pur dovendo riguardare

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l'esercizio di pubblici poteri. Si introduce così un indubbio elemento di chiarezza e di certezza giuridica che renderà più chiari i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. Un'ultima considerazione sul ruolo e la composizione della Corte costituzionale. È da evitare che un eccesso di funzioni - mi riferisco, per esempio, ai giudizi di legittimità promossi da un quinto dei componenti della Camera - determini da un lato un sovraccarico di lavoro, che ne metterebbe a rischio l'efficienza e la celerità, e dall'altro una deleteria politicizzazione, che sarebbe favorita dalla possibilità di esprimere pubblicamente da parte dei giudici l'eventuale opinione in dissenso.
Nel concludere l'intervento, sento l'esigenza, al di là del merito sulle scelte operate, di ringraziare chi si è fortemente impegnato nei lavori della Commissione, che ha avuto il merito di aver rispettato i tempi e le procedure di una legge che, troppi oggi lo dimenticano, aveva riscosso ampio consenso nelle aule parlamentari. Non è rassicurante il fatto che ciò debba essere ricordato proprio da chi invece aveva espresso il proprio dissenso.
Quello della Commissione bicamerale è stato, al di là delle riserve sottolineate in molti interventi, un lavoro importante; importante per quanto riguarda la giustizia in questo punto di approdo, sia pur così parziale, per le significative modifiche avvenute nel corso del cammino intrapreso, e speriamo ancora più significative per gli ulteriori miglioramenti che potremo apportare nell'interesse dei cittadini affinché il testo sappia coniugare tutela dei diritti individuali e collettivi, obbligatorietà dell'azione penale, in un diritto penale minimo e mite, autonomia e indipendenza della magistratura. Questo è il nostro obiettivo; se saremo in grado di raggiungerlo potremo finalmente dare una risposta alle attese dei cittadini, nella prospettiva di una giustizia garantita e garantista, equa e non vendicativa, che non sia - come troppo spesso accade - forte con i deboli e debole con i forti. Una giustizia che trasformi da mera petizione di principio a realtà concreta il principio secondo cui la legge è uguale per tutti (Applausi dei deputati dei gruppi di rifondazione comunista-progressisti, della sinistra democratica-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Pisapia.
È iscritto a parlare l'onorevole Galati. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE GALATI. Signor Presidente, il dibattito che ci vede impegnati sulla base dell'intenso e non facile lavoro compiuto dalla Commissione bicamerale riguarda la necessità - in un momento difficile della nostra storia - che il Parlamento e le forze politiche raggiungano un decisivo accordo per riscrivere la seconda parte della Costituzione.
Gli ideali e i valori a cui deve ispirarsi una moderna Costituzione sono plurimi; accanto a quelli dell'equità e della solidarietà si devono porre quelli dell'autonomia e della responsabilità. Si tratta di valori fondamentali per una democrazia che voglia stare al passo con le grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo.
In quest'ottica si avverte la necessità di una profonda riforma delle istituzioni; non è più possibile mantenere in vita un sistema politico bloccato, che non dà autorevolezza al Governo, né permette all'opposizione di svolgere il ruolo che le è proprio. Tutto ciò infatti produce una caduta di legittimità dei partiti dando fiato alle trombe dei sostenitori dell'antipolitica.
Parte quindi da lontano la necessità di assicurare al paese la stabilità di un sistema politico e la governabilità per favorire il corretto equilibrio dei poteri, per realizzare il federalismo, per mettere a punto un sistema di garanzie che tuteli i diritti dei cittadini e la civiltà del paese stesso. Tutti abbiamo interesse a conseguire gli obiettivi fondamentali legati alle riforme costituzionali.
La crisi del nostro sistema costituzionale si è pericolosamente aggravata con l'introduzione del sistema elettorale maggioritario,


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poiché a fronte di una Costituzione basata sul sistema parlamentare si è predisposto un meccanismo elettorale che tende verso il Governo del premier. A tutto ciò si è aggiunta anche una crisi profonda e radicata dei poteri locali, privi di una reale autonomia.
Il sistema delle autonomie elaborato dai nostri costituenti si basava essenzialmente su una forma di decentramento in cui i poteri erano solo in minima parte attribuiti o delegati alle regioni; oggi vi sono tensioni autonomistiche provenienti sia dal nord sia dal sud del paese, che rendono indispensabile intervenire con riforme reali.
Occorre quindi costruire un sistema istituzionale capace di coniugare la governabilità con la tutela delle minoranze in uno Stato che sia all'insegna del presidenzialismo e del decentramento, che sappia realizzare un sistema bipolare anche se non bipartitico. Dobbiamo onestamente riconoscere che la seconda parte della Costituzione aveva mostrato ormai da tempo potenzialità e limiti dei quali non sempre si è apprezzata tempestivamente la giusta portata. Solo la capacità del Parlamento di assorbire, senza eccessivi traumi, spinte dirompenti, ha evitato di mettere in crisi l'intero sistema istituzionale. Occorreva però prendere coscienza del particolare momento, delle nuove, pressanti e legittime richieste provenienti dai diversi livelli territoriali, per mettere mano ad una revisione per certi versi indifferibile.
Federalismo, sussidiarietà, elezione diretta del Presidente della Repubblica, inserimento in Costituzione dell'authority della Banca d'Italia, partecipazione all'Unione europea, sdoppiamento del CSM e contestuale separazione delle funzioni, nuove regole per la giurisdizione, sono questi i principali tratti somatici approvati nel progetto di revisione costituzionale dalla Commissione bicamerale e sui quali noi discutiamo.
Dopo quindici anni si avvia un processo di revisione che abbandona il limbo delle ipotesi e può quindi giungere a risultati concreti.
I lavori della bicamerale sono stati una preziosa occasione di confronto di impostazioni politiche e giuridiche, un vivaio di proposte dalle quali certo non possiamo prescindere sia nell'identificazione dei problemi sia nella ricerca delle soluzioni. Dobbiamo però chiederci tutti insieme se il testo licenziato abbia centrato gli obiettivi proposti. Certo, per conto nostro non è possibile dare una risposta affermativa né per l'uno né per l'altro di questi fondamentali obiettivi. Non mi sembra infatti che le due proposte di modifica relative alla forma di governo abbiano costituzionalizzato il bipolarismo. Innanzitutto, l'elezione diretta del Presidente non è all'uopo sufficiente se poi quest'ultimo mantiene solo funzioni di garanzia e se addirittura da parte di alcuni settori parlamentari se ne vuole ridurre il ruolo.
In secondo luogo, la diversa impostazione ipotizzata nel rapporto tra Parlamento ed esecutivo rappresenta certo un netto miglioramento rispetto al precedente sistema, ma non esclude la possibilità di spostamenti di singoli e di gruppi capaci di aggregare nuove maggioranze, che gli elettori non avevano scelto e forse neppure immaginato.
In terzo luogo, non serve alla causa del bipolarismo la riduzione del numero dei parlamentari, poiché ciò costituisce soltanto un altare sacrificale di un certo populismo demagogico ed antiparlamentare. È evidente che questa diminuzione, a fronte di una modesta e forse inesistente riduzione dei costi di gestione, produrrebbe un duplice effetto deleterio: un rapporto meno stretto tra eletti ed elettori in un collegio più ampio; l'aumento dei costi delle competizioni elettorali, con significativi risvolti nella selezione dei candidati, che avverrebbe per censo e con tutti i limiti che abbiamo già rilevato nella prima Repubblica.
In effetti, il solo consistente contributo alla causa del bipolarismo è venuto dalla proposta, che non apparteneva alla discussione ed alla competenza della bicamerale, del doppio turno di coalizione,

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che è stata poi oggetto di un anomalo ordine del giorno presentato in Commissione.
Esprimiamo un giudizio negativo sulla proposta relativa alla forma di Stato uscita dalla Commissione bicamerale. Non ha senso proporre un certo grado di federalismo; la Costituzione o è federale o non lo è. E la Costituzione delineata dalla bicamerale non lo è per nulla, giacché non stabilisce un principio di sussidiarietà e mantiene una distinzione ambigua per quanto riguarda il rapporto tra le funzioni del pubblico e del privato. Assegna inoltre allo Stato un'eccessiva pletora di funzioni attraverso l'ambigua formula della tutela di imprescindibili interessi nazionali, mantenendo parimenti in capo allo Stato, pressoché inalterato, l'attuale livello di risorse finanziarie, mediante una altrettanto ambigua formulazione che esclude dalla ripartizione tra le regioni e lo Stato centrale le risorse necessarie per gli interventi volti a favorire uno sviluppo economico e sociale equilibrato sul territorio nazionale. Ciò è sufficiente a riportare in capo allo Stato tutte le funzioni relative ai poteri di prima, e ciò certamente non può essere definito federalismo. Del resto la proposta formulata in riferimento alla forma di governo è ambigua non meno di quanto lo sia quella relativa alla forma di Stato. Vi è l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma i suoi poteri sono, per un verso, molto limitati, e, per l'altro, eccessivi per un sistema di governo che si vuole di natura parlamentare, a differenza di ciò che avviene in altri paesi. In Francia non è infatti necessaria alcuna coerenza fra il sistema elettorale con il quale si elegge il Capo dello Stato e quello per l'elezione del Capo del Governo. È casuale il modo in cui si è giunti alla scelta di un modello presidenziale o del premier, senza pervenire ad una soluzione organica per quanto concerne la forma di governo. Inoltre, si rischia anche di entrare in contrasto con la prima parte della Costituzione. Se infatti quest'ultima fu il frutto dei partiti organizzati, com'è chiaramente detto nell'articolo 49, che attribuisce appunto ai partiti niente di meno che la funzione di determinare la politica nazionale, come si può rispettare la sostanza di tale disposizione costituzionale rispetto ad una forma di governo che prevede il passaggio dai partiti al popolo?
Tali considerazioni possono essere rivolte anche alla riforma del bicameralismo. La maggiore novità che la bicamerale ha prodotto è la sottrazione di libertà fondamentali dal potere del Governo. Se noi tutti immaginiamo di passare quindi ad un modello rigidamente bipolare sarebbe con tutta evidenza conclusa l'esperienza del bicameralismo cosiddetto perfetto, perché in un sistema bipolare non vi è luogo per due Camere con composizione e poteri identici. Fino ad ora, però, lo abbiamo visto, bicameralismo e bipolarismo non sono emersi ancora con la forza e l'evidenza necessaria. Abbiamo soltanto assistito ad un orientamento trasversale tendente a ridurre drasticamente gli spazi di iniziativa politica autonoma delle Assemblee legislative e rappresentative in genere nei confronti dei rispettivi esecutivi.
Per quanto riguarda poi la magistratura, il fatto più rilevante che è emerso per quanto riguarda l'opinione pubblica credo sia stata l'attenzione da parte dei magistrati per il lavoro compiuto dalla bicamerale e dal relatore. Dobbiamo allora chiarire fino in fondo che cosa vogliamo per il sistema delle garanzie e per la magistratura.
Certamente non è sostenibile il principio delle due sezioni senza creare le condizioni per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Qualcuno oggi in quest'aula ricordava che bisogna assolutamente assicurare l'indipendenza della magistratura, che è senz'altro una conquista di civiltà. Tuttavia, la separazione delle carriere non significa che il pubblico ministero debba essere soggetto all'esecutivo o ne debba essere condizionato; ci sono forme, modi e provvedimenti per poterlo evitare.
Credo quindi che a noi ed a questa discussione serva una riflessione molto attenta. Non si tratta di fare dei compro

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messi; non sono pensabili per una vicenda che riguarda il futuro del paese compromessi politici o accordi di altra natura, perché qui non sono in discussione una legge, né una riforma ordinaria, ma la qualità e la stabilità della nostra democrazia.
Il risultato della bicamerale, quindi, è un punto di partenza, non di arrivo. Ora è giunto il momento delle scelte, quelle scelte che la bicamerale non ha voluto o non ha potuto fare, perché ha cercato di raccogliere intorno alle sue proposte la maggiore quantità di consensi. Non sempre, però, l'ottima qualità dei risultati dipende dalla quantità dei consensi.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Stajano. Ne ha facoltà.

ERNESTO STAJANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il testo licenziato dalla Commissione bicamerale, che ci apprestiamo ad esaminare, è frutto di un lungo e complesso lavoro che ha visto a confronto maggioranza ed opposizione in un dibattito spesso spigoloso, ma sempre improntato ad un alto senso di responsabilità ed arricchito dal contributo di tutte le correnti della variegata cultura politica italiana.
La bozza prodotta dalla Commissione bicamerale è dunque il risultato di una difficile mediazione e non deve quindi risultare scandaloso se presenta ancora tratti contraddittori, talora anche gravi, che devono essere superati per portare a compimento l'opera.
Sullo sfondo della riforma della seconda parte della Costituzione emerge l'Europa, a cui l'Italia si deve pienamente uniformare, anche dandosi un'architettura istituzionale moderna, un'organizzazione governativa ed amministrativa in grado di colmare la nostra arretratezza rispetto agli altri paesi sviluppati, con i quali dobbiamo poter competere e cooperare con pari potenzialità, anche dal punto di vista della struttura istituzionale e costituzionale.
In questa prospettiva nazionale, strettamente coniugata all'Europa, sono necessariamente diretti i nostri obiettivi di politica costituzionale.
Sul lavoro della Commissione bicamerale rinnovamento italiano conferma il suo giudizio positivo, anche se - e non poteva essere diversamente - ci è stato consegnato un disegno costituzionale che va completato, come ho già detto, apportando miglioramenti tecnici di non poco momento. In particolare, occorre procedere con grande senso di responsabilità su due temi, sui quali vorrei in particolare concentrare la mia attenzione, quello della forma di governo ed i problemi della giustizia.
Per quel che attiene alla forma di governo si è giunti, attraverso un voto piuttosto avventuroso della bicamerale, ad un modello semipresidenzialista, a nostro avviso largamente insoddisfacente.
La Commissione si è divisa su questa scelta, ma ora è necessario lavorare su questa indicazione, affinché possa rappresentare un'opportunità per tutti.
L'idea di un'elezione diretta del Presidente della Repubblica deve essere, a mio avviso, valutata e valorizzata in tutti i suoi aspetti, se non si vogliono creare situazioni di difficoltà, autentiche petizioni di principio.
Non è possibile immaginare che un organo che deriva dalla diretta investitura popolare possa trovare così forti limitazioni nel suo operare. Non si può non accettare l'idea che allo stesso siano conferite funzioni determinanti anche per quel che attiene l'indirizzo politico nazionale nella convergenza con altri organi, cui sono altrettanto doverosamente deputate queste funzioni e, in primo luogo, il Parlamento. Si rischia, altrimenti, di dar vita ad un personaggio pirandelliano alla ricerca del suo ruolo e noi sappiamo quanto, in un momento di così difficile transizione, la costituzione materiale abbia la possibilità di prevalere su quella formale.
Alcune anche ristrette indicazioni costituzionali hanno avuto la possibilità di manifestarsi - grazie a Dio in positivo - nella nostra recente esperienza storica con una forza che non si poteva immaginare


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e che era imprevista anche nella penna e nelle riflessioni dei più avveduti studiosi di diritto costituzionale favorevoli ad un ampliamento dei poteri presidenziali, al di là di quelli ristretti di garanzia che il nostro attuale ordinamento gli affida.
Dovete immaginare quale potrebbe essere la potenzialità disgregatrice di un Presidente della Repubblica eletto dal popolo che non vedesse riconosciuta questa sua forte legittimazione anche dal punto di vista politico. La tentazione - ma, direi, ancor più fortemente e stringentemente l'obbligo - di ricercare un modo per affermare il senso ed il valore della legittimazione popolare diventerebbe fatale e tenderebbe ad introdurre elementi di destabilizzazione del sistema. Certo, molto dipenderebbe dalla personalità di chi, di volta in volta, si trovasse ad occupare quell'alto incarico, ma l'elezione popolare da questo punto di vista non garantisce nessuno - lo sappiamo bene - dalla possibilità che accedano alla suprema magistratura anche personaggi che magari si connotano per qualità diverse dall'equilibrio, dalla moderazione, dal senso della misura e dello Stato che noi tanto apprezziamo (e doverosamente) in chi ha ricoperto questo incarico in tempi recenti e meno recenti.
Io credo che solo un'adeguata conformazione dei ruoli in qualche misura renda possibile limitare i danni di personaggi esuberanti e della vocazione plebiscitaria che un tale incarico, che deriva dalla volontà popolare espressa a suffragio universale, può fatalmente - e l'esperienza storica in questo senso ci soccorre - determinare.
A questo riguardo non ci deve essere, a mio avviso, alcuna ambiguità, alcuna incertezza. Se la scelta deve essere fatta, ed io sono fra quelli che ritengono sia giusto farla per adeguare le nostre istituzioni alle necessità di governo, ma anche alla volontà largamente espressa dal popolo italiano, ebbene bisogna avere il coraggio e la determinazione di spingerla fino in fondo, indicando precisamente un ambito di competenze entro le quali si può svolgere con serenità e con un forte sistema di controllo anche l'azione di una così prestigiosa ed autorevole magistratura.
A tutto questo, naturalmente, a questa esigenza di chiarezza si collega anche la necessità che finalmente anche il nostro sistema affronti il connesso tema - estraneo, per dire il vero, al disegno costituzionale - della riforma delle leggi elettorali con quella chiarezza che si addice ai sistemi ormai completamente bipolari. Lo sostiene chi, come me, milita in un partito che, in astratto, secondo quello che si dice, non avrebbe certamente nulla da guadagnare dall'affermazione di un sistema maggioritario sostenuto da un sistema elettorale uninominale a doppio turno, che sicuramente non favorisce, come è noto, le piccole forze, ma che mi sembra sia comunque uno strumento indispensabile per dare compiutezza al sistema.
Occorre agire con coraggio, anche quando il disegno costituzionale che si intende sostenere e in cui si crede fortemente collide con i propri interessi, che personalmente non considero in alcun modo, perché non do ad essi alcun valore.
Vorrei spendere la seconda parte del mio intervento per affrontare i temi della magistratura. Pur essendo da qualche tempo interessato ad altre questioni, non posso non riconoscere una affezione profonda e forse anche una qualche maturata esperienza in tale settore.
Devo dire che la riforma istituzionale sui temi relativi alla magistratura appare eccessivamente tiepida e modesta. L'indirizzo di riforma costituzionale, infatti, mi pare cogliere solo in parte le necessità di un intervento radicale su un tema rispetto al quale da troppo tempo ci sono infingimenti e su cui molti manifestano, in modo certamente errato, specie quando si tratta di questioni costituzionali, una falsa o addirittura una cattiva coscienza.
Non credo possa essere messo in discussione, in uno Stato moderno e democratico qual è il nostro, il principio della libertà e dell'indipendenza dei giudici; nessuno può fondatamente oggi sostenere

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che una cosa è il ruolo affidato alla magistratura giudicante, ben altro è quello che viene affidato invece alla magistratura inquirente e requirente. Costoro non sono giudici, bisogna riconoscerlo chiaramente ed hanno diritto pertanto ad un tipo di indipendenza diversa da quella che compete ai giudici. Probabilmente, se vogliamo affrontare questo tema fino in fondo, dovremo anche interrogarci sul valore che vogliamo attribuire all'obbligatorietà dell'azione penale, uno dei mezzi attraverso cui i magistrati inquirenti tentano di guadagnare una indipendenza che di fatto non hanno ontologicamente. Soprattutto dobbiamo considerare che, al di là della rigidità dell'astratta formula che vuole obbligatoria l'azione penale, i fatti dimostrano - e bene lo sappiamo - come la realtà sia diversa.

PRESIDENTE. Sono spiacente, onorevole Stajano, ma purtroppo per me, visto l'interesse con cui sto seguendo il suo ragionamento, ha superato il tempo a sua disposizione. La invito pertanto a concludere.

ERNESTO STAJANO. Sarò brevissimo nella mia conclusione. Poiché ho sostituito un collega, non sapevo con precisione quanto tempo avevo a disposizione. Mi scusi, signor Presidente. Cercherò di concludere il più rapidamente possibile.

PRESIDENTE. Il suo ragionamento interessa anche me. Prosegua pure.

ERNESTO STAJANO. Vi è il rischio che in questa materia vi sia la tendenza a coltivare feticci e ad adorare idoli, che poi nel concreto non esistono.
L'azione obbligatoria nel nostro ordinamento è spesso tale solo per coloro che devono subirla, non certo per i magistrati che la esercitano. Lo dico con la serena coscienza che mi deriva dall'avere esercitato funzioni, per la verità non requirenti o inquirenti, giudicanti per molti anni. Non è certamente un rimedio a questa situazione la separazione dei due Consigli superiori o il trovare qualche elemento di fittizia ed artificiosa distinzione di carriera: ci vuole ben altro.
Vorrei ancora dire una cosa a proposito del Consiglio superiore e poi mi avvio a concludere davvero. Purtroppo la ristrettezza dei tempi non mi consente di articolare le mie motivazioni e di ampliare le giustificazioni; questo mi fa correre il rischio di essere apodittico nelle mie affermazioni, il che, in tale materia, è veramente grave. Spero che i colleghi sappiano comprendere che se ciò avverrà è perché sono indotto ad un intervento rapido e ad affermazioni perentorie.
Ebbene, credo che nell'ambito della riforma del Consiglio superiore si debba considerare il fatto che con l'attuale legge elettorale nell'elezione dei componenti togati l'unico serio rischio all'indipendenza dei magistrati nel nostro ordinamento costituzionale viene proprio dal Consiglio superiore della magistratura (Applausi dei deputati del gruppo di rinnovamento italiano).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Spini. Ne ha facoltà.

VALDO SPINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gentili ascoltatori - presumo - di Radio radicale, prendo volentieri la parola per rilevare un punto. Innanzitutto, ci si lamenta, in questo dibattito, della mancanza di una suspence, di un thrilling, di una tensione. Ritengo che questo abbia due aspetti positivi.
Il primo aspetto, che credo vada veramente a merito della coalizione di governo dell'Ulivo, è che non è mai stato in causa lo schieramento di Governo o l'alleanza di Governo rispetto alle soluzioni che sarebbero emerse nella bicamerale. Va detto, in questo senso, che la coalizione del centro-sinistra e dell'Ulivo (a mio avviso è un merito) ha effettivamente sposato uno spirito costituente che ha consentito larghe convergenze. Tali convergenze sono al centro del fatto che oggi possiamo discutere, magari anche criticamente, ma partendo da un testo fortemente condiviso, quello della bicamerale.


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Il secondo aspetto è che nemmeno l'onorevole Berlusconi, forse, è riuscito ad operare un vero e proprio thrilling con il suo intervento, perché mi sembra che lo spirito costituente sia fortemente radicato anche nella coalizione del centro-destra e non sia quindi soggetto ad ultimatum o a messe in causa del secondo tempo.
Devo dire inoltre che questo è un elemento di soddisfazione - vorrei sottolinearlo - anche per la mia particolare posizione. Ho inteso rappresentare in questo dibattito e nella bicamerale un filone di pensiero, quello liberalsocialista, quello azionista, quello di Calamandrei, che ha avuto in qualche modo una vendetta postuma in questa vicenda, nel senso che, come è noto, mentre l'elezione diretta del Presidente della Repubblica è rimasta alla Costituente una posizione sostanzialmente isolata, in questo caso invece non lo è stata. Certo, ho un rimpianto, quello di essermi trovato nella posizione di unico appartenente al gruppo della sinistra democratica che ha votato per il semipresidenzialismo...

CESARE SALVI, Relatore sulla forma di governo e sulle pubbliche amministrazioni. Anche Passigli!

VALDO SPINI. Si è astenuto. A ciascuno il suo! Come dice L'Osservatore Romano: unicuique suum. Comunque, è un merito del senatore Salvi difendere i senatori del suo gruppo. Questo è positivo.
Se un gruppo un po' più consistente di esponenti della sinistra democratica avesse votato a favore, oggi non si sarebbe parlato di un voto rocambolesco, ma soprattutto (perché questo appartiene al passato) forse la trattativa, il confronto sulle soluzioni globali avrebbe potuto essere più coerente e più rispondente alla situazione. Devo dire infatti che, se lamento qualcosa (ed è una cosa a cavallo tra il costituzionale e l'infracostituzionale), è il fatto che in Italia può succedere tutto. Può succedere che in fondo venga accettata senza traumi anche l'elezione diretta del Presidente della Repubblica e che possa essere accettata anche una messa in discussione del Senato nelle sue connotazioni tradizionali. Ma quello che non si riesce proprio a far passare nel nostro paese è la riconduzione a un numero razionale dei partiti e delle forze politiche.
Nel corso di questa vicenda ci siamo trovati di fronte a lord protettori dei piccoli partiti che, pur accettando una logica bipolare (questo è molto positivo e molto importante), non hanno voluto praticare quel minimo di riforma del sistema elettorale che avrebbe potuto portare nel nostro paese ad un servizio più efficiente per i nostri cittadini. Non voglio infatti trascurare di sottolineare che tutto il nostro orientamento e tutta la nostra posizione devono avere questa stella polare e questo orientamento: vogliamo un sistema più democratico, in cui il voto conti di più, e più efficiente, in cui lo si possa esercitare in strutture politiche e istituzionali che diano migliori risultati.
Mi rivolgo in particolare ai gentili ascoltatori di Radio radicale. Deve essere chiaro ai cittadini che non stiamo parlando politichese, che non stiamo parlando di noi, ma di come potenziare il risultato del loro voto e portarlo in strutture di governo e istituzionali che siano effettivamente più efficienti. Da questo punto di vista, credo che peraltro (questo è il punto forte del mio giudizio positivo) l'elezione diretta del Presidente della Repubblica rappresenti un punto di riferimento importante, anche contro velleità di ritorni indietro rispetto al sistema bipolare, rispetto ad un sistema di alleanze di centro-destra e di centro-sinistra che si fronteggiano.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARIO CLEMENTE MASTELLA (ore 19,34)

VALDO SPINI. Non c'è dubbio che oggi nella polemica politica vi sono situazioni che cercherebbero di tornare indietro, nostalgie di aggregazioni, di vecchi centri, di ritorno all'antico, magari mascherate sotto la richiesta di qualcosa di più;


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magari virtuosamente mascherate dietro la richiesta di qualcosa di più incisivo, ma che in realtà sottacciono il tentativo di rompere quello che si è unito per poter in qualche modo riaprire la strada ad un ritorno al vecchio sistema.
Da questo punto di vista non vorrei mancare di mettere agli atti una sottolineatura della positività dell'intervento dell'onorevole Marini il quale, pur portando avanti su taluni punti istanze diverse, si è certamente posto in termini molto costruttivi e significativi nei confronti della riuscita di questo tentativo.
Ecco allora perché questo punto conseguito dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica credo rappresenti un punto forte anche contro i possibili ritorni indietro, contro i tentativi di tornare ad un sistema centrista che escluda da una parte e dall'altra. Un po' mi sorprende - in senso retorico - l'atteggiamento così negativo su questo punto di rifondazione comunista. Sono una persona generalmente pratica, un po' «terra terra» e non voglio dimenticare che se c'è un paese in cui i comunisti sono andati al Governo due volte, prima con Mitterrand e poi con Jospin è proprio la Francia, che conosce l'elezione diretta del Presidente della Repubblica assieme ad un doppio turno di collegio. Sarebbe questo il sistema che io auspico e che - se vi sarà uno spazio - cercherò di rivendicare, visto tra l'altro che non avendo gustato la crostata, non posso sentirmi legato moralmente ad un accordo. Se dunque vi sarà lo spazio per un ripensamento ed una nuova riflessione ritengo che il sistema dovrà essere completato armonicamente con la previsione di un doppio turno di collegio.
Ma certo questa novità così rilevante ed importante deve completarsi anche nella previsione armonica di poteri e di rapporti con gli altri organi istituzionali. Lo dico sinceramente. Penso che sarebbe più coerente, con un sistema che di fatto si articola diversamente a seconda che vi sia omogeneità di maggioranza tra Presidente e Parlamento, o che non vi sia (cioè che vi sia coabitazione) se passasse un emendamento che anch'io ho presentato e che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di partecipare al Consiglio dei ministri (tale possibilità significa che se vi è omogeneità di maggioranza il Presidente della Repubblica ha anche questo elemento di guida, mentre se non vi è omogeneità la guida spetta ovviamente al Primo ministro), piuttosto che (anche se ne vedo gli aspetti positivi) affidarsi a questo Consiglio che abbiamo costruito per la politica estera e per la difesa, che certamente corrisponde ad una buona intenzione, ma che temo potrebbe essere foriero di qualche confusione laddove vi fossero situazioni politiche diverse e maggioranze divergenti. Ecco quindi che, senza andare a cercare un'accentuazione di poteri del Presidente della Repubblica che mettano in causa l'accordo che è stato raggiunto, mi sembrerebbe positivo operare taluni aggiustamenti, nel senso della possibilità - non l'obbligatorietà - di partecipazione al Consiglio dei ministri e spero che si svolga in proposito una riflessione.
Come dicevo è chiaro che accettare la sfida dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica ha voluto chiamare anche il centro-destra ad un redde rationem. Da questo punto di vista non posso che sottolineare che chi nel centro-destra ritenesse di sottrarsi alla gestione di questo risultato credo non sarebbe capito né dal suo elettorato, né dalla sua base né riconosciuto per coerenza di comportamento. Per questo non credo che l'intervento dell'onorevole Berlusconi possa rappresentare realmente un diktat o una sorta di pregiudiziale. Abbiamo ormai intrapreso una strada - come mi sembra sottolinei anche l'intervento dell'onorevole Fini - rispetto alla quale il centro-destra non potrebbe sottrarsi; una strada di verifica delle posizioni sulla riforma delle istituzioni rispetto alla quale - e questo è un merito - la sinistra democratica ha effettivamente accettato la sfida, dimostrando di essere capace di reggerla.
L'altro aspetto molto importante che abbiamo di fronte è quello di fare effettivamente corrispondere alle aspettative un vero spostamento di poteri dal centro

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alla periferia. Questo è il punto vero che abbiamo di fronte. Sento di dover sottolineare in proposito un'esigenza: attenzione, lo spostamento di poteri dal centro alla periferia, quello che può essere chiamato federalismo o regionalismo accentuato, non ci deve far dimenticare che anche lo Stato in Italia non dico che vada ricostruito, ma che abbia certo bisogno di essere riformato e rafforzato. In questo senso - capisco che a qualche collega farà dispiacere - proporrò un emendamento perché non si usi questa dizione, per cui la Repubblica si riparte in regioni, province, comuni e Stato; francamente, è un incongruità. Credo che sia una sottovalutazione del tema dello Stato che, francamente, penso sarebbe estremamente negativa e foriera anche di altre confusioni. Su questo tema poi, su alcuni punti, vi sono emendamenti importanti.
Però, proprio perché credo a un decentramento vero di poteri dal centro alla periferia, mi sentirei di proporre due ulteriori passi avanti. Il primo è il seguente. Se eleggiamo direttamente il Presidente della Repubblica, se eleggiamo direttamente il sindaco, perché il povero presidente della regione deve essere soltanto il primo di un listino? Credo che effettivamente occorra una certa omogeneità. Mi permetterei di sottoporre, per coerenza di sistema, questa esigenza di omogeneità, proprio dal punto di vista di chi, come me, poi rivendicherà anche allo Stato talune posizioni. Proprio perché ritengo che lo Stato vada ricostruito, mi sentirei comunque di dire che ci vuole coerenza in questa direzione.
Così pure mi permetterò di sottoporre alla discussione un punto forse anche più avanzato, almeno a mio parere, rispetto a quell'accordo fra regioni e comuni di cui giustamente il presidente si è fatto portatore, perché credo che si debba effettivamente prendere atto di come le città metropolitane, per le loro dimensioni e per la loro capacità di autogoverno, abbiano caratteristiche che devono trovare una loro autonomia anche rispetto alle stesse regioni; devono avere una sottolineatura particolare.
Sono tutti aspetti sui quali credo che il dibattito nel paese sia molto aperto e molto importante.
Per quanto attiene al riverbero nazionale di questo spostamento di poteri che dobbiamo realizzare dal centro alla periferia, vale a dire la nuova funzione del Senato, sono francamente del parere che non si debbano fare pasticci, ma che si possa effettivamente eleggere il Senato su base regionale, in maniera molto trasparente e molto franca, senza sistemi mezzi diretti e mezzi indiretti, dando invece nettamente la possibilità a questa classe dirigente regionale e comunale di adire a questo tipo di elezioni e in esse di poter essere rappresentativa delle proprie realtà.
Direi che una sistemazione organica di questi punti farebbe acquistare anche carattere persuasivo al nostro impianto e al nostro disegno. Devo dire anche che il fatto che si comincino a vedere queste convergenze di enti diversi, come regioni e comuni, smentisce una serie di impostazioni della vigilia, secondo cui vi sarebbe stata la rivolta dei sindaci, questa o quell'altra incomprensione. Mi sembra che il terreno di dialogo del lavoro della bicamerale si sia effettivamente impiantato e stia andando avanti positivamente.
Capisco che sia diventato estremamente scottante il nodo della giustizia, sul quale peraltro mi sento piuttosto in sintonia con il mio gruppo parlamentare, anche per un ragionamento molto evidente. Se i pubblici ministeri sono magistrati, allora certamente parlare di separazione di carriere non ha senso. Avrebbe senso in un altro sistema, quello che anche la lega ci aveva proposto: l'elezione del procuratore, dell'avvocato dell'accusa, come avviene negli Stati Uniti. Allora sarebbe stato un discorso diverso, ma se lo consideriamo tuttora magistrato, dobbiamo pensare a separazioni di funzioni, ma non di carriere. Non regge un discorso di questo genere.
Piuttosto, mi sentirei di condividere un accento che è risuonato in parte anche nell'intervento dell'onorevole Pisapia e cioè un certo timore per la sorte della

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Corte costituzionale. È vero che si parte da buone intenzioni, ma in questo modo si rovescia sulla Corte costituzionale una tale massa imponente di compiti nuovi - pur naturalmente aumentando il numero dei giudici e delle sezioni - che sorge il dubbio: ma questo - che è stato ormai ricondotto ad un'efficienza di funzionamento, ad una speditezza di funzionamento, alla capacità di affrontare i suoi compiti in maniera tempestiva - è un organismo a cui teniamo? Anche qui non vorrei far risuonare le parole di Calamandrei. La Corte costituzionale è un organismo di grande garanzia, a cui teniamo molto. Non è che forse con questo testo lo stiamo caricando di compiti talmente eccessivi che poi diventa un organismo scarsamente funzionante? In questo dibattito di carattere generale vorrei effettivamente invitare ad un ripensamento, ad una considerazione di questo aspetto, proprio perché certamente l'idea non è quella di attutire le garanzie di carattere costituzionale, ma al contrario di aumentarle. Ma temo che oggettivamente tutta una serie di compiti addizionali possa effettivamente bloccare un meccanismo che si è dimostrato piuttosto funzionante.
Si comprende, da queste notazioni, come esista un ampio margine di confronto e di discussione sui temi che hanno costituito oggetto di attenzione della bicamerale. La conclusione alla quale deve pervenire il dibattito consisterà tuttavia nello stabilire se questo impianto si presenti come sufficientemente solido e se lo stesso sia convincente al fine di poter intervenire con modifiche, riforme, emendamenti.
Io credo che l'impianto esista e credo anche che sarebbe sbagliato non comprendere come quello attuale - spero che questa situazione possa continuare anche in futuro - sia un momento politico tranquillo, tale cioè da consentire di svolgere il lavoro riformatore cui si accinge questo Parlamento senza assilli o problemi legati a crisi di Governo o ad altri fattori. Tale situazione non deve essere considerata in un'ottica che, proprio per l'assenza di problemi istituzionali, potrebbe indurre a ritenere che non sia necessario procedere alle riforme. Il ragionamento, invece, va impostato in senso contrario: proprio perché in questo momento non viviamo drammi di carattere istituzionale, si tratta della fase giusta per poter lavorare alle riforme. Del resto, non vi è chi non veda come chi cerchi di sostenere che non si sarebbe partorita alcuna novità e, magari, fino a poco tempo fa presagiva che l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, sia pure in regime semipresidenzialista, avrebbe provocato una sorta di crollo del sistema politico o, perlomeno, della maggioranza di Governo, non possa oggi sostenere che non vi sono state capacità ed iniziative di riforma.
Credo, anzi, che nel contesto che si va definendo possa emergere una classe politica capace di accettare la sfida del bipolarismo, da una parte e dall'altra, una classe politica che si matura in questo confronto, che accetta la sfida di un'Italia che, dopo la caduta del muro di Berlino, deve diventare un paese capace di alternanza politica, un paese capace di andare in Europa.
È vero ed è giusto ciò che veniva notato da varie parti: in qualche modo, lo stesso successo della partecipazione alla moneta unica europea comporterà una nostra capacità di presenza che deve essere all'altezza della vicenda politica. Diciamo la verità: tuttora siamo sospettati di avere strutture politiche che un domani potrebbero essere vulnerabili o comunque instabili. Credo quindi che una risposta importante e positiva anche sul piano della stabilità politica e dell'efficienze delle istituzioni possa rappresentare un grande punto di appoggio per un'Italia che si presenta al concerto europeo nel tentativo, non certo facile, di dimostrare che in Europa non ci sono soltanto tre nazioni grandi ed importanti (Gran Bretagna, Francia e Germania) ma che in qualche modo il nostro paese, così come è avvenuto con il G7, può essere considerato alla pari.
Mentre lamento alcune carenze di carattere istituzionale, non mi sento esentato

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da comportamenti politici coerenti. Sono favorevole al doppio turno di collegio e sono anche dell'idea di affrontare il tema della frammentazione. In tale prospettiva, tuttavia, non aspetto semplicemente la riforma istituzionale; credo, infatti, che anche fatti politici, quale quello che andremo a celebrare con la nascita di un nuovo soggetto della sinistra italiana, un nuovo e più unitario soggetto capace di coagulare effettivamente diverse tradizioni, rappresentino la volontà di tradurre in pratica determinati orientamenti. E vorrei anche chiedermi francamente: all'interno della mia area, del mondo socialista, sono più coerente io con l'indicazione di grande riforma del partito socialista italiano nel momento in cui chiedo il doppio turno di collegio o è più coerente chi cerca il riparo del proporzionalismo puro ed esasperato? Effettivamente, temo di essere più coerente io con il taglio di grande riforma che ha caratterizzato, nel suo senso buono e positivo, l'elaborazione del partito socialista italiano, dalle conferenze programmatiche di Rimini al progetto di Torino, fino agli altri tentativi, che non hanno avuto uno sviluppo coerente e definitivo, di dare al paese un momento di grande riforma di carattere istituzionale ed amministrativo.
Oggi abbiamo questa possibilità. In questo senso condivido l'affermazione fatta dall'onorevole Fini, non oggi ma in un'altra occasione, nel momento in cui ha dichiarato: «Attenzione, chi vuole di più in realtà non vuole nulla!». Ritengo si tratti di un aspetto molto importante. Oggi - ripeto - abbiamo una possibilità sulla quale possiamo lavorare. Debbo anche dire che non è stato casuale, rispetto ad altre Commissioni bicamerali e ad altri tentativi, il fatto che questa volta alla presidenza della bicamerale si sia impegnato il leader del più grande partito italiano, il partito democratico della sinistra, Massimo D'Alema, perché evidentemente si è trattato di un elemento di messa in causa - per così dire - sia della situazione politica del suo partito e della sinistra sia di una sorta di chiamata di corresponsabilità nei confronti del resto della leadership del nostro paese.
Quindi, abbiamo molto da lavorare. Io stesso ho fatto un piccolo scampolo - nel prosieguo dell'esame del provvedimento mi soffermerò sugli emendamenti che ho presentato - dei punti da affrontare per rendere il sistema più coerente, incisivo e convincente anche nei confronti dell'opinione pubblica. Tuttavia, credo che da questo dibattito debba emergere un incitamento ad approfondire, modificare e riformare, ma non certo ad insabbiare o a fermare il cammino delle riforme. È questo il punto politico da affermare in questo dibattito che, come dicevo in precedenza, non è sottoposto al thrilling di minacce di crisi di Governo, né è condizionato dall'incitamento concreto determinato dal fatto di essere in procinto di votare emendamenti, ma che investe le linee generali. Quel che è certo è che da questo dibattito deve uscire una indicazione positiva rispetto ad un accordo. È questo il punto importante.
Cari ascoltatori di Radio radicale, in particolare, con la mia presenza e con la mia partecipazione, mi pare di aver fornito una indicazione. Insieme con gli altri deputati laburisti, abbiamo sparigliato: siamo semipresidenzialisti ma non per questo siamo critici nei confronti dei giudici. Sembra, infatti, che per qualcuno essere semipresidenzialista dovrebbe essere accoppiato con il fatto di essere a favore della separazione delle carriere. Quindi, siamo certamente semipresidenzialisti ma siamo anche capaci di vivere fino in fondo l'esigenza di spostamento del potere verso la periferia, che oggi effettivamente si impone e che ha un riverbero di carattere nazionale.
Quindi, abbiamo un po' sparigliato le posizioni, però questo è coerente con un filone politico e ideologico che parte da lontano. Non a caso spesso in quest'aula è risuonato il nome di Piero Calamandrei, il quale peraltro, pur minoritario alla Costituente, poi difese quella Costituzione, che pure egli avrebbe voluto in qualche

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caso diversa, perché si rese conto del messaggio e del valore politico che tale Costituzione portava avanti.
In qualche modo abbiamo cercato di far risuonare questo filone, queste proposte programmatiche e questi accenti. Certo, capisco che magari qualcuno all'esterno del Parlamento, della nostra parte politica, possa avere l'impressione che noi qui non stiamo facendo nulla, ma le cose non stanno così: noi stiamo facendo qualche cosa. Con tutto il rispetto per tanti professori esterni, devo dire che ci siamo battuti e abbiamo ottenuto anche dei risultati importanti e positivi.
Ecco perché ho fatto questo intervento, preannunciando l'intenzione di apportare alcune modifiche. Ma voglio dire che trovo importante e positivo, e lo saluto con favore, il fatto che la sinistra democratica abbia accettato la sfida delle riforme istituzionali, non l'abbia considerata terreno degli altri, ma abbia su ciò cavalcato un processo di riforma importante per il nostro paese (Applausi dei deputati dei gruppi della sinistra democratica-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marzano. Ne ha facoltà.

ANTONIO MARZANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sembra assodato che gli elettori non seguono con molto interesse - qualcuno parla di indifferenza - il dibattito sulle riforme costituzionali. È anche un dato di fatto che i cittadini italiani sentano lo Stato lontano da loro. Molti addirittura lo avvertono come una entità ostile e non sono pochi quelli che chiedono di separarsi da questo Stato.
È chiaro allora che fra questo sentimento dei cittadini e la necessità di riformare lo Stato vi è un rapporto di causalità assai stretto: bisogna riformare lo Stato proprio perché i cittadini lo sentono inefficiente, ostile e ingiusto.
Se dunque gli italiani si mostrano disinteressati al dibattito sulle riforme, vuol dire che essi sono scettici non sull'importanza, ma sul risultato che avrà il nostro dibattito. Ciò può solo accrescere il nostro impegno nel condurre a termine riforme sapienti e lungimiranti. Infatti, non possiamo deludere ancora una volta i nostri concittadini, anzi sarebbe pericoloso.
Se quello che ho detto è vero, dovrebbe essere anche chiaro in quale direzione dovrebbero muoversi le riforme. Esse dovrebbero proporsi di far sentire i cittadini più protagonisti del funzionamento dello Stato, più partecipi, più al centro dello Stato. Occorre a questo fine un nuovo patto fra lo Stato e i cittadini. Questi si sentiranno più protagonisti del funzionamento dello Stato se introdurremo riforme nel senso del presidenzialismo, del federalismo e del mercato.
Questa è la triangolazione al centro della quale noi vorremmo fosse il cittadino per rafforzare il ruolo dell'individuo e, quindi, della collettività nelle scelte, negli indirizzi, nei risultati che assieme fanno il destino di un paese.
Non ci vuole molto a comprendere come il presidenzialismo, quello vero, basato com'è sull'elezione diretta del Capo dello Stato e sull'assegnazione al medesimo di poteri significativi, renda gli elettori più direttamente responsabili della conduzione del paese e li faccia sentire più protagonisti delle sue sorti. Inoltre il sistema di tipo presidenziale tende anche ad evitare che si verifichi la possibilità di maggioranze di Governo diverse da quelle votate dai cittadini, com'è accaduto in quella pagina così poco decente della nostra storia, denominata infatti con il nome spregiativo di «ribaltone». Nel senso di rafforzare il ruolo partecipativo del cittadino alla cosa pubblica opera anche il federalismo. I bisogni locali non sono i medesimi in tutti i punti del paese; d'altronde, il controllo dei cittadini sulle istituzioni è più diretto ed efficace quando il potere è federale.
Infine le istituzioni federali sono cariche di una maggiore responsabilità, potendo scaricare di meno le colpe di un'inefficienza sulle spalle dello Stato centrale. Sto qui parlando di un federalismo serio, non nominalistico, un federalismo


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capace di porre rimedio al gigantismo burocratico, alle lentezze e ai ritardi, alle distrazioni verso gli operatori minori, alla tentazione di rinfocolare la cultura della dipendenza e della sudditanza. E finalmente è da ridare spazio - grande e prevalente - al mercato e cioè all'istituzione che pone, più di ogni altra, l'individuo al centro del funzionamento dell'economia.
La cultura ostile al mercato, che si formò attorno agli anni venti e trenta, ha fatto ormai il suo tempo. Oggi non siamo più una minoranza a sostenere che il fallimento è quello dello Stato e non, come si diceva allora, quello del mercato. Gli operatori del mercato hanno informazioni migliori di quanto possa avere un burocrate circa i bisogni della gente e circa le soluzioni migliori per quei bisogni. Il mercato è il sistema migliore per incentivare l'efficienza e per sanzionare l'inefficienza; il mercato è l'ordinamento migliore per promuovere la formazione della ricchezza e, attraverso questa, per provvedere a maggiori risorse per gli usi sociali.
Il problema dunque oggi non è quello di limitare l'iniziativa individuale, come mostrano ancora di pensare quanti si adoperano in questo nostro paese alla proliferazione, per esempio, delle authority, che sono ormai dodici; il problema è, invece, quello di limitare l'intervento dello Stato che ovviamente è tanto più pericoloso in quanto in grado, virtualmente, di essere esercitato con la forza del potere. Limiti dunque sono necessari al livello della leva fiscale, alla metastasi del debito pubblico, all'eccesso di regolamentazione, alla produzione di leggi che comportano costi a carico della collettività, alla tassazione del patrimonio, alle sentenze, quando onerose, della Corte costituzionale.
Opportuno è un precetto costituzionale che limiti la proprietà pubblica delle imprese ed espressione di civiltà è la garanzia di autonomia della banca centrale, in modo da evitare l'imposta surrettizia rappresentata dall'inflazione. Più in generale occorre affermare con forza e senza equivoci il principio della sussidiarietà e della concorrenza: faccia lo Stato solo quanto il cittadino ed il mercato non sono in grado di fare ed il mercato faccia in condizioni di concorrenza. Ma non si può riuscire a restituire lo Stato ai nostri cittadini se non si affronta, con animo sgombro da interessi vili di partito, il problema della garanzia dei cittadini di fronte alle questioni di giustizia. Il discrimine tra diritto di cittadinanza e condizione di sudditanza riposa soprattutto sull'esistenza di queste garanzie. E sono sicuro che nessuno vorrà negare, almeno in cuor suo, che oggi in questo paese tale problema assume rilievi persino drammatici.
Dunque, presidenzialismo, federalismo, giustizia e libertà economiche sono i temi irrinunciabili per noi di forza Italia in questa fase tra le più delicate del ciclo politico.
A ben guardare, dalle soluzioni che sapremo dare a queste quattro domande dipende l'esistenza stessa della democrazia nel futuro dell'Italia. Infatti, cari colleghi, che democrazia può essere quella in cui il cittadino non si senta realmente partecipe del funzionamento dello Stato e della società civile, o addirittura senta lo Stato come un'entità nemica (Applausi)?

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole La Russa, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto parlare l'onorevole Oreste Rossi. Ne ha facoltà.

ORESTE ROSSI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, «bisogna contrapporre la federazione alla fusione e non all'unità. Un patto tra popoli liberi è la sola via che può avviare alla concordia ed all'unità, ma ogni fusione conduce al divorzio, all'odio.
Il federalismo è la teorica della libertà, l'unica possibile teorica della libertà»: Carlo Cattaneo, in Stati Uniti d'Italia. «La nuova Europa non dovrà essere quella dei grandi centralismi che piacciono ai re di denari, ai capitalisti delle grandi famiglie d'Europa, che costituiscono un occulto ed antidemocratico oligopolio di Governo. La


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nuova Europa, secondo la lega, dovrà essere una federazione di popoli liberi, tutelati da fonti istituzionali regionali, titolari della sovranità originaria»: Umberto Bossi, in Vento del nord.
Nel libro della storia si è aperto un nuovo capitolo; le catene del centralismo sono sul punto di spezzarsi; l'Idra della democrazia cerca di impietrirci, ma noi continueremo la nostra corsa: il traguardo si chiama Stati Uniti d'Italia, federazione dei popoli d'Europa. Non sono utopie, anche se i truffatori del regime cercheranno di farcelo credere, ma dobbiamo prepararci a combattere perché le rivoluzioni non sono mai un regalo. La libertà, l'indipendenza e la pace costano care.
La fame ed il sottosviluppo, l'oppressione e le guerre, le armi atomiche di grande potenza, la droga, le forme multiple di manipolazione e di alienazione dell'uomo, l'insicurezza, il disordine e la repressione politica non sono le cause ma le conseguenze di una crisi profonda e globale della nostra civiltà. Le nostre strutture politiche, economiche, sociali e culturali, conquistate per la maggioranza nei secoli precedenti, non sono più adatte alla nostra civiltà, segnata da uno sviluppo estremamente rapido delle tecniche. Di conseguenza, queste strutture sclerotizzate non sono più adatte a risolvere i problemi fondamentali del mondo d'oggi. Da qui la messa in stato d'accusa del nostro sistema di valori.
La nostra società è dominata da organizzazioni di massa, oltre che da imprese giganti e da enormi apparati amministrativi del settore pubblico e terziario: i sindacati e i partiti politici e infine gli Stati nazione stessi. In queste grandi organizzazioni di massa l'uomo, sradicato e degradato al rango di oggetto, diviene la prova delle manipolazioni multiple, come la propaganda pubblicitaria e la pubblicità. La produzione per la crescita e il solo profitto, le concentrazioni di un potere incontrollato nel demanio politico, economico e culturale caratterizzano la nostra società, dove l'uomo ormai impotente non influenza più il suo destino.
Mentre sul piano internazionale la società è paralizzata dalle sovranità statuali, essa tende, a livello nazionale, a decomporsi sotto l'azione dei gruppi e delle organizzazioni di massa che si affrontano sempre più violentemente. La conseguenza è la crescita smisurata del potere dello Stato che per il suo apparato burocratico, la sua polizia e il suo esercito sembra essere il solo destinato ad assicurare la sopravvivenza della società ed a risolvere i suoi conflitti. Abbiamo visto gli allevatori e gli agricoltori manganellati dalla polizia di Stato.
Come ci insegna la storia dell'Egitto, della Grecia o della Roma antica, è lo statalismo democratico che costituisce sempre l'ultima fase di una crisi di civiltà. Più ancora che per gli esempi storici, la crisi della società contemporanea è caratterizzata da una penetrazione sempre più profonda della tecnica in tutti i paesi e in tutti i campi. Ne consegue questa crisi oggi globale e sottoposta ad accelerazione crescente. Essa colpisce altrettanto bene sia le democrazie occidentali, con il loro capitalismo privato, sia i paesi socialisti e il loro capitalismo di Stato. Al limite i due sistemi possono, attraverso riforme interne, prolungare la loro esistenza; questa sopravvivenza non apporta una risposta valida e globale alla sfida che ci lancia la storia.
Sono quattro i principi fondamentali del federalismo: l'autonomia, la cooperazione, la sussidiarietà e la partecipazione. Gli Stati membri di uno Stato federale sono autonomi, devono essere autonomi. La democratizzazione delle grandi organizzazioni di massa necessita l'autonomia dei loro gruppi costituenti a tutti i livelli. In una struttura centralizzata i motivi e le elaborazioni delle decisioni restano oscuri per coloro che ne subiscono le conseguenze. L'influenza della base si limita, nel migliore dei casi, all'elezione dei suoi rappresentanti ai quali affida un mandato in bianco.
Il centralismo conosce una sola responsabilità, quella del vertice. Tutti quelli che non vi si trovano sono giudicati incapaci di decidere: essi non hanno altro

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da fare che eseguire ciecamente gli ordini provenienti dall'alto. Alla fine dei conti il centralismo è fondato sul disprezzo dell'uomo e sulla diffidenza nei suoi riguardi. Provoca anche ciò che dovrebbe evitare: la corruzione e l'inefficienza. Inoltre il centralismo è sorgente permanente di disordine e di repressione.
L'applicazione generalizzata dei principi di autonomia raggiunge risultati contrari; l'autonomia dei comuni e delle regioni, dei laboratori nell'impresa, dei gruppi di base, dei sindacati, dei movimenti politici, dà a queste comunità la possibilità di affermarsi, di dotarsi di statuti e di istituzioni proprie, di disporre di sufficiente potere e di mezzi finanziari per governarsi da sole. L'autonomia permette che un gran numero di decisioni importanti siano prese ad un livello più vicino all'uomo, in modo trasparente: permette una vera responsabilità ed una partecipazione attiva.
In un vero Stato federale le relazioni tra Stati membri ed alcuni dei loro rapporti con il livello federale sono regolamentati dal principio di cooperazione. Il federalismo integrale fa della cooperazione contrattuale, della libera associazione dei gruppi autonomi un principio generale di dominio politico, economico e sociale. Senza di esse una società di gruppi autonomi resterà anarchica e atomizzata.
Il federalismo tende verso un'uguaglianza di diritto dei gruppi componenti e verso l'equilibrio dei loro interessi.
Nello Stato federale il potere è distribuito tra la federazione degli Stati membri, almeno teoricamente, secondo il principio di esatto adeguamento: il potere deve situarsi là dove i problemi si pongono. Inoltre il potere federale deve rispettare le autonomie dei poteri componenti. Esso interviene come potere sussidiario solo nel caso in cui un problema sorpassi il grado di competenza dei piani inferiori. Contrariamente al centralismo e al particolarismo atomistico, l'applicazione integrale del principio dell'esatto adeguamento porta ad una ripartizione dei poteri politici, economici, sociali e culturali secondo i bisogni e le esigenze reali. Così l'organizzazione della società globale diventa più trasparente, più efficace e più democratica.
Nello Stato federale non solo i rappresentanti del popolo federale, ma anche le collettività componenti partecipano alla legislazione. Il federalismo integrale moltiplica e generalizza questo principio di partecipazione applicandolo ad ogni organizzazione, istituzione o gruppo sociale. Praticamente assente nelle democrazie popolari, la partecipazione politica si limita nelle democrazie occidentali essenzialmente alle libere elezioni. Votando scelgono una politica globale senza poterla modulare, fino alle elezioni seguenti essi danno carta bianca ai loro eletti.
Le strutture rigide e centralizzate dei partiti non si prestano ad una vera partecipazione; nei campi non politici esistono qua e là elezioni di rappresentanti e timidi tentativi di partecipazione, ma questi campi sono fortemente separati da quello politico.
L'uomo non è solamente un cittadino, è anche padre di famiglia, operaio o commerciante, sindacalista o membro di un'associazione professionale; ha delle attività culturali e può appartenere ad una comunità religiosa; è in ogni caso consumatore, affittuario o proprietario di un appartamento.
Il federalismo integrale parte da questa pluriappartenenza dell'uomo e dal pluralismo sociale che ne deriva, rendendoli democratici. Se i diversi gruppi e organizzazioni nelle quali l'uomo appartiene sono democraticamente costituite, se hanno la possibilità di partecipare all'equilibrio e prendono le decisioni che li riguardano, si arriva - ma solo in questi casi - all'ideale democratico.
Nel corso della presente legislatura il dibattito sulle riforme istituzionali ha avuto inizio con la discussione parlamentare di mozioni presentate da tutte le forze politiche. Il gruppo della lega nord ha presentato le mozioni Comino ed altri e Speroni ed altri che, entrambe - alla

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faccia della democrazia di questo Stato, - non sono state neanche messe in votazione.
La legge costituzionale del 24 gennaio 1997, entrata in vigore il 29 gennaio 1997, ha istituito l'attuale Commissione bicamerale con il compito di elaborare un progetto di riforma della seconda parte della Costituzione, in particolare per trasformare il nostro paese in uno Stato federale. Purtroppo, nel testo oggi all'esame della Camera, dei principi di libertà, autonomia, indipendenza, autodeterminazione dei popoli, dei quali ho parlato, non vi è alcuna traccia.
Il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, elaborato dalla Commissione bicamerale, è stato presentato il 4 novembre 1997 e comprende modifiche riguardo alla forma di Stato, alla forma di governo, al Parlamento, alle fonti normative ed al sistema delle garanzie.
La lega nord per l'indipendenza della Padania ritiene che il testo presentato dalla Commissione bicamerale sia non solo insufficiente ma anche nettamente inadeguato. Noi chiediamo l'attribuzione ai comuni, alle regioni ed allo Stato delle funzioni amministrative e finanziarie per le materie di loro competenza; l'introduzione del principio di autodeterminazione dei popoli mediante referendum propositivo nel rispetto del principio di sussidiarietà; l'attribuzione allo Stato della competenza legislativa solo in materia di politica estera, giustizia, sicurezza e difesa nazionale. Ogni altra materia deve essere attribuita a comuni, province e regioni, che possono delegarle allo Stato, e non viceversa. Chiediamo inoltre piena attribuzione ai comuni e, in alternativa, agli enti territoriali, della potestà impositiva e del prelievo fiscale; l'introduzione del principio secondo il quale la percentuale massima della pressione fiscale non possa superare la media europea.
Per quanto riguarda la forma di governo, la lega chiede l'elezione del Presidente della Repubblica da parte della Camera dei deputati e del Senato delle regioni, e che il Governo sia di nomina parlamentare. Per quanto concerne il Parlamento, nel testo non vi è alcuna previsione di tipo federalista, in quanto permane il medesimo impianto generale della funzione legislativa, nonostante le iniziali intenzioni relativamente alla Camera delle regioni. Ciò conferma la mancanza di un reale spirito riformistico e la volontà di procedere soltanto alla modifica della legge elettorale.
La lega chiede l'abolizione del bicameralismo perfetto e la divisione del Parlamento in Camera dei deputati e Senato delle regioni, il mantenimento di 400 deputati e l'elezione dei senatori su base regionale con leggi regionali; in alternativa, chiediamo che il Senato sia composto da rappresentanti diretti delle regioni.
Per quanto riguarda il sistema delle garanzie, peggio che mai! La lega ritiene che manchi completamente per il cittadino qualsiasi possibilità di controllo e valutazione sull'attività della magistratura. Anche in questo caso, tutte le iniziative di riforma tendenti a garantire trasparenza, controllo e professionalità dell'attività giurisdizionale, sono via via venute meno, sia per l'attività intimidatoria svolta dalla maggioranza, sia per la mancanza di coraggio politico nel riformare il sistema. Anche in tale materia la lega aveva ed ha le sue proposte: elezione diretta del pubblico ministero secondo il collegio di appartenenza e divieto di trasferimento da una carriera all'altra; separazione della carriera giudicante da quella inquirente; non obbligatorietà dell'azione penale; soppressione dei TAR, Corte dei conti e Consiglio di Stato e conseguente passaggio delle competenze agli organi della giustizia ordinaria.
La lega aveva chiesto chiaramente che a cambiare la Costituzione fosse un'assemblea costituente eletta con il sistema proporzionale; un organo che, nel tempo, avrebbe potuto formulare riforme serie. Invece, abbiamo in mano un testo che non ha previsto ciò che si desiderava e si sperava.
La lega nord per l'indipendenza della Padania è fortemente contraria, proprio per i motivi che ho indicato, al testo oggi

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in esame, che non rispetta minimamente il diritto all'autodeterminazione dei popoli, all'indipendenza e - perché no - alla secessione. Noi riteniamo che sia diritto di un popolo anche quello di chiedere la secessione, forse come ultima possibilità; tuttavia, il diritto a chiedere la secessione dovrebbe essere garantito in ogni Stato democratico (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Li Calzi. Ne ha facoltà.

MARIANNA LI CALZI. Presidente, il disegno di riscrittura dell'intera parte seconda della Costituzione repubblicana riflette la ricerca della sintesi alta tra culture e tendenze ideali diverse, presenti e forti nella nostra società civile e quindi nel nostro Parlamento. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Sebbene il Parlamento si sia proposto di rivedere solamente la parte ordinamentale della Costituzione, lasciando invariata la parte dei principi fondamentali, è evidente che si tratta di comporre un quadro dal quale nessuna area culturale e politica possa sentirsi esclusa.
Il presidente della Commissione bicamerale, nel dar conto dell'arduo lavoro svolto, del quale siamo sinceramente grati, ha opportunamente sottolineato come il nostro paese sia forse l'unica tra le grandi democrazie a tentare, nell'ultimo cinquantennio, una complessiva riscrittura della Carta delle regole fondamentali; una riformulazione che non origina da avvenimenti epocali, ma da un'esigenza di aggiornamento resa stringente dalle disfunzioni da tempo denunciate negli articolati e delicati meccanismi istituzionali. Tuttavia, ogni sistema istituzionale, proprio in ragione della sua complessità e della necessità di durare nel tempo, deve avere un'intima coerenza, altrimenti si corre il rischio di ipotizzare una costruzione dalle fondamenta instabili, perché le diverse parti che la compongono non sono legate tra di loro da un unico disegno razionale.
Se, dunque, l'impegno di composizione non merita ingiustificate condanne ed è anzi degno di apprezzamento, l'ulteriore elaborazione del Parlamento per ricondurre a migliore organicità le proposte presentate dalla Commissione bicamerale, non contraddice il metodo fin qui seguito e ne segna, al contrario, il loro logico sviluppo.
Lo stesso presidente della Commissione bicamerale e gli stessi relatori delle quattro sezioni di cui si compone la riscritta parte seconda della Costituzione hanno riconosciuto i vantaggi che possono venire da questo aggiuntivo confronto, quando hanno dichiarato di non considerare l'elaborazione presentata come esaustiva.
Questo approccio al lavoro costituente dell'Assemblea è facilitato anche dal responsabile atteggiamento dei partiti che hanno detto di non volere vincolare i parlamentari sulla base di pregiudiziali di schieramento o di coalizione, mostrando concretamente di volere fare il tante volte annunciato passo indietro.
Resta allora nella responsabilità dell'Assemblea porsi di fronte ai testi proposti dalla Commissione bicamerale, avendo precisa cognizione delle opportunità che, nel confronto, sono offerte per migliorare la coerenza delle norme con i principi ispiratori, ma avendo altrettanta consapevolezza dei limiti entro i quali siamo chiamati ad operare, se non si vogliono annullare i risultati fin qui raggiunti.
Tra gli esiti conseguiti che noi di rinnovamento italiano consideriamo positivi, c'è la scelta in favore del semipresidenzialismo. La preferenza per il sistema semipresidenzialista costituisce per rinnovamento italiano un impegno programmatico forte, assunto davanti al corpo elettorale. Questo approdo ci sembra importante perché il semipresidenzialismo - ne siamo certi - segnerà il punto di svolta nella condizione della nostra democrazia. Ci sembrano perciò mal poste le polemiche retrospettive, alla pari delle rivendicazioni di merito retrodatate su questa forma di Governo.
Nella nostra visione, anche nelle moderne democrazie il Parlamento mantiene una funzione essenziale in un sistema


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fondato sulle libertà. La nuova agorà che, i mezzi di comunicazione di massa sembrerebbero rendere possibile, rappresenta un'illusione ed un rischio. Troppo forte ed insidiosa è infatti la possibilità di un'ampia manipolazione del consenso per non far temere uno scivolamento verso forme di moderno plebiscitarismo.
Tuttavia, incentrare il sistema democratico sul Parlamento non può comportare che esso debba esorbitare dai suoi compiti, assumendo su di sé funzioni improprie di Governo.
Si tratta allora di pervenire ad un nuovo equilibrio tra i poteri, tenendo conto della imprescindibilità del controllo democratico, ma anche della tempestività e dell'efficacia delle azioni di Governo. Se un nuovo, corretto equilibrio tra i poteri è l'obiettivo che si deve conseguire con il semipresidenzialismo, l'incompiuta forma con la quale esso viene delineato nella proposta elaborata dalla Commissione bicamerale ci appare come un rischio.
L'onorevole Armando Cossutta, nella sua relazione di minoranza, ha denunciato con grande lucidità i pericoli reali che si corrono nel dar corpo ad un semipresidenzialismo imperfetto e zoppo. Né ci può far velo, nella condivisione di questa analisi di rifondazione comunista, la sua dichiarata ostilità all'impianto della riforma.
Non è infatti dubbio che, allo stato delle cose, nella formulazione della Commissione bicamerale si profili un sistema dualistico, potenzialmente diarchico.
Conosciamo ovviamente il percorso politico che ha condotto la Commissione bicamerale a questa scelta. Sappiamo dello strumentalismo del voto della lega, ma se la scelta della Commissione bicamerale è stata quella di onorare quel voto, il senso dello Stato e la lealtà politica ora esigono conseguenzialità e chiedono che sia evitato lo svuotamento del semipresidenzialismo.
Gli emendamenti che rinnovamento italiano aveva presentato in Commissione ed ha ripresentato in aula sono coerentemente indirizzati a rafforzare i poteri del Presidente della Repubblica.
Sulla forma di Stato, e cioè sul suo assetto federale, è stato lo stesso relatore, senatore Francesco D'Onofrio, a prospettare la problematicità dell'elaborazione cui si è pervenuti.
Se è corretto sostenere che non possiamo parlare di processo federalistico, che storicamente riguarda entità statali che cedono quote più o meno significative della propria sovranità ad un soggetto terzo, le difficoltà lessicali, di definizione della nuova forma di Stato che viene prospettata non possono essere paralizzanti.
Se l'espressione «regionalismo di alto profilo» o «forte» non piace, perché sembra concedere poco alle istanze dell'opinione pubblica delle regioni del nord, si parli pure di «assetto tendenzialmente federale» dello Stato, purché sia chiaro che si tratta di applicare il principio di sussidiarietà in verticale, cioè tra periferia e centro, individuando con precisione nella Carta le competenze statuali in modo che tutte le altre siano nell'ambito dei poteri dei soggetti regionali.
Al riguardo, le scelte già operate non sembrano tutte coerenti e richiedono un attento riesame nell'una e nell'altra direzione.
Quanto all'applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale tra pubblico e privato, è stato lo stesso relatore D'Onofrio a dire che esso non ha trovato i necessari consensi per essere accolto nella Carta fondamentale della Repubblica. Anche questa omissione appare non di poco conto.
Non si tratta di rendere un formale omaggio ai principi del liberalismo, che è tornato di moda. Così come non si tratta di contraddire la visione solidaristica della parte prima della Costituzione. Si tratta, piuttosto, di prendere atto dei termini in cui si pone oggi l'intervento dello Stato nell'economia e nel vasto campo del sociale, recuperando, culturalmente, anche significative componenti del pensiero liberal-socialista e cattolico.

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Il relatore D'Onofrio ha anche evidenziato un altro nodo irrisolto: quello dei cinque statuti regionali speciali, in atto costituzionalizzati.
Ritengo che il problema si ponga in termini più stringenti per lo statuto della regione siciliana, che è spinto fino ad una vera e propria forma di federalismo, ad esempio, con le competenze attribuite al presidente della regione in materia di ordine pubblico. È pur vero che si tratta di norme mai attuate, ma è anche vero che esse fanno parte, tuttora, integrante della Costituzione.
Dalla scelta della forma di governo e dell'assetto dello Stato e dalla nascita dei parlamenti regionali discende la risistemazione della rappresentanza.
La diversificazione delle competenze tra la Camera dei deputati ed il Senato delle regioni, coordinata alla nascita dei parlamenti regionali, si impone senz'altro.
Una riflessione più approfondita richiederebbe la riduzione del numero dei parlamentari.
Su di un altro aspetto l'elaborazione della Commissione bicamerale non sembra compiuta. Si tratta delle procedure di ratifica dei trattati internazionali, aspetto che si pone in termini nuovi nel mutato scenario delle relazioni internazionali e della partecipazione del nostro paese all'Unione europea e che è affatto inedito rispetto alla Carta del 1948.
Nel secondo dopoguerra la rete dei rapporti fra gli Stati si è enormemente allargata ed infittita. A tale evoluzione quantitativa e qualitativa delle relazioni internazionali non ha corrisposto l'adeguamento degli strumenti e delle procedure previste dalla Costituzione per assicurare la tempestività della partecipazione dell'Italia sulla scena internazionale.
Nel diritto internazionale lo sfasamento dei tempi tra la firma dei trattati e la loro ratifica nell'ordinamento interno degli stati è stato colmato con la Convenzione di Vienna, che prevede la stipulazione dei trattati in forma semplificata, idonea cioè a vincolare gli Stati contraenti fin dalla data della firma e contempla, inoltre, l'applicazione provvisoria dei trattati nelle more della loro ratifica.
La sistemazione che la materia ha trovato nell'articolato della Commissione bicamerale appare contraddittoria per l'una parte, lacunosa per l'altra.
Per quanto riguarda la partecipazione dell'Italia all'Unione europea, la nuova parte seconda della Carta introduce il titolo VI, ad essa espressamente dedicato. Si tratta di una innovazione molto importante, e non soltanto per una questione di principio, in quanto riafferma solennemente la volontà del nostro paese di costruire una piena unione continentale.
Ma se non si vuole che questa adesione dell'Italia all'Europa somigli ad un manifesto di intenti, il ricorso alla procedura di ratifica cosiddetta «rinforzata» per i trattati che comportano limitazioni di sovranità, adottata nell'articolato proposto dalla Commissione bicamerale, si presta ad una interpretazione troppo estensiva e, dunque, in controtendenza con il tradizionale maggior favore dell'Italia per la costruzione europea.
Altrettanto in controtendenza con la dichiarata volontà italiana di sostenere il processo di integrazione europea appare la norma che richiede il parere preventivo del nostro Parlamento per le nomine negli organi delle istituzioni dell'Unione europea.
Sulla giustizia, il relatore, onorevole Boato, non ha taciuto delle intense polemiche sollevatesi sulle soluzioni individuate. Anzi, proprio il tema della giustizia ha rischiato e tuttora rischia di essere il nodo più aggrovigliato.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 20,25)

MARIANNA LI CALZI. A ben vedere, le politiche della giustizia dovrebbero essere il più improprio dei terreni sui quali combattere un acerrimo scontro politico.
Nello Stato di diritto la giustizia è uno degli essenziali servizi da rendere ai cittadini e dovrebbe richiamare l'attenzione


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vigile, il concorde concorso della cultura politica, di quella giuridica, di quella civile in forza di grandi e forti principi condivisi. Se così non accade nel nostro paese, e soprattutto negli anni a venire, ciò deve essere motivo di grande allarme, perché vuol dire che il servizio giustizia verte in una gravissima crisi e che, perciò, uno dei pilastri su cui si regge la convivenza civile è minato e rischia di travolgere tutto e tutti nel suo crollo.
A questo stato di cose si è giunti per responsabilità diverse, perché da decenni alla giustizia sono state negate strutture e mezzi indispensabili e perché la protervia dei poteri criminali, sconosciuta almeno nella misura vista in Italia, in altri paesi democratici, ha alzato in modo intollerabile il livello dello scontro, mettendo a serissimo rischio la convivenza civile delle istituzioni democratiche.
Perché un'invasiva forma di corruzione, che ha rischiato di corrodere dall'interno tutti i pubblici apparati, ha offuscato a lungo le coscienze, fino a renderle insensibili.
La riforma della seconda parte della Costituzione repubblicana sarebbe, dunque, l'occasione per ribadire e rendere attuali i principi fondamentali da porre a base di un rinnovato edificio del servizio giustizia.
Allo stesso tempo, il Governo e il Parlamento dovrebbero proseguire nella positiva azione avviata in questa legislatura per colmare i deficit strutturali e per tradurre in leggi i principi affermati nella Carta.
Se queste sono le sincere intenzioni del confronto, non è da dubitare che il dialogo che si apre potrà essere utile ad evitare le dissonanze, a relegare ai margini gli strumentalismi, la permanente cultura emergenziale da un lato, la tendenza a «normalizzare» un potere scomodo, dall'altro.
Il relatore, onorevole Boato, ha sottolineato con grande vigore la costituzionalizzazione dei diritti dei cittadini, con particolare riferimento alle prerogative della difesa da parificare a quelle dell'accusa. Non si vede chi possa essere ostile alla solenne riaffermazione di uno dei principi cardini dello Stato di diritto. Ma sarebbe distruttivo utilizzare questo principio per contrapporre i cittadini alla magistratura o comunque ai magistrati della pubblica accusa. I magistrati, anche quelli dell'ufficio del pubblico ministero, applicano le leggi che esistono. Se queste leggi sembrano squilibrate, non compatibili con i diritti dei cittadini, deve essere il Parlamento a cambiarle, senza chiudersi al confronto, agli apporti di conoscenza che possono venire dall'esterno e, in particolare, a quelli altamente tecnici di chi le leggi è, quotidianamente, chiamato ad applicare.
Ancora più erroneo sarebbe far discendere dalla costituzionalizzazione dei diritti dei cittadini in materia di giustizia una necessitata separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti.
Questa separazione è stata, in Commissione bicamerale, il vero terreno di uno scontro aspro e incomponibile, che ha costretto il relatore Boato a fare e disfare la sua bozza di relazione, alla stregua della famosa tela di Penelope.
Devo dire, in tutta franchezza, che la soluzione individuata - con la divisione del CSM in due sezioni, vista come prodromica alla vera e propria separazione delle carriere - legittima le accusa di compromesso al livello più basso che sono, per altri versi del tutto ingiustificatamente, piovute sui lavori della Commissione bicamerale.
Non temo accuse di difesa corporativa, tant'è che significative componenti della magistratura associata dissentono apertamente su alcuni punti della mia impostazione. Né pavento l'ironia sulla cultura della giurisdizione dei pubblici ministeri, che accompagna questa argomentazione.
Purtroppo, non passerebbe molto tempo dalla separazione delle carriere fra magistrati requirenti e quelli giudicanti per fa constatare che, nell'intento di porre riparo a certi guasti, se ne sarebbero causati altri ben più gravi.
Se la funzione requirente viene assegnata ad un corpo di funzionari dello

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Stato, caratterizzati dalla separatezza, dalla non comunicabilità, primo o poi ci si troverebbe di fronte a rischi di un organismo di superpoliziotti, sganciati da ogni controllo, che si autoreferenzia.
E a quel punto non resterebbe che collocare la pubblica accusa sotto la direzione ed il controllo del governo, così come avviene in tutti i sistemi che hanno scelto la separazione della funzione accusatoria da quella giudicante. Esito che tutti dichiarano di non volere e, anzi, di voler scongiurare.


MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Noi lo abbiamo escluso scrivendo «indipendente da ogni potere».

MARIANNA LI CALZI. Questo è da vedere.
Se davvero si vuole ovviare ai problemi che si sono evidenziati con la presunta discrezionalità di fatto dell'esercizio dell'azione penale da parte della magistratura inquirente, si deve ribadire nella Carta il principio irrinunciabile dell'autonomia e dell'indipendenza di tutta la magistratura, rimandando alla legge ordinaria una distinzione corretta delle funzioni. Introducendo, cioè, i principi dell'incompatibilità, congruamente temporanea, delle funzioni monocratiche e degli incarichi direttivi legata non alle persone, ma al territorio.
Se la questione della distinzione delle funzioni della magistratura viene affrontata in quest'ottica, anche il problema del CSM perde il suo carattere dirompente. Il CSM potrebbe conservare le sole funzioni amministrative, riservando l'azione disciplinare ad una corte elettiva che resterebbe in carica per un tempo sfalsato rispetto al CSM, in modo da esorcizzare ogni rischio di scambio. Il diverso rapporto numerico tra laici e togati e la previsione della rappresentanza per categorie in relazione a numero nella composizione nel CSM e della corte possono consentire di superare, da una parte le critiche rivolte al supposto corporativismo dei magistrati, e dall'altra il rischio della preponderanza di una categoria rispetto alle altre.

PRESIDENTE. Dovrebbe dare una «frenata» alla sua interessante esposizione, onorevole Li Calzi!

MARIANNA LI CALZI. Ho finito, Presidente.
Il peggiore di tutti i rimedi sarebbe l'introduzione di un'anomala figura di procuratore generale eletta dal Senato, preposto all'esercizio dell'azione disciplinare. La responsabilità dell'azione disciplinare deve rimanere soltanto in capo al ministro di grazia e giustizia, che la esercita attraverso la procura generale presso la Corte di cassazione e ne riferisce al Parlamento: la responsabilità «politica» del ministro compenserebbe la mancata previsione dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare.
Le esigenze di garanzia in ordine all'esercizio dell'azione penale, anziché attraverso l'istituzione delle sezioni separate del CSM, possono essere meglio soddisfatte prevedendo un coordinamento degli uffici del pubblico ministero. Si consentirebbe in tal modo ai procuratori generali nelle relazioni annuali, e quindi al ministro di grazia e giustizia, di riferire al Parlamento sui tempi e sulle modalità del suo esercizio.
Ai problemi che sono emersi si trovano risposte adeguate senza venire meno ai principi se cessa ogni guerra di religione, se alla contrapposizione preconcetta subentra il confronto rispettoso delle diverse posizioni. È un metodo che vale per la giustizia come per gli altri grandi temi per chi si impegna a riscrivere la Costituzione (Applausi dei deputati dei gruppi di rinnovamento italiano, della sinistra democratica-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Un po' di cavalleria mi ha consentito di farla parlare cinque minuti in più, onorevole Li Calzi.
È iscritto a parlare l'onorevole Pittella. Ne ha facoltà.


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GIOVANNI PITTELLA. Signor Presidente della Camera, signor presidente della Commissione, onorevoli relatori, colleghi, voglio esprimere uno stato d'animo e qualche breve considerazione di merito.
Quanto allo stato d'animo, mi sento un deputato fortunato. Essere un parlamentare costituente alla mia prima legislatura mi carica di responsabilità, ma anche dell'onore di partecipare all'opera di ammodernamento della Carta costituzionale. È per tutti noi un'occasione importante per porre il sigillo a norme che consentiranno di governare in modo più moderno il nostro paese. Una riforma costituzionale non si fa ogni giorno, è un avvenimento eccezionale, e perciò stesso carico di solennità e responsabilità. È avvenimento che segna un passaggio storico e ipoteca un pezzo di futuro. Credo che sia anche la risposta giusta alla crisi della politica, alla necessità di chiudere la fase destruens della transizione italiana e di accelerare la fase construens di un nuovo sistema politico fondato limpidamente sul principio dell'alternanza.
Sento che questa è la volta buona per alleggerire il peso davvero ossessivo della caduta delle ragioni della politica e dell'autorevolezza delle nostre istituzioni democratiche. C'è chi pensa, in buona o cattiva fede, che le scorciatoie del populismo e del qualunquismo possano sintonizzarsi con gli umori più viscerali che salgono dal paese tanto da formare non solo una miscela esplosiva, ma un cemento che fondi un nuovo assetto statuale, mentre noi abbiamo il dovere di difendere la strada democratica e il modello di democrazia rappresentativa adeguandolo alla domanda sempre più pronunciata dei cittadini di partecipare, controllare, giudicare. Ma questo è possibile solo e soltanto ad una condizione, che questo Parlamento sia capace di una formidabile e coraggiosa iniezione di fiducia. Dare fiducia per ottenere fiducia. Per questo, e non certo per motivi di partigianeria, voglio esprimere innanzitutto all'onorevole D'Alema il convincimento che egli, accettando di cimentarsi in uno sforzo denso di insidie, ha dato prova di grande coraggio e di un'altissima concezione dello Stato.
Vengo ora alle mie considerazioni. La prima è che l'architettura della distribuzione dei poteri che la Commissione ci consegna necessita a mio giudizio di alcuni rifacimenti. Le ambiguità vanno cancellate, come ha già detto poc'anzi l'onorevole Spini. Mi sembra che le proposte emerse dall'ultima assemblea dei sindaci e dei presidenti di regione meritino la più seria considerazione. È anche aperto il dibattito sul ruolo delle province. Credo che vadano evitate drammatizzazioni e posizioni rigide e precostituite. A mio avviso va mantenuta l'esistenza di un ente intermedio tra regioni e comuni i cui vertici siano di tipo elettivo, ma con modifiche rispetto agli attuali consigli provinciali.
Più in generale credo che si debba rafforzare durante l'iter parlamentare la spinta all'autogoverno locale. Lo Stato deve conservare le funzioni essenziali, ma non di più. Ne consegue che la sussidiarietà va intesa nel senso che allo Stato compete ciò che realmente non possono fare le regioni e i comuni. Lo stesso federalismo fiscale non può risolversi in una potestà generale attribuita allo Stato, mentre gli enti locali avrebbero soltanto l'odiosa funzione di far pagare di più, pena l'impossibilità di assolvere le loro funzioni.
Che dire, poi, dei poteri in materia di beni ambientali e culturali, di gestione delle ricchezze del sottosuolo. Su queste materie l'arroccamento centralistico è a dir poco eccessivo.
La seconda considerazione è che merita attenzione anche la parte relativa ai rapporti tra l'Italia e l'Unione europea (ne ha parlato nel suo intervento anche l'onorevole Li Calzi qualche minuto fa). I tre articoli dedicati alla materia costituzionalizzano i rapporti e questo è certamente un fattore positivo. Il Governo, però, nell'impostazione che ci viene proposta conserva tutte intatte le sue prerogative, nel senso che il rapporto con l'Unione europea viene ancora inquadrato nella


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fattispecie dei rapporti internazionali, mentre l'evoluzione del diritto comunitario ha determinato di fatto una cessione di potestà nazionali agli organismi comunitari su materie che influiscono immediatamente e direttamente sulla vita dei cittadini. Il problema dell'associazione del Parlamento ai processi decisionali europei è tutto aperto. Il Parlamento rimane un terminale passivo, ma ciò non è accettabile dal momento che regole commerciali, fiscali e monetarie vengono ormai fissate nelle istituzioni europee. Il Parlamento non può essere escluso dalla legislazione vera. Lo stesso trattato di Amsterdam pone il problema dell'associazione dei parlamenti nazionali alla formazione delle leggi europee. Non possiamo ignorare pertanto questo monito, che tra l'altro è stato già condiviso dal nostro Governo. Si tratta di dare forza alla Commissione per le politiche europee e associare stabilmente ai lavori del Parlamento nazionale i nostri rappresentanti al Parlamento europeo che vivono una sorta di vita separata dal paese che li ha eletti. Si tratta di prevedere che il Parlamento nazionale abbia la possibilità di esaminare gli atti comunitari fin dalla prima loro stesura e di vincolare il Governo con un diritto di riserva. Si tratta, infine, di costituzionalizzare che almeno le regioni abbiano il diritto di accesso diretto alla Corte dell'Unione europea contro atti normativi nazionali e comunitari che ledano i loro spazi di autonomia.
Concludendo, onorevoli colleghi, chiedo maggiore nitidezza sul versante della dislocazione dei poteri locali e più attenzione all'Europa e al ruolo del Parlamento nel rapporto con l'Europa. Sarebbe un atto di miopia politica se riducessimo il valore e la portata delle riforme ad un'ennesima puntata di un duello sui problemi della giustizia o se fossimo condizionati dalle ragioni della tattica politica. Stiamo ridisegnando le istituzioni democratiche di un paese nel quale non solo noi, ma i nostri figli dovranno vivere.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Micciché, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Nuccio Carrara. Ne ha facoltà.

NUCCIO CARRARA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, viviamo indubbiamente un momento storico rivendendo la parte seconda della Costituzione; un momento che ci gratifica sotto il profilo personale, anche se avremmo preferito che fosse stata un'Assemblea costituente eletta dai cittadini ad affrontare il problema della revisione costituzionale.
Com'è ovvio, in momenti di così alta tensione, non mancano gli scontenti, le posizioni sono divergenti e il buon senso suggerisce di mediare, di arrivare a soluzioni che possano essere utili per l'intera popolazione, per l'Italia e che vadano incontro alle esigenze della stragrande maggioranza dei cittadini.
Anche per noi - anche per me - che sostanzialmente condividiamo il progetto di revisione costituzionale vi sono aspetti problematici, diciamo, forti, che sono all'attenzione dell'opinione pubblica, che colpiscono maggiormente l'immaginario collettivo. Si può fare un esempio con riferimento ai poteri del Presidente della Repubblica, che larga parte dell'opinione pubblica vede deboli rispetto al meccanismo quasi universalmente accettato dell'elezione diretta. Forti aspetti problematici possono essere individuati nella composizione del Senato, che ritengo non ancora chiara; una composizione ibrida e i cui contorni in merito alle competenze non sono ancora bene definiti. Una questione molto, molto dibattuta e che divide l'opinione pubblica è quella che riguarda la giustizia. E così via discorrendo.
Voglio evitare di concentrare l'attenzione sui temi alti e forti e desidero invece svolgere una riflessione, che spero possa essere utile, che riguarda un aspetto considerato minore, ma che per me minore non è. Mi riferisco al rapporto tra il semplice cittadino e la pubblica amministrazione.
Parto da una considerazione che poi è una presa d'atto: si sta tentando di dar vita al cosiddetto federalismo attraverso un percorso che è rovesciato rispetto alla


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nascita degli Stati federali così come è avvenuta tradizionalmente, quando cioè da più Stati si è arrivati ad una unità nazionale. Noi stiamo percorrendo invece la strada opposta: dall'unità nazionale, che comunque rimane impregiudicata, si va verso un sempre più consistente trasferimento di autonomia - ma sarebbe anche giusto dire di quote di sovranità - ad altri organi riconosciuti dalla Costituzione, come le regioni, le province e i comuni.
Viene meno sempre più, quindi, un assetto di tipo verticale, in cui vi erano poteri sovraordinati ai quali il cittadino leso in un proprio interesse poteva fare appello, attraverso il cosiddetto ricorso gerarchico. Adesso, in questo nuovo assetto orizzontale, a sovranità paritetiche, pariordinate, qual è il nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione?
L'articolo 56 del nuovo progetto di riforma, ad esempio, prevede l'abolizione dei controlli preventivi esercitati dallo Stato sulle regioni e da queste ultime sugli enti locali. Si tratta indubbiamente di un aspetto positivo perché, come si sa, i controlli preventivi molto spesso rallentavano pesantemente l'azione della pubblica amministrazione, a scapito della sua efficienza.
Sappiamo tutti, comunque, che i controlli sono stati previsti dalla nostra Costituzione a garanzia dei cittadini. È quindi necessario che, nel nuovo sistema di sovranità parallele, si individui un meccanismo di garanzia per il cittadino non più nell'assetto dei poteri sovraordinati ma in un ambito diverso.
In realtà, un debole tentativo in questa direzione si riscontra nell'articolo 111, che prevede la possibilità di istituire il difensore civico. Non si può essere contenti di questa norma, visto che ci troviamo di fronte ad una semplice possibilità. Va anzi considerato che la vecchia formulazione dell'articolo risultava più compiuta, più organica, più completa, prevedendo tout court l'ufficio del difensore civico a livello di previsione costituzionale e non come una mera possibilità.
Noi avvertiamo intensamente l'esigenza di creare un'autorità terza che garantisca il cittadino da eventuali abusi della pubblica amministrazione, per evitare che, ogni qualvolta si venga a creare un conflitto tra la pubblica amministrazione e il cittadino, quest'ultimo sia costretto a rivolgersi al tribunale amministrativo, con ciò, ovviamente, appesantendo il lavoro di quella magistratura e, inoltre, dovendo sopportare enormi costi, particolarmente onerosi per i più deboli.
Si tratta di un aspetto che, pur potendo apparire marginale, è invece di vitale importanza. Nel momento in cui la nuova Costituzione sarà varata, infatti, il cittadino vivrà comunque la sua quotidianità e in questa avrà rapporti con una pubblica amministrazione che avrà poteri molto più ampi e più forti rispetto a quelli previsti in precedenza, visto che la Costituzione ha trasferito quote di sovranità verso la periferia. Ne consegue una maggiore esigenza di tutelare soprattutto le fasce deboli, quelle fasce, cioè, che potrebbero assicurarsi la tutela soltanto sostenendo costi altissimi.
Ho voluto proporre uno spunto di riflessione. Quando si avvierà l'esame degli emendamenti, cercheremo, se vi sarà il consenso dell'Assemblea, di porre rimedio a certe previsioni.
Il nostro giudizio sull'intero progetto di revisione rimane comunque positivo. Viviamo una fase in cui il popolo italiano si aspetta un forte segno di novità e di rinnovamento, con particolare riferimento alla previsione dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Si tratta di un momento particolarmente atteso dagli italiani perché corrisponde ad una maggiore maturazione democratica, grazie alla quale il popolo si riapproprierà della propria sovranità, eleggendo direttamente il Capo dello Stato.
Ci auguriamo che il processo di riforma possa superare le inevitabili turbolenze politiche e che tutti noi possiamo essere in grado di fornire una risposta alle aspettative degli italiani (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cè. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO CÈ. Come hanno già osservato altri colleghi, questo dibattito si svolge in un modo distaccato rispetto al paese. Il paese mostra un certo disinteresse nei confronti di una discussione che lo riguarda direttamente e questo ce la dice lunga in merito a quello che è oggi il rapporto tra cittadino e Stato.
Sono un medico e vorrei affrontare il problema cercando di fare prima una diagnosi dei malanni del paese per trovare poi una terapia. I segni più evidenti del malessere del paese li conosciamo tutti e sono fra loro strettamente correlati. Si parte dal centralismo, passando per lo statalismo, per la burocrazia, per l'assistenzialismo, per il costo dello Stato, il clientelismo conseguente, per la democrazia fittizia che si instaura, per finire al consociativismo e alla partitocrazia che porta ad una deficienza dello Stato di diritto.
Al contempo, questo Stato, che ha bisogno di assicurarsi il consenso, si serve anche dei poteri forti nel campo economico proprio per garantirsi quel consenso senza il quale non può andare avanti. Sono dati obiettivi che sono sotto gli occhi di tutti e che hanno caratterizzato gli ultimi decenni di vita della Repubblica.
Un altro fattore importante è rappresentato dal dualismo nord-sud, che è noto a tutti. C'è una differenza rilevante fra il nord e il sud per quanto attiene alla concezione dello Stato, delle istituzioni pubbliche e della misura in cui lo Stato deve invadere il campo dell'economia. Una parte del paese, che noi definiamo Padania, ha un idem sentire rispetto a tali questioni che è molto diverso dall'idem sentire del meridione del paese.
Il cittadino non può controllare quello che avviene nella sfera pubblica e pertanto nutre una sfiducia nella classe politica e prova disaffezione nei confronti dello Stato, del potere romano. Questa discussione deve essere inquadrata in uno scenario particolare, quello dell'ingresso in Europa e quello della globalizzazione che interessa sia il campo economico che quello politico-istituzionale. Infatti, sappiamo bene che la sovranità nazionale è destinata a ridursi sia all'interno dello Stato che all'esterno, per logici motivi. Lo Stato non è più in grado di controllare ed essere autosufficiente nella gestione della politica estera e della moneta (fra poco forse entreremo in Europa per quanto riguarda la moneta), così come non è più in grado di controllare i flussi finanziari. La competitività a livello economico ormai si basa sulla capacità concorrenziale di aree omogenee da un punto di vista economico.
Pertanto, tutte le normative che riguardano questi settori devono essere mirate in rapporto ad aree omogenee. Le caratteristiche culturali stanno tornando ad avere rilevanza, perché i popoli non sono morti, sono stati cancellati dalle ideologie per un certo periodo di tempo, però vivono ancora e pulsano. È necessario pertanto che parte dell'insegnamento sia volto a salvaguardare l'identità culturale di questi popoli.
Passiamo ora a quella che, a mio parere, è la terapia. Innanzi tutto reputo sia stato un errore non procedere ad una revisione anche della prima parte della Costituzione. Oggi c'è bisogno di uno Stato più leggero, che resti al di fuori dell'economia e che si limiti ad intervenire solo in casi eccezionali proprio per applicare il principio di sussidiarietà orizzontale, che testimonia il predominio della società sullo Stato. È necessario, quindi, ridurre il potere centrale, riservare poche materie allo Stato e prevedere una sussidiarietà verticale, in cui i poteri delle regioni controbilancino quelli dello Stato. I poteri delle regioni, dei comuni e delle province dovrebbero essere caratterizzati da una impostazione di tipo duale e non cooperativo, in modo da mantenere il più possibile distinte le competenze ed i finanziamenti destinati ai singoli livelli istituzionali.
Ci dovrebbe essere una pari sovranità tra Stato e regioni in modo tale che risulti facile il raffronto e si istituisca una concorrenza di tipo istituzionale, che pos


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siamo chiamare «federalismo competitivo», in cui i modelli che ottengono i migliori risultati possano essere presi ad esempio dalle regioni più arretrate.
Questo discorso dovrebbe realizzarsi in un progetto di federalismo o di confederalismo veri. Il limite oggi esistente nel rapporto fra il cittadino e le istituzioni, in particolare con questo Stato centralista, è l'incapacità di identificare i centri di responsabilità, i quali non esistono. Infatti vi è sempre un «palleggiamento» di responsabilità, non c'è mai una coincidenza fra centro di gestione, di decisione, di imposizione fiscale per cui il cittadino è incapace di controllare la pubblica amministrazione e i poteri dello Stato.
A tutto questo bisognerebbe aggiungere una delegificazione e una sburocratizzazione; però una sistemazione in senso federale dello Stato, nel quale le competenze siano ben distinte, diventa una conseguenza automatica. Tutto questo consentirebbe al cittadino di essere partecipe ed arbitro consapevole e nello stesso tempo permetterebbe di smantellare quei poteri forti dell'economia che oggi sono strettamente legati a chi gestisce il potere, ma che in un sistema federale dovrebbero confrontarsi, di volta in volta con vari livelli istituzionali. Per costoro non sarebbe sufficiente fare un accordo unico con lo Stato centrale per prendere in gestione l'economia distribuita nel territorio.
La forma di Stato che ci propone la bozza licenziata dalla Commissione bicamerale, illustrata dal relatore D'Onofrio, ha un peccato originale, di cui sono certo che il relatore sia conscio. Affinché si costituisca uno Stato realmente federale o confederale è importante che si compia un passaggio in cui avvenga una rottura della Costituzione. A questo discorso però non è stato fatto alcun cenno, anche perché devono esserci le premesse affinché tale rottura avvenga contestualmente alla saldatura con un altro patto. Come dicevo, questo è un passaggio obbligato per arrivare ad un vero federalismo, passaggio che implica il riconoscimento del diritto di recessione perché il patto federale riconosce, a chi vi aderisce, la possibilità di recedere.
A questo punto dovrei affrontare il lungo discorso dell'autodeterminazione che, però, non posso toccare per il poco tempo a disposizione. È una pecca originale sulla quale sarebbe stato opportuno spendere qualche parola in più.
L'altra premessa mancante è che, per addivenire ad un vero federalismo, bisognerebbe avere come presupposto fondamentale un accorpamento spontaneo delle regioni o, per lo meno, prevedere in questa legge lo svolgimento di un dibattito approfondito tra le regioni per capire se è questa la direzione da prendere. Altrimenti la capacità impositiva, l'autonomia finanziaria e il numero di abitanti delle attuali regioni non consente di attuare un vero federalismo.
Entrando nel merito della bozza D'Onofrio, non si può non sottolineare l'aspetto centralista ed anacronistico di Roma capitale, di aver cioè costituzionalizzato Roma capitale. È incredibile quando in tutti gli Stati del mondo evoluti si parla ormai di capitale reticolare, specie negli Stati federali, che è un mezzo per creare una maggiore coesione all'interno dello Stato! Viste le opportunità che oggi offre la telematica non ci sarebbero ostacoli di tipo logistico e non si capisce perché non si sia andati in questa direzione.
Si è parlato di sussidiarietà orizzontale, cioè della prevalenza del privato sul pubblico, della società sullo Stato. Penso che la prima formulazione della bozza fosse migliore di quella che arriva oggi alla nostra attenzione, perché chiariva meglio quella prevalenza.
Si è parlato poi di sussidiarietà dei poteri amministrativi ai comuni, dando loro la quasi totale competenza amministrativa. Penso che non sia un grande passo avanti: nel momento in cui non garantiamo risorse adeguate ai comuni, questo non potrà che trasformarsi in un ulteriore onere.
Passando alle parti più importanti, vorrei parlare della titolarità delle funzioni

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legislative. È un argomento al quale si è già accennato e quindi sarò molto veloce. Dalle 7 competenze della bozza iniziale, si è arrivati a 31 competenze, con la famosa clausola di salvaguardia con la quale si dà la possibilità allo Stato di intervenire ancora ed avocarsi ulteriori competenze per imprescindibili interessi nazionali. In queste 31 competenze c'è addirittura la legislazione elettorale e gli organi di governo di comuni e regioni. Siamo all'assurdo: addirittura vogliamo entrare nelle competenze primarie di regioni e comuni, rasentando l'assurdo quando toglieremo, se verrà avallata questa ipotesi, le competenze che già hanno le regioni a statuto speciale. Il federalismo fiscale, tra l'altro, andrebbe completamente riscritto.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Le competenze delle regioni a statuto speciale non si toccano comunque; sono date con legge costituzionale.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. C'è la salvaguardia specifica.

ALESSANDRO CÈ. Col federalismo fiscale si parla di redistribuzione dei contributi erariali. Il nostro concetto di federalismo fiscale ha tutt'altra impostazione: si attribuisce ai comuni o per lo meno alle regioni la potestà, e questi poi passano una quota parte allo Stato.
Nella bozza si dice che si distribuisce almeno il 50 per cento dei contributi erariali, togliendo la parte che andrà a colmare il debito pubblico, quanto necessario per le calamità naturali e così via. Avremo un fondo per lo sviluppo delle zone depresse, cioè il sud, che in parte potrebbe andare bene perché gli investimenti in conto capitale potrebbero avere un senso. Però, quando si parla ancora una volta di fondo perequativo, che dovrebbe essere unico anche per responsabilizzare di fatto le regioni...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ALESSANDRO CÈ. La prego di lasciarmi concludere, visto che è stato tollerante con la collega Li Calzi.

PRESIDENTE. Prosegua pure, non faccio fatica.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. È un Presidente tollerante per natura.

ALESSANDRO CÈ. Come dicevo, questo fondo perequativo rischia di andare a premiare, anzi sicuramente premierà, da un lato chi è inefficiente e cioè ha un costo dei servizi superiore alla media nazionale. Questo caso solo in parte può essere legato alla situazione del piccolo comune, che può comunque consorziarsi per gestire i servizi. Addirittura andrà a premiare chi avrà un introito fiscale inferiore alla media del paese.
Si è tenuto conto delle statistiche riguardanti l'evasione fiscale e di come sono differenziati i dati nel paese? Tutto questo discorso non porterà che ad una tassazione aggiuntiva da parte degli enti locali e territoriali perché, tolti i fondi perequativi, i comuni e le regioni avranno ancora meno soldi.
Ci sarebbero state moltissime altre cose da dire, ma il tempo a mia disposizione sta finendo.
Concludo ricordando che la lega ha presentato molte proposte che sono state tutte bocciate quando parlavamo di federalismo o al massimo di confederazione. Non si può dire che una mattina ci siamo svegliati e senza una motivazione profonda abbiamo inventato la secessione, perché invece prendiamo spunto dalle rimostranze e dalle sollecitazioni che provengono dal nostro territorio. In questi testi non vi è alcuna volontà di cambiare; non si evidenzia alcuna volontà di cambiare!
Non si è considerata la presenza di almeno due nazioni in questo paese, per le quali va inserito un ammortizzatore nella Costituzione, altrimenti si andrà allo scontro. Probabilmente la bocciatura del referendum finale...


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PRESIDENTE. Non andiamo allo scontro, onorevole Cè!

ALESSANDRO CÈ. ...almeno da parte del nord della Padania, sancirà la rottura del paese, che si sarebbe potuta evitare se avessimo avuto una classe politica più lungimirante.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Cè.
Per un mio errore nella lettura dell'elenco degli iscritti a parlare ed anche per essermi dimenticato una posposizione, ho dichiarato decaduto il collega Miccichè, che invece ora è presente ed era iscritto a parlare. Ne ha pertanto facoltà.

GIANFRANCO MICCICHÈ. Grazie, signor Presidente.
Il Parlamento si ritrova ad esaminare il testo proposto dalla Commissione bicamerale dopo mesi di scontri e di lusinghe. Non ho assoluta certezza del fatto che il clima, all'interno del quale si è discusso, sia stato il migliore. Il criterio principale al quale si è ispirata la Commissione nelle sue progettazioni è stato quello della funzionalità, al fine di restituire al paese una stabilità istituzionale e governativa e ridare credibilità allo Stato e fiducia agli italiani.
L'impianto giunto a noi sembra garantire la stabilità di Governo e induce a ritenere che le danze del potere potranno essere accantonate.
La scelta per una forma di governo semipresidenziale, seppure sui generis rispetto alle altre esperienze mondiali similari, va incontro proprio a tale primaria condizione: realizza, cioè, il principio secondo il quale chi ha vinto le elezioni governa senza sfaldamenti e per tutta la durata della legislatura.
L'opzione semipresidenziale, implicante la totale revisione soprattutto dei poteri del Presidente della Repubblica, è nata ed ha avuto successo in ragione della comune volontà di cambiare un sistema non più idoneo a tenere il passo del criterio elettorale.
Nella sensibilità politica degli italiani il maggioritario si è fatto larga strada e, di conseguenza, anche gli altri cardini costituzionali è opportuno che si adeguino. Anzi, più che opportuno è indispensabile.
Sui poteri del Presidente della Repubblica eletto dai cittadini, però, occorrerà un ampio dibattito parlamentare, giacché quanto indicato dalla bicamerale appare insufficiente per difetto.
La spinta al rinnovamento e all'ammodernamento delle istituzioni ha una meccanica che coinvolge il Parlamento. Questo dovrà riuscire, con la sua nuova morfologia e con la sua nuova funzionalità, a tutelare i diritti ed a soddisfare i fabbisogni del cittadino.
L'opzione del bicameralismo imperfetto sembra assicurare l'indirizzo della garanzia e della tutela del fabbisogno legislativo.
La forma di governo e la forma parlamentare che si profilano all'orizzonte appaiono maggiormente rispettose di quanto viene invocato dai cittadini. A questi forse potremo garantire stabilità ed efficienza, quindi una nuova civiltà politica ed istituzionale.
La forma di Stato fin qui delineata, invece, mi trova critico in quanto lo stampo federalista che si è faticato ad immaginare appare labile ed artificioso.
Sembra, infatti, che quello prefigurato non sia un vero federalismo ma un decentramento operativo di dubbia attuazione concreta.
Il risultato raggiunto dalla bicamerale sulla forma di Stato ha tutto il sapore di un affannoso rimescolamento di carte privo di modificazioni strutturali e, quindi, di quel potenziale innovativo di cui da più parti si invoca l'attuazione.
In tema di federalismo aveva trovato ingresso nel dibattito della bicamerale l'ipotesi del riconoscimento dell'autonomia speciale alle regioni che avessero deciso di avvalersi di tale modello. Fra le varie soluzioni, forza Italia aveva elaborato una proposta con la quale, nell'indicare quali sarebbero state le materie ineliminabili di competenza statale, si consentiva alle regioni, con un cosiddetto patto per adesione,


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di accedere ad un'autonomia di contenuti ampi ma predeterminati, senza contrattazioni o modelli differenziati. Ci si troverebbe dinanzi ad un nuovo patto costituzionale tra lo Stato e le regioni aderenti, che non metterebbe in dubbio, ma anzi rafforzerebbe, il valore della nostra unità nazionale.
Il principio di sussidiarietà, però, così come formulato, sembra una mera enunciazione di programma di difficile attuazione per la grave crisi in cui versa l'entità territoriale locale.
Non soddisfa la formulazione del testo dell'articolo 56 in tema di «sussidiarietà orizzontale», che mira a riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato per l'esercizio delle pubbliche funzioni.
La dinamica statalista ha prevalso ancora una volta e ciò confligge con il modello di società auspicato dalla maggioranza degli italiani.
Considerazione a parte, che mi sta particolarmente a cuore, è quella relativa alle regioni ad autonomia differenziata come la Sicilia. Essa, ma non solo essa, ha visto fortemente circoscritta la propria autonomia da una mancata attuazione degli statuti di specialità. Ciò, se da un lato ha determinato il paradossale sorpasso da parte delle regioni a statuto ordinario per quanto riguarda le funzioni trasferite, oggi è fonte di gravi problemi che, in concreto, comprimono l'autonomia. Ne è un esempio scandaloso la mancata emanazione, ancora cinquant'anni dopo la sua nascita, delle norme di attuazione dello statuto siciliano. Tale carenza ha costituito un grave pregiudizio per le finanze regionali. E dire che la Corte costituzionale si è pronunciata più volte sollecitando le norme di attuazione!
La proposta della Commissione bicamerale, invero, si muove nel senso di riconoscere il mantenimento della specialità alle autonomie differenziate. Il secondo comma dell'articolo 57 riconosce il godimento di particolari forme di autonomia secondo i rispettivi statuti speciali. Si tratta del riconoscimento del permanere delle ragioni economico-sociali e culturali che hanno indotto il lontano costituente a conferire a tali regioni un particolare ambito di autonomia.
Poiché il percorso verso il federalismo appare disordinato e depotenziato, è indispensabile mantenere alto il livello di allarme rispetto all'esigenza di un risultato ineludibile. La Sicilia e le altre regioni oggi a statuto speciale mantengono intere le ragioni della loro specialità. Attenzione: parlo della Sicilia; specialità non vuol dire soltanto problemi differenti da quelli altrui, ma anche diversità di connotazione strutturale. Qualcuno ricorderà che Silla, dopo aver sconfitto Mario, ridusse tutta l'Italia ad unica provincia di Roma; tutta l'Italia tranne la Sicilia e la Sardegna, che divennero province singole.
Mi auguro e vigilerò affinché il Parlamento non dimentichi, spinto da malaugurate pulsioni, di rispettare, come valore dell'unità del paese, le diversità delle sue singole componenti. Le ragioni dell'unità, in uno Stato evoluto, passano dalla quotidiana riaffermazione della volontà di restare tutti uniti. Volontà che scaturisce dall'equità legislativa (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta di domani.

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