Seduta n. 125 del 13/1/1997

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Discussione del disegno di legge: Conversione del decreto-legge 21 novembre 1996, n. 598, recante provvedimenti urgenti per l'accelerazione delle procedure di dismissione delle partecipazioni detenute indirettamente dallo Stato e per la sistemazione della situazione finanziaria delle società di cui lo Stato è azionista unico (2750).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 21 novembre 1996, n. 598, recante provvedimenti urgenti per l'accelerazione delle procedure di dismissione delle partecipazioni detenute indirettamente dallo Stato e per la sistemazione della situazione finanziaria delle società di cui lo Stato è azionista unico (2750).
Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Ha facoltà di parlare il relatore, onovevole Chiamparino.

SERGIO CHIAMPARINO, Relatore. Signor Presidente, il provvedimento in esame reca la conversione del decreto-legge n. 598 del 21 novembre 1996 e si propone di accelerare la dismissione delle partecipazioni azionarie possedute dallo Stato nonché di favorire l'alleggerimento della situazione debitoria dell'IRI. Esso stabilisce che le imprese di cui il Tesoro è azionista unico possano trasferire al Tesoro stesso le proprie partecipazioni e quest'ultimo possa farvi fronte anche assumendo eventuali passività delle imprese eccedenti.
In particolare il decreto-legge n. 598 fa riferimento alle partecipazioni della STET detenute dall'IRI. Considerati i ritardi nella definizione in sede parlamentare dell'autorità di regolazione del settore delle telecomunicazioni, vi era il rischio di una situazione debitoria dell'IRI non più sostenibile né compatibile anche in sede comunitaria (si può parlare di 23 mila 500 miliardi di indebitamento a fronte di un ammontare di mezzi propri non superiore ai 3 mila miliardi).
Per avere un'idea del significato di queste due cifre vale la pena di ricordare che l'accordo del luglio 1993, raggiunto in sede comunitaria fra l'allora ministro Andreatta ed il commissario Van Miert, prevedeva che entro il 1996 per tutte le società di cui il Tesoro era azionista unico venisse ristabilito un rapporto equilibrato fra i mezzi propri e l'indebitamento lordo. Una situazione quindi che non è esagerato definire di potenziale dissesto finanziario e che (a causa dei ritardi nella costituzione dell'authority di settore e anche volendo prendere in considerazione altre ipotesi che sono pure affiorate nel dibattito degli ultimi mesi, quali la possibilità di conferire i poteri dell'autorità di settore all'Autorità garante della concorrenza e del mercato o di definire l'autorità di settore attraverso un regolamento: quindi soluzioni che avrebbero potuto aggirare la questione dell'autorità ma che non condivido) avrebbe potuto indurre un'accelerazione forzata, stante la situazione debitoria del processo di dismissione delle partecipazioni della STET tenute dall'IRI, senza considerare, come sarebbe stato necessario fare, i tempi e le modalità con cui procedono le privatizzazioni di altre importanti società europee di telecomunicazione e quindi la possibilità di massimizzare il valore del patrimonio cedibile da parte dello Stato.
In altri termini, e concludendo la mia analisi su questo primo punto, con questa iniziativa si tratta di impedire che la dismissione delle partecipazioni STET detenute dall'IRI diventi una mera operazione di cassa anziché, come invece è necessario che sia, un'operazione di politica industriale che rafforzi le potenzialità di sviluppo di un settore strategico per il nostro paese.
Il 16 dicembre scorso, sulla base di un decreto del 6 dicembre del Presidente del Consiglio dei ministri, l'assemblea dell'IRI ha deliberato il passaggio delle proprie azioni


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STET, per un valore di 14 mila e 530 miliardi, al Tesoro, realizzando così - rispetto al valore iscritto in bilancio delle stesse azioni - una plusvalenza di circa 3.500 miliardi. Come è previsto dal suddetto decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il prezzo è stato stabilito sulla base della media del valore delle azioni nei trenta giorni solari antecedenti alla data del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri: si tratta di un valore pari a 6.158 lire per le azioni ordinarie e 4.533 lire per quelle a risparmio. Vale la pena ricordare che nel provvedimento che stiamo esaminando questo è un valore considerato minimo, che potrà essere conguagliato a favore dell'impresa eccedente se la valutazione, che dovrà essere fatta entro il mese di gennaio da due consulenti nominati dal Governo, farà emergere un maggiore valore. Per far fronte a tale esborso, il Tesoro utilizzerà - come stabilito dal disegno di legge di conversione al nostro esame - il fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato previsto dall'articolo 2 della legge n. 432 dell'ottobre 1993. A tale proposito (lo dico perché è emerso nella discussione svolta in Commissione), l'utilizzo di questo fondo non configura alcuna alterazione nelle finalità del fondo stesso, essendo quest'ultimo destinato appunto ad estinguere le passività dello Stato ed essendo - ciò va ricordato - il provvedimento in esame riferito alle società di cui lo Stato è azionista unico; quindi, ad aziende le cui passività non possono che essere in ultima istanza garantite dallo Stato medesimo.
L'accordo Andreatta-Van Miert, che ricordavo in precedenza, è stato prorogato al giugno 1997, prevedendo che per quella data l'IRI abbia ceduto anche, oltre a quelle della STET, le partecipazioni nella Società autostrade, nella Finmare, nella SEAT e nel Banco di Roma, al fine di raggiungere i circa 19 mila miliardi che sono necessari per riportare in equilibrio il rapporto tra indebitamento e mezzi propri. Dico questo per rilevare che il provvedimento al nostro esame corrisponde alle linee dell'accordo comunitario stipulato nel luglio 1993 tra l'allora ministro Andreatta ed il commissario Van Miert, in quanto contribuisce radicalmente a ridimensionare la situazione debitoria dell'IRI; ciò fa compiere, quindi, un decisivo passo in avanti all'impegno allora assunto dal nostro Governo.
Voglio ricordare che la richiesta avanzata dalla Commissione europea di riportare sotto controllo la posizione debitoria delle società di cui lo Stato è azionista unico tende a creare le condizioni perché lo Stato possa dismettere le proprie partecipazioni ed uscire quindi da una situazione che, in quanto azionista unico, lo pone di fronte alla posizione automaticamente prevista dall'articolo 2362 del codice civile che prevede in ultima istanza la responsabilità illimitata da parte dello Stato rispetto alla situazione di quelle aziende. Un fattore questo che giustamente da parte della Commissione europea viene ritenuto di ostacolo al pieno dispiegamento della concorrenza sul mercato europeo.
Mi pare, quindi, che questo provvedimento sia, da tutti i punti di vista, in linea con quanto previsto dall'accordo del luglio 1993 e rechi al raggiungimento di questo accordo per il prossimo giugno un significativo contributo. D'altra parte è noto come le modalità con cui è stato formulato il provvedimento che è all'attenzione dell'Assemblea siano state definite di intesa con la Commissione europea ed è altresì noto come lo stesso commissario Van Miert abbia espresso una preferenza precisa per questa modalità di trasferimento al Tesoro delle azioni STET detenute dall'IRI rispetto ad altre modalità che pure erano state prese in considerazione.
È trasparente - ed è questo l'ultimo punto che voglio richiamare - anche negli intenti della Commissione europea il fatto che si individui nel trasferimento delle partecipazioni detenute dall'IRI nella STET al Tesoro una assunzione di responsabilità politica più forte da parte di quest'ultimo, quindi del Governo, nel processo di dismissione delle partecipazioni pubbliche e di decisioni sul futuro dell'IRI.

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Si individua quindi una responsabilizzazione politica maggiore che dà più garanzie sul fatto che il processo avviato nel luglio del 1993 abbia un esito positivo.
A conclusione della mia relazione voglio richiamare questo aspetto della responsabilità politica su cui mi permetto di sollecitare il Governo a lavorare perché si superino il più rapidamente possibile difficoltà politiche che sarebbe inutile nascondere, che ci sono state, e che hanno finora rallentato un processo di privatizzazione della STET, a cominciare soprattutto dalla questione, che va affrontata, della definizione dell'autorità di regolazione del settore.
Infine, signor Presidente, vorrei far riferimento al modo in cui alcuni autorevoli commentatori economici hanno presentato questa operazione, definendola in qualche modo storica, in quanto, nei fatti, essa pone fine a quella che è stata la missione economica e industriale dell'IRI nel nostro paese.
Sono del tutto consapevole che il provvedimento alla nostra attenzione presenti solo una piccola maglia di una catena ancora lunga, con punti assai rilevanti che devono essere ancora definiti. Ho già fatto più volte riferimento alla definizione dell'autorità di settore, argomento di discussione in questi giorni; altro argomento importante riguarda le modalità della fusione tra la STET e la Telecom (passaggio irrilevante ai fini della valorizzazione del patrimonio che il Tesoro dovrà cedere).
Mi rendo conto, quindi, che stiamo discutendo di un processo, di una maglia, che non è quella fondamentale, ma che io considero rilevante sul piano quantitativo e qualitativo e la cui definizione può essere determinante ai fini dell'accelerazione e del buon esito dell'intero processo.
Per tali ragioni rivolgo un invito ai colleghi affinché il provvedimento sia approvato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Ortolano. Ne ha facoltà.

DARIO ORTOLANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, nell'intervenire per esporre alcune considerazioni a nome del gruppo di rifondazione comunista nel merito della conversione in legge del decreto-legge sulle dismissioni delle partecipazioni statali intendo innanzi tutto rilevare come il provvedimento in esame sia frutto di un accordo internazionale, stipulato senza informare nelle maniere dovute il Parlamento.
Inoltre, intendo sottolineare con forza come i comunisti non si siano mai associati alla denigrazione sistematica e generalizzata delle industrie a partecipazione statale che dilaga oggi nel paese in nome dell'imperante dogma neo-liberista.
La storia dell'industria a partecipazione statale, infatti, così come quella dell'industria privata, è la storia contraddittoria di un complesso di aziende prospere e di aziende decotte, di ritardi tecnologici e di innovazioni tecnico-organizzative, di politiche del personale clientelari e lungimiranti. Non si può poi dimenticare che l'industria a partecipazione statale si è assunta, fin dagli anni Cinquanta, in nome della collettività nazionale, l'onere di intervenire in territori e in comparti produttivi nei quali l'industria privata non aveva alcun interesse o alcuna volontà di investire mezzi propri. Queste considerazioni non ci spingono a difendere il mantenimento allo Stato di tutte le sue partecipazioni indipendentemente dalle attività che esse svolgono, bensì di quelle che costituiscono strumenti fondamentali insostituibili di una qualsiasi politica economica: l'energia elettrica (cioè l'ENEL), l'energia liquida (cioè l'ENI), le telecomunicazioni (cioè la STET) oltre all'industria militare.
Esempi in tal senso ci vengono da altri grandi paesi europei che, in forme diverse, hanno salvaguardato l'interesse pubblico in ogni processo di privatizzazione che


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hanno affrontato. La stessa legislazione italiana, pur in una fase storica come quella attuale nella quale è prevalente la salvaguardia degli interessi privati rispetto a quelli della collettività, ha voluto riaffermare il diritto-dovere dello Stato nelle società operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia e degli altri servizi pubblici, di imporre specifici indirizzi di politica economica industriale, di conservare il potere di controllo su determinate decisioni aziendali di rilevanza strategica, di esercitare il controllo dell'assetto proprietario, così come recita l'articolo 2 della legge n. 474 del 1994.
Tra queste aziende si colloca la STET, il trasferimento delle cui partecipazioni IRI al Tesoro costituisce l'obiettivo immediato del Governo nel proporre il provvedimento in discussione.
La STET ha un fatturato di oltre 40 mila miliardi di lire, gli occupati sono circa 132 mila, gli investimenti ammontano a 9 mila miliardi e gli utili sono pari a 2.400 miliardi di lire. La struttura capitalistica di STET é già di natura privata in quanto il 64 per cento delle azioni appartiene all'IRI.
Nella seduta del 6 agosto 1996 il Consiglio dei ministri fissava la vendita della STET sul mercato nel periodo fra il 1 febbraio ed il 31 marzo 1997. In preparazione di tale vendita il Governo si impegnava a sollecitare la costituzione dell'autorità delle telecomunicazioni al fine di regolare le tariffe pubbliche; a promuovere la liberalizzazione del mercato; a definire la futura struttura del settore delle telecomunicazioni. Inoltre si impegnava a definire la futura struttura di controllo della STET con particolare riguardo alla formazione di un gruppo stabile di azionisti, alle alleanze strategiche, ai poteri speciali (golden share), che rimarranno al Tesoro dopo la privatizzazione. Tale processo avrebbe dovuto avere come obiettivo la creazione di un'azienda fortemente competitiva con un nocciolo duro di azionisti prevalentemente italiani e con una significativa presenza di soci stranieri. Si indicava poi che nei mesi successivi, in parallelo alla realizzazione delle opportune alleanze internazionali, la STET sarebbe stata l'azienda che avrebbe dovuto avviare, dopo una scissione dalla SEAT, in caso di inconveniente, una vendita per garantire la forza del futuro gruppo attraverso una golden share che prevedesse di definire la telefonia fissa rispetto a quella mobile.
Rifondazione comunista, non appena informata delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, aveva manifestato al Presidente del Consiglio ed al ministro del tesoro la sua posizione che oggi conferma e che ora sintetizzerò.
Innanzitutto, riteniamo che la STET rappresenti un patrimonio del paese che, in quanto tale, deve essere autonomo dai centri tradizionali del potere economico italiano; ciò è indispensabile non solo per irrobustire il sistema ampliando il numero dei soggetti che vi operano, ma soprattutto per impedire che l'ammodernamento del paese sia vincolato ad interessi tanto parziali quanto spesso determinanti la politica economica nazionale. Inoltre deve essere autonomo dai suoi principali fornitori per ragioni che non necessitano di spiegazione, ed autonomo dai concorrenti stranieri.
In Italia la STET dovrebbe raggiungere una dimensione di scala ad un livello tecnologico tale da porla in grado di sostenere una concorrenza che si presenta sempre più dura; ciò in relazione al fatto che il mercato delle telecomunicazioni italiane è già oggi largamente liberalizzato. La telefonia cellulare, la trasmissione dati, i servizi a valore aggiunto, i servizi per gruppi di utenti sono settori esposti alla competizione, dove da tempo operano soggetti forti del calibro di AT&T, Bell Atlantic, France Telècom, Olivetti e, da poco, Mediaset. Il processo di liberalizzazione sarà completo con l'apertura alla concorrenza della telefonia vocale a partire dal 1 gennaio 1998.
In mancanza di una politica industriale, che non esiste e di cui non si vede traccia all'orizzonte, il processo di liberalizzazione rischierebbe di rafforzare le tendenze inerziali che allontanano il nostro

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paese, emarginandolo dai percorsi centrali della trasformazione tecnologica internazionale. Pertanto, porre dei limiti allo sviluppo della STET in Italia nella convinzione di favorire la nascita della concorrenza avrebbe come sola conseguenza quella di favorire l'ingresso nel nostro mercato dei grandi gestori esteri, senza alcun vantaggio in termini di diffusione dei servizi. All'estero poi la STET, oggi sesto gestore nel mondo e quarto in Europa, deve rafforzare le sue posizioni anche formando alleanze internazionali, per restare ai primi posti nella graduatoria mondiale e competere ad armi pari con la concorrenza.
In questa direzione si sono mosse la Francia e la Germania, perseguendo l'obiettivo di combinare le esigenze di una corretta competizione con un'adeguata valorizzazione del settore nazionale.
Tutte le considerazioni sopra sommariamente esposte inducono quindi rifondazione comunista a formulare le seguenti proposte, che si basano sulla soluzione adottata in Francia per la France Telècom: l'IRI metta in vendita le azioni ordinarie in eccesso al 51 per cento del capitale, mentre il 49 per cento delle azioni ordinarie diventi di proprietà privata; il Ministero del tesoro, direttamente o tramite la Cassa depositi e prestiti, sulla base del prezzo fissato dagli advisors, acquisti dall'IRI il 51 per cento della STET. In questo modo il bilancio dell'IRI verrà regolarizzato agli effetti del codice civile e, per quanto ciò possa avere importanza, agli effetti degli accordi presi con la Comunità europea. Le due operazioni sopra indicate consentirebbero al Governo un periodo di tempo di circa un anno per affrontare seriamente e serenamente i problemi fondamentali che debbono essere risolti.
Occorre poi definire il ruolo che il Parlamento ed il Governo intendono assegnare alla STET sul mercato interno e su quello internazionale ed individuare le linee su cui affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo tecnologico ed industriale del paese in questo fondamentale settore e queste decisioni non possono essere lasciate alla sola discrezionalità aziendale.
È anche necessario definire la politica delle tariffe, che non può essere anch'essa lasciata semplicemente a decisioni aziendali. Rifondazione comunista ritiene che vi siano ampi margini nella redditività del gruppo STET per una riduzione generalizzata delle tariffe alle utenze familiari.
È necessario definire il destino ed il ruolo della SOGEI, la società del gruppo STET che informatizza tutti i dati del Ministero delle finanze, la quale, evidentemente, non potrebbe far parte di un gruppo non controllato dallo Stato. Occorre definire chi saranno i componenti di quello che il Governo ha indicato come il «nocciolo duro» italiano, nonché la quota del capitale da riservare ai dipendenti del gruppo STET; è necessario altresì definire cosa il Governo intenda per una significativa presenza straniera. Da questa definizione dipende infatti la politica delle alleanze internazionali del gruppo STET. Si deve infine delimitare l'ampiezza dei poteri della golden share.
È appena il caso di rilevare che l'assoluzione di tutti questi impegni necessita presumibilmente di un anno di tempo. Privatizzare la STET prima di aver affrontato e risolto questi problemi fondamentali vorrebbe dire svendere uno dei patrimoni più grandi della collettività nazionale solo per far cassa.
Il ministro Ciampi ha accettato il principio che non si concentrasse attorno a Mediobanca il «nocciolo duro» azionario ma, muovendo dal presupposto che attualmente nessuno dispone di 20 mila miliardi per acquistare la STET, ha ritenuto di concentrare presso il Tesoro la proprietà STET, considerata in termini finanziari e non strategici. Ciò non impedisce che con questa operazione lo Stato non abbia la maggioranza delle azioni, acquisendo il controllo di una quota oscillante tra il 44 ed il 47 per cento, con la conseguente riduzione del valore effettivo anche di questa parte di capitale azionario.
Per questo motivo il gruppo di rifondazione comunista esprime le proprie perplessità

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in riferimento al problema in discussione; perplessità che non mancheranno di pesare se non interverranno fattori in grado di scioglierle positivamente nel voto finale.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Apolloni, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Armani. Ne ha facoltà.

PIETRO ARMANI. Signor Presidente, il disegno di legge al nostro esame converte un decreto-legge del novembre scorso, recante provvedimenti urgenti per l'accelerazione delle procedure di dismissione delle partecipazioni detenute indirettamente dallo Stato e per la sistemazione della situazione finanziaria delle società di cui lo Stato è azionista unico. La dizione è assai generica, ma sostanzialmente fa riferimento alla situazione dell'IRI e, in particolare, al passaggio della STET dall'IRI al Tesoro.
Devo ricordare che questa contingenza nasce da un accordo fra l'allora ministro del tesoro Andreatta e il commissario Van Miert sul vincolo a mantenere l'IRI entro un certo rapporto di debiti rispetto ai mezzi propri, rapporto largamente superato nei mesi scorsi dall'insieme delle perdite e delle esposizioni debitorie dell'IRI e che avrebbe costretto quest'ultimo - qualora non fosse intervenuto un provvedimento-tampone - alla sua liquidazione o a portare i libri in tribunale.
Prima di Natale ci siamo occupati del prolungamento della liquidazione dell'EFIM, che è un esempio tipico di come lo Stato abbia mal gestito anche la dismissione progressiva delle sue partecipazioni. Infatti, l'EFIM, qualora fosse stato finanziato per tempo e non fosse stato affidato alla liquidazione di un esimio giurista che di gestioni industriali sapeva ben poco, sarebbe costato allo Stato 9 mila miliardi contro i 20-25 mila della conclusione dell'operazione. Ebbene, noi dobbiamo evitare che l'IRI si trovi in condizioni analoghe, perché la default dell'IRI sarebbe la default dell'intero sistema industriale del nostro paese.
Già la scelta di liquidare l'EFIM a suo tempo portò all'effetto dell'aumento del «rischio Italia», che fu pagato non solo da tutte le imprese allora a partecipazione statale ma anche dall'intero sistema industriale italiano.
Pertanto, il percorso era sostanzialmente obbligato. Tuttavia, il Governo - come al solito! - ha realizzato un'operazione meramente finanziaria, senza porsi problemi di politica industriale. Innanzitutto non si sa bene se, una volta compiuto il passaggio della STET dall'IRI al Tesoro, sia la STET ad assorbire la Telecom o viceversa, perché ancora non si comprende appieno la scelta che verrà operata. Un esponente molto vicino all'attuale Presidente del Consiglio sostiene l'assorbimento di Telecom in STET, mentre a me risulta che un ministro della Repubblica vada dicendo esattamente l'opposto; pertanto, era necessario che il Governo, oltre a chiarire in sede parlamentare lo scioglimento del nodo relativo all'Authority, chiarisse anche la questione dell'assorbimento.
Da questo punto di vista il problema non è irrilevante, perché alcuni mesi fa la TIM, che è una partecipata diretta di STET, si oppose ad una scelta di politica industriale della Telecom, qual è il famoso DECT: un procedimento di telefonia urbana che avrebbe utilizzato il sistema dei cavi in rame (attualmente dotazione della Telecom e risalente addirittura alla vecchia Italcable, ormai defunta) e che rischierebbe, qualora si passasse direttamente alle fibre ottiche, di essere buttato via. Tra l'altro, tale procedimento avrebbe consentito la trasformazione di una parte della telefonia TACS in telefonia urbana, cosa che sicuramente non corrispondeva alle aspettative della TIM (partecipata della STET, come ho detto), ma che avrebbe permesso alla Telecom di dare sfogo ad una parte della sua dotazione patrimoniale, che attualmente rischia altrimenti di andare perduta.
Questo è un esempio tipico di conflitto di interessi tra due partecipate, una della holding finanziaria, la TIM, e l'altra, che opera nello stesso settore delle telecomunicazioni


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ed è partecipata anch'essa della holding ma ha un interesse industriale diverso dalla telefonia mobile. Un conflitto di interessi che avrebbe dovuto essere risolto in precedenza, prima ancora di decidere di trasferire interamente al Tesoro tutto il complesso, e che il Tesoro non sarà in grado di risolvere, perché si tratta di un problema di politica industriale e non puramente finanziario.
Per quanto riguarda il passaggio dall'IRI al Tesoro del compendio delle telecomunicazioni, l'IRI ha immediatamente acquisito 14.500 miliardi, che rappresentano sicuramente un ristoro notevole rispetto ai 23.500 miliardi del suo indebitamento. Essa ha acquisito una plusvalenza di oltre 3 mila miliardi, riservandosi di acquisire un'ulteriore plusvalenza qualora il Tesoro riuscisse a vendere il compendio STET-Telecom ad un valore patrimoniale superiore ai 14.500 miliardi immediatamente passati all'IRI. Quest'ultimo, quindi, ha certamente risolto in via breve i suoi problemi, ma non ha risolto quelli relativi al futuro. È vero che ci si avvia alla progressiva dismissione di tutto il compendio delle ex imprese a partecipazione statale, ma è altrettanto vero che, una volta passato al Tesoro il compendio STET (e magari, successivamente, anche il compendio autostrade), l'IRI resterebbe con una serie di attività patrimoniali ed industriali che sarà difficile dismettere rapidamente. Si tratta di attività che, come sappiamo, fanno capo alla Finmeccanica, che opera nel settore degli armamenti ma anche in quelli dell'energia e del materiale ferroviario, settori che presentano una particolare caratteristica, in quanto hanno un committente pubblico o un insieme di committenti pubblici (qualora vi siano joint venture di carattere internazionale, soprattutto per quanto riguarda il campo degli armamenti). Tali settori hanno una valenza particolare; al gruppo Finmeccanica fanno capo l'automazione di fabbrica e tutta una serie di attività che riguardano le tecnologie avanzate, le quali hanno bisogno di un sostegno finanziario continuo per il progressivo mantenimento delle loro quote di mercato, per l'aumento delle stesse e per continuare ad essere competitivi sul mercato internazionale.
L'IRI, una volta venduta la STET e la società Autostrade e una volta risanato - certamente a breve - il suo indebitamento, come farà a finanziare queste attività? Le passeremo ancora al Tesoro? Ma il Tesoro dovrà poi farsi carico di finanziare questa attività. Possiamo dismettere rapidamente il settore degli armamenti? Come ho detto, indipendentemente dall'interesse strategico del paese, tale settore vendeva non soltanto al committente statale nazionale ma anche all'estero; con un sistema che risale addirittura all'ex ministro Formica venne introdotto un congelamento delle vendite all'estero che ha praticamente azzerato le vendite da parte di Finmeccanica, creando problemi in prospettiva per tutto questo settore che in parte, tra l'altro, deriva dall'EFIM. Mano destra e mano sinistra: l'EFIM va in liquidazione e cede a Finmeccanica le aziende del gruppo Agusta, le aziende del gruppo SIAI-Marchetti e contemporaneamente la Breda Ferroviaria. Prima o poi dovremo porci il problema di cosa far fare da grande all'IRI per tutto il periodo che intercorrerà tra la gestione di queste partecipazioni ed il momento in cui dovrà finalmente dismetterle. Come dismetterle? Cedere tutto? Qual è il contenuto della golden share? Il Governo non si è posto tutti questi problemi.
Ma non solo; nell'ambito del gruppo IRI esiste la Fincantieri. Non dimentichiamo che quest'ultima produce navi mercantili e da crociera, ma anche navi militari e ben due cantieri della Fincantieri, Riva Trigoso e Muggiano lavorano esclusivamente per la marina militare. In un'Europa ancora inquieta, con tanti focolai di tensione anche di carattere militare intorno (basti pensare alla ex Iugoslavia, a Cipro ed al Medio Oriente), possiamo, con migliaia di chilometri di coste, cedere completamente i nostri cantieri navali, magari a qualche acquirente straniero che potrebbe dividerli a fette e cederli a sua volta? È questo un problema che non ho alcuna difficoltà ad affrontare

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nel quadro di una progressiva privatizzazione, ma che avrei preferito che il Governo prendesse in considerazione prima ancora - o per lo meno contestualmente - di esaminare rapidamente un problema come quello del passaggio della STET al Tesoro.
Restano poi altre attività: la RAI, la Fintecna. La Fintecna comprende tutto il settore delle costruzioni, praticamente fermo, perché totalmente fermi, come sappiamo, sono i lavori pubblici in questo paese e l'edilizia privata. Tra l'altro sul settore del patrimonio immobiliare edilizio grava una tassazione assolutamente abnorme, che è stata ulteriormente appesantita. Sono questi i problemi - caro Presidente e cari colleghi - che prima o poi ci dovremo porre e che non sono stati affrontati in questo provvedimento.
È stato inoltre citata la questione della SOGEI, una partecipata che gestisce l'anagrafe tributaria (tra l'altro, mi pare che la gestione del catasto si trasferirà ora in Albania); è questo uno strumento delicatissimo. Si pensa di passarlo al Ministero delle finanze, ma attenzione: il Ministero delle finanze è parte contrapposta ai contribuenti. Noi riteniamo (un mio collega del Senato, il senatore Mantica, ha presentato un disegno di legge ad hoc) che la SOGEI debba restare all'IRI piuttosto che passare alla «parte» finanze che si contrappone alla «parte» contribuenti. Si tratta dello stesso problema che si pone per l'ISTAT, che non può essere uno strumento solo del Governo ma deve essere uno strumento della collettività, visto che attraverso di esso si calcola il prodotto interno lordo, ossia uno degli strumenti attraverso i quali si determinano i parametri di Maastricht.
Il problema della SOGEI deve essere posto seriamente e, come è facilmente intuibile, non è indifferente il caso in cui la STET assorba Telecom o viceversa. Dovendo privatizzare il settore delle telecomunicazioni sarei più propenso all'assorbimento della holding nella società operativa, dal momento che quest'ultima si vende meglio e si può tutelare in maniera più efficace l'interesse nazionale attraverso la vendita della società operativa, grazie anche al particolare contenuto della golden share. A questo punto ci si deve porre il problema della SIRTI, dell'Italtel e, come ho detto, della stessa SOGEI, che non vedo per quale ragione debba andare in mano al Ministero delle finanze.
Il problema relativo al 50 per cento dell'Italtel ancora in mano alla STET, una volta che la holding sparisse nella società operativa, non potrebbe essere mantenuto nella stessa società operativa dal momento che quest'ultima gestisce i servizi di telecomunicazione e quindi non può contemporaneamente gestire la costruzione degli apparati. Lo stesso problema si pone per la SIRTI, società di costruzione di impiantistica di telecomunicazione che, una volta assorbita dalla società operativa, non potrebbe certamente restare in essa senza creare un conflitto di interessi.
Come vedete, questi problemi non sono stati affrontati dal Governo: pertanto non sappiamo se la scelta dell'esecutivo sarà quella di Telecom in STET o viceversa, così come non sappiamo quando partirà l'authority e quale fine farà la SOGEI, ma soprattutto non sappiamo quale fine farà l'IRI.
Il problema, come ho detto, non è tanto quello di pensare ad una progressiva uscita dello Stato dall'attività industriale diretta (nessuno lo mette in dubbio e il gruppo di alleanza nazionale meno degli altri); il problema è quello di sapere come vivrà l'IRI nel periodo che intercorre tra l'uscita della STET dall'IRI ed il mantenimento in vita di queste attività, tra cui ricordo anche la RAI, che hanno bisogno di capitali per essere sostenute, vitalizzate e quindi vendute in maniera ottimale.
I problemi di politica industriale che ha sollevato anche il collega di rifondazione comunista, sia pure da un'ottica completamente diversa da quella del gruppo di alleanza nazionale, non sono presenti nel disegno di legge di conversione al nostro esame; si tratta di problemi che abbiamo sollevato con una nostra interrogazione presentata qualche mese

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fa a firma Gasparri ed altri e che speriamo il Governo voglia affrontare e risolvere.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, riteniamo che il provvedimento al nostro esame rappresenti una «pezza a colore» per la soluzione di una situazione chiusa affrettatamente dall'allora ministro del tesoro Andreatta con il commissario Van Miert senza alcuna riflessione sui problemi da affrontare. Del resto è tipico del professor Andreatta non riflettere abbastanza sui problemi legati alla politica industriale del nostro paese; ormai lo abbiamo tra i piedi da molto tempo come ministro della Repubblica nell'ambito del settore della politica economica e pertanto siamo abituati a vederlo riflettere poco su questi temi. Oggi che ricopre l'incarico di ministro della difesa ha di fronte a sé il problema delle attività industriali legate alla difesa, mentre altri, come il ministro Ciampi, hanno responsabilità in qualità di azionisti diretti della STET. Non dimentichiamo l'esperienza di Alberto Beneduce, che negli anni trenta ebbe una importante intuizione che è servita al nostro paese per molto tempo. Purtroppo le problematiche che ho richiamato e che devono essere affrontate non sono presenti nel disegno di legge di conversione al nostro esame.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marzano. Ne ha facoltà.

ANTONIO MARZANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il decreto di cui cominciamo a discutere la conversione in legge forse risponde ad uno stato di necessità, ma non per questo suscita minori perplessità.
Anzitutto c'è un problema di stile di Governo; il decreto si apre infatti con dichiarazioni che a me sembrano di rarissima ipocrisia. Così recita l'articolo 1: «Al fine di agevolare la dismissione delle partecipazioni azionarie indirettamente possedute dal Tesoro, il Ministro del tesoro (...) può acquisire (...)» quelle partecipazioni. In altre parole qui si dice che per agevolare le dismissioni, il Tesoro non dismette ma acquisisce. E questa sarebbe politica delle privatizzazioni? In realtà è una politica che alla fine rafforza ancora di più il Tesoro, inteso come conglomerata finanziaria, probabilmente la maggiore holding in Europa, dal momento che partecipa totalmente o parzialmente alla Banca nazionale del lavoro, al Banco di Napoli, all'INA, al Mediocredito, all'IMI, all'ENI, alle Ferrovie dello Stato, alla GEPI, all'IRI ed ora alla STET: il tutto per un valore che non è molto distante da quello dell'intera capitalizzazione di borsa.
L'ipocrisia non è un buon stile di governo, specialmente per un Governo che dovrebbe cercare di accrescere la propria credibilità, che non mi pare in questo momento molto elevata. Questo tipo di operazione non fa aumentare il credito del nostro paese.
Secondo punto: la verità è un'altra, e cioè la necessità di salvare l'IRI e non di agevolare le dismissioni! Alla fine del 1996 l'IRI presenta un'esposizione debitoria di circa 23.500 miliardi, cioè una posizione del tutto fuori linea rispetto ai parametri concordati con la Commissione per la concorrenza di Bruxelles.
C'è poi un altro punto, quello della sostanziale difformità del decreto che si vuole convertire in legge rispetto alla normativa comunitaria. Non si può sostenere che questo non sia un intervento di salvataggio. La verità è che nella circostanza Bruxelles si è dovuta piegare all'emergenza dell'IRI, come diplomaticamente emerge dalla dichiarazione di profondo rammarico del commissario comunitario per la mancata privatizzazione della STET nei tempi previsti.
Onorevoli colleghi non dobbiamo confonderci, non dobbiamo confondere le idee! Le operazioni di cui stiamo parlando costringono ormai a distinguere due parole che assumono da oggi, in Italia, un significato molto diverso, mentre fino a ieri potevano considerarsi quasi sinonimi; le due parole sono «privatizzazioni» e «dismissioni». La STET doveva essere oggetto di privatizzazioni, ora è oggetto di


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dismissioni ma, essendo queste a favore del Tesoro, non si tratta certo di una privatizzazione.
C'è un altro punto: il Tesoro provvederà a tale operazione attingendo al fondo di ammortamento del debito pubblico. A parte che vorrei essere sicuro che quel fondo sia sufficiente e sapere cosa accade in caso contrario, in ogni caso, piaccia o no, il ricorso al fondo significa che il debito pubblico crescerà, o quantomeno sarà più alto di quanto avrebbe potuto essere: si riducono infatti le disponibilità del Tesoro per il ritiro di titoli del debito pubblico dalla circolazione. Un'operazione che implica in questo senso un aumento del debito pubblico non comporterebbe oneri incongrui per il Tesoro? Come si fa ad affermare queste cose con riferimento ad un paese che è impegnato con un trattato internazionale a ridurre il proprio debito pubblico?
D'altra parte è molto improprio l'argomento che si trova nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto in oggetto, e cioè che non vi sarebbero oneri incongrui in quanto le passività dell'IRI sono comunque garantite dallo Stato, come unico azionista, e in quanto - secondo punto - il fondo di ammortamento utilizzato allo scopo sarebbe appunto destinato ad estinguere passività dello Stato.
Ma non è necessario essere un fine giurista - ciò che io non sono - per capire che una cosa è una garanzia su una passività e altra cosa è l'esistenza della passività, l'assunzione di una passività.
Vi sono anche altre incongruenze nel decreto. Pur essendovi, chiaramente, oneri a carico dello Stato, non vi è alcuna relazione tecnica, come sarebbe previsto dalla normativa contabile. Inoltre, l'ultimo periodo del comma 5 dell'articolo 1 del decreto dispone l'esenzione dall'articolo 10, comma 12, della legge n. 149 del 1992, e cioè, espresso nella lingua dei comuni mortali, dispone l'esenzione dall'obbligo di OPA. Ma non è chiaro se essa si riferisca alla sola acquisizione da parte del Tesoro o anche alla futuribile successiva dismissione da parte di quest'ultimo. Ad evitare guai futuri sarebbe, in ogni caso, bene chiarirlo.
Quinto punto. Torniamo alla verità: lo stato di necessità. Questo disegno di legge risponde semplicemente, come dicevo, all'esigenza di evitare che l'IRI vada in default. Correttezza avrebbe voluto non che l'IRI ci andasse - questo sarebbe stato un esito certamente da evitare: l'errore commesso con l'EFIM, che l'intero paese pagò anche sotto forma di deprezzamento della lira, non andava certo ripetuto - ma la correttezza sarebbe consistita nell'evitare questo esito procedendo alle privatizzazioni nei tempi previsti.
Di chi è la responsabilità che questo non sia accaduto? È di quelle forze politiche che dichiarano di essere contrarie alle privatizzazioni. Ancora una volta, questa maggioranza decide secondo la volontà di rifondazione comunista che è, appunto, l'unica forza politica che esplicitamente dichiara di non volere la privatizzazione della STET.
Ora ci troviamo, quindi, di fronte ad una conclusione necessaria, ma innaturale. Il Tesoro compra ciò che è già suo, acquista cioè una partecipazione di una sua partecipata al cento per cento: è un vero e proprio incesto finanziario!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Baccini. Ne ha facoltà.

MARIO BACCINI. Presidente, intervengo in questo dibattito perché ritengo sia importante aggiungere alcune brevissime considerazioni a quanto hanno già detto i colleghi che mi hanno preceduto.
Per parlare di incesti vorrei tornare all'ultima battuta del collega di forza Italia, quando ha affermato che probabilmente vi è qualcosa di poco chiaro in questa operazione, che non definirei finanziaria ed industriale, perché in essa manca proprio la politica industriale. Ecco il vero nodo.
Il Governo sarebbe dovuto venire in Parlamento a chiarire che questa era esclusivamente un'operazione di salvataggio


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dell'IRI. Sarebbe stato più onesto, forse discutibile ma, dal punto di vista politico, legittimo.
Invece, signor Presidente, fino a questo momento - lo dico anche al rappresentante del Governo - sono state rese alcune considerazioni politiche fuori di quest'aula e fuori delle Commissioni parlamentari. Signor Presidente, non sappiamo esattamente di cosa stiamo parlando perché nessuno è venuto a spiegarci ufficialmente la portata dell'operazione che si sta compiendo.
Possiamo essere d'accordo, alla luce di una determinata strategia politica, sull'opportunità di vendere i gioielli di famiglia, ma riteniamo che ciò debba essere fatto tenendo ben presente che in futuro non potremo vendere più niente se prima non verrà avviata una politica industriale seria e se l'indebitamento pubblico non verrà ridotto in modo considerevole. Ebbene, sono questi i punti che non vengono discussi e che vengono omessi dal dibattito politico.
Il fatto più grave è che non abbiamo mai potuto interloquire né scambiare alcune valutazioni politiche nelle sedi istituzionali, a partire dalle Commissioni parlamentari, con il ministro del tesoro, e lo dico con rammarico, signor rappresentante del Governo, dal momento che più volte abbiamo chiesto al ministro del tesoro di fornirci delle delucidazioni sulla politica industriale del Governo, e non so se il relatore ha avuto la fortuna di incontrare nelle sedi istituzionali il ministro per capire tale politica. Non solo rispetto a questa, ma anche riguardo ad altre situazioni, in Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni abbiamo tentato di comprendere la politica del Governo per poter esprimere il nostro parere non sulla base di una intuizione politica, bensì avvalendoci di un supporto tecnico concreto.
Noi vogliamo rispondere a quanti attribuiscono un peso relativo all'azione dei parlamentari e della classe dirigente, ritenendo che questa classe dirigente probabilmente non è adeguata, non è all'altezza di dare risposte concrete ai problemi del paese. Il Parlamento rischia di essere delegittimato perché privo di un'adeguata capacità di dare risposta ai problemi presenti nel tessuto economico, finanziario, sociale e culturale del paese. Ebbene, se vogliamo smentire coloro che fanno tali asserzioni, dobbiamo rivalutare il ruolo del Parlamento e della politica.
Un'operazione come quella del provvedimento al nostro esame non può essere concordata a livello europeo senza che il Parlamento italiano abbia dato le necessarie indicazioni di carattere generale. Il ministro del tesoro non può viaggiare, stipulare accordi ed annunciare operazioni di questo tipo mentre la Borsa è aperta. Non può farlo, magari favorendo operazioni di Borsa. Mi riferisco alla fusione fra STET e Telecom.
Queste nostre dichiarazioni sono contenute in una risoluzione presentata in Commissione trasporti e in Commissione bilancio, che tuttavia non è stata esaminata a causa dell'andamento dei lavori delle Commissioni stesse, che comprendo. Dobbiamo però capire perché nessuno ci chiarisca quali siano i termini esatti della questione, e mi riferisco ovviamente al ministro, anche se non è presente in aula.
Ebbene, dopo gli accordi stipulati fuori dal Parlamento, veniamo chiamati a convertire in legge un decreto-legge recante norme urgenti in materia di accelerazione di procedure per arrivare ad un risultato del quale nessuno è a conoscenza, per dare consulenze a degli esperti e per consentire la riduzione del debito dell'IRI: intervento sul quale possiamo essere tutti d'accorso, ma si tratta di valutare le modalità di una simile operazione. Con gli emendamenti che presenteremo entro domani ci soffermeremo proprio su tali aspetti.
Di quale politica industriale ci avvarremo per consentire tali risultati? È quanto non riusciamo a capire. Questo è il nodo principale della discussione sul quale è necessario confrontarsi tra maggioranza ed opposizione. Presenteremo pertanto un ordine del giorno (che ricalca il mio documento) per sensibilizzare la Camera, sulla base di una riflessione del

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gruppo parlamentare del CCD-CDU, a favore o contro questa operazione poco chiara.
Il contenuto del mio documento è il seguente:
«La V e la IX Commissione, premesso che:
la notizia dell'avvio della procedura di fusione della Stet e Telecom, ai fini della successiva privatizzazione, è giunta in maniera inaspettata, tra l'altro in una giornata "drammatica" di contrasti sulla manovra economica tra maggioranza ed opposizione;
non appare chiaro se la decisione della fusione sia stata adottata autonomamente dal ministro del tesoro Ciampi o sia stata preventivamente valutata in modo collegiale dal Consiglio dei ministri;
se tale decisione non fosse stata adeguatamente e collegialmente ponderata in ambito governativo - trattandosi della cessione delle due più importanti società a partecipazione pubblica detenute, tramite l'IRI, dallo Stato - si assisterebbe ad una determinazione che potrebbe apparire improvvisa e un po' affrettata, adottata autonomamente dal ministro del tesoro senza una adeguata valutazione democratica della stessa, posto che neppure il consiglio di amministrazione dell'IRI - società che detiene il pacchetto di maggioranza della STET - era a conoscenza dell'operazione, secondo quanto si apprende dalla stampa;
l'impostazione data dal ministro Ciampi all'operazione di fusione sembra privilegiare esclusivamente le esigenze finanziarie connesse all'indebitamento dell'IRI, trascurando i problemi di politica industriale e di assetto organizzativo nonché la stessa competizione strategica competitiva della nuova società;
non essendo ancora note le modalità operative concernenti il progetto di conferimento delle azioni STET al Tesoro, i tempi legati a tale operazione risultano coincidenti con quelli necessari per il rifinanziamento dell'IRI;
a tale proposito è evidente che per il conferimento delle azioni STET al Tesoro risulta necessaria - come già affermato dal ministro Ciampi - una specifica autorizzazione legislativa;
a tale riguardo il Governo ha adottato un apposito decreto-legge;
l'avvio dell'operazione di conferimento delle azioni STET al Tesoro in pendenza di un decreto-legge potrebbe risultare assai pericoloso e rischioso in termini di affidabilità della intera operazione, posto che una eventuale mancata conversione in legge del provvedimento produrrebbe conseguenze irreparabili sui mercati finanziari;
sotto il profilo del corretto uso degli strumenti legislativi, occorre per altro tenere conto della recente sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1996, che ha precluso la possibilità della reiterazione dei decreti-legge non convertiti;
non sembrano inoltre ancora chiare le iniziative che intende intraprendere il Governo per favorire l'approvazione del disegno di legge che istituisce l'autorità nel settore delle telecomunicazioni, visto che presso il Senato è stato sospeso l'esame del provvedimento;
non è chiaro il significato che assume in proposito l'emanazione di un "comunicato congiunto" da parte del ministro Ciampi e del commissario europeo alla concorrenza Van Miert, soprattutto per gli aspetti che sono stati definiti in sede comunitaria circa l'equilibrio patrimoniale dell'IRI o quelli relativi alla STET;
al riguardo si potrebbe infatti determinare in qualche modo una lesione della sovranità nazionale, posto che in sede comunitaria rilevano gli aspetti riguardanti l'indebitamento dell'IRI e non le modalità della privatizzazione della STET, i cui particolari - a prescindere dal tema della liberalizzazione del settore della telecomunicazioni - devono essere definiti autonomamente in sede nazionale;
non è ancora precisato quanto la fusione STET-Telecom garantirà effettivamente in termini di maggiori introiti conseguenti alla privatizzazione e quali sarebbero stati invece gli introiti da privatizzazione a seguito della cessione sul mercato soltanto della STET;

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l'annuncio della fusione tra STET e Telecom è stato dato a Borsa aperta, determinando inopportune e penalizzanti speculazioni finanziarie (soprattutto a danno dei piccoli azionisti risparmiatori), che hanno determinato la corsa all'acquisto dei titoli STET e la contemporanea ondata di vendite del titolo Telecom. Posto che anche la Consob ha fortemente criticato l'annuncio della fusione a borsa aperta, il Governo non ha avvertito la "sensibilità" di attendere soltanto un'ora (la notizia è stata diffusa dall'agenzia di stampa alle ore 15,52), prima di procedere ad un annuncio così delicato;
i mercati finanziari attualmente non dispongono di informazioni sufficienti a comprendere i contorni nitidi dell'operazione e che i segnali forniti al proposito dal Governo - si pensi alle ripetute e contrastanti dichiarazioni di autorevoli rappresentanti dell'esecutivo che hanno determinato non trascurabili effetti sul mercato borsistico anche in una stessa giornata - non sono univoci e chiaramente leggibili;
il Governo dovrebbe pertanto chiarire il futuro assetto azionario della società per comprendere se si intende, ad esempio, dare vita ad un nucleo stabile di azionisti. Un aspetto assai rilevante della fusione, tutt'altro che chiaro, che ha determinato significative speculazioni sul mercato borsistico, attiene alle modalità della fusione stessa circa il soggetto chiamato ad incorporare l'altra società. Sarà STET ad incorporare Telecom o viceversa?;
la fusione tra STET e Telecom, in forza del meccanismo tecnico del concambio azionario, determinerà di fatto la privatizzazione sostanziale del gruppo, posto che la partecipazione detenuta dello Stato scenderà al di sotto della soglia del 51 per cento;
in questa ipotesi, quando verrà il momento di dar corso alla privatizzazione di STET e Telecom, il Governo non potrà procedere effettivamente alla vendita della maggioranza delle azioni, con il rischio della preventiva costituzione di un nucleo di azionisti in grado di esercitare influenze, nucleo che si potrebbe realizzare attraverso il rallestramento in Borsa di azioni STET e Telecom, per tutto il tempo che separa l'annuncio della vendita dalla sua effettiva realizzazione;
non è ancora chiaro se tali aspetti siano stati indebitamente considerati dal Governo;
a tale proposito, il comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 novembre 1995, n. 481, recante norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità nonché istituzioni delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, prevede che, per la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità, il Governo definisca i criteri per la privatizzazione di ciascuna impresa e le relative modalità di dismissione e li trasmetta al Parlamento ai fini dell'espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari. Parimenti, l'articolo 2 del decreto-legge n. 332 del 1994, convertito dalla legge n. 474 del 1994 - nell'ambito della disciplina che introduce nel nostro ordinamento le cosiddette golden-shares - prevede un coinvolgimento delle Camere stabilendo che l'individuazione delle società da privatizzare che operano nei settori della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia e degli altri servizi pubblici, avvenga da parte del Governo, previa comunicazione alle competenti Commissioni parlamentari. Pertanto, ove la fusione STET-Telecom producesse comunque, di fatto, una privatizzazione - nel senso che la partecipazione azionaria detenuta dallo Stato scenderebbe al di sotto del 51 per cento - il Governo deve tener conto di precisi passaggi ordinamentali ed istituzionali stabiliti per la privatizzazione delle aziende che operano nel campo dei servizi di pubblica utilità, che attribuiscono, tra l'altro, al Parlamento esercizio di rilevanti prerogative di indirizzo politico e prevedono l'istituzione dell'autorità nel settore delle telecomunicazioni;
non è chiaro se le procedure di fusione consentiranno di tutelare in maniera adeguata i piccoli azionisti;

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a seguito della fusione STET-Telecom saranno scelti nuovi vertici aziendali (per altri nuovi manager, che verranno scelti e resteranno in carica pochi mesi, fino alla privatizzazione di novembre);
non appare chiaro se il Governo intenderà riconfermare il management attuale per la privatizzazione o valorizzare altri manager interni o avvalersi di manager esterni;
in assenza di una politica ufficiale del Governo non è chiaro al Parlamento quali sorti subiranno le altre società controllate di STET, quali TIM, Italtel e Sirte;
l'operazione di fusione di STET-Telecom ed il conferimento della STET al Tesoro rappresenta la fine della "missione" dell'IRI come holding pubblica di grandi aziende e servizi, operative sotto il monopolio statale (si legge nel comunicato Ciampi-Van Miert);
non è chiaro il valore politico che assume tale "bocciatura" e quale sarà il futuro dell'IRI sotto il profilo della sua valenza strategica nell'ambito dell'intervento pubblico nell'economia e le conseguenze che sul piano occupazionale subiranno i lavoratori IRI e quelli delle aziende controllate;
impegnano il Governo:
a riferire in tempi brevissimi alla Camera dei deputati sulla intera vicenda, in modo che siano chiarite le modalità di partecipazione ed il ruolo dei vari componenti del Governo, e in particolare del ministro del tesoro, sulla dismissione della STET e della Telecom;
a procedere all'operazione di fusione in modo da assicurare il pieno coinvolgimento del Parlamento nelle relative decisioni e la certezza dei procedimenti di dismissione, che il ricorso allo strumento del decreto-legge non appare garantire».

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Chiamparino.

SERGIO CHIAMPARINO, Relatore. Signor Presidente, l'ora tarda e la non eccessiva, diciamo così, presenza dei colleghi in aula mi imporrebbero di non replicare; tuttavia, impiegherò pochi minuti per svolgere talune considerazioni su un unico aspetto che è stato un po' al centro di tutti gli interventi, cioè il rapporto tra questo provvedimento e le questioni di politica industriale. È del tutto evidente, ed io stesso ne ho fatto cenno nella mia introduzione, che ci sono nodi di politica industriale che richiedono di essere affrontati e sciolti, in particolare nel settore specifico delle telecomunicazioni, quali la definizione dell'authority e le modalità della fusione tra la holding e la società operativa. Da questo punto di vista, rispetto a quanto sosteneva per esempio l'onorevole Armani, ritengo che le cose siano un po' più definite, ma credo che in proposito il sottosegretario Macciotta potrà riferire.
In sostanza a me preme sottolineare con sufficiente nettezza una questione che pongo come domanda retorica: se non vi fosse questo provvedimento, al di là del fatto che il medesimo sia motivato da determinate ragioni (si possono usare i termini di necessità ed altri), i nodi di politica industriale sarebbero più vicini o più lontani dall'essere sciolti? Il punto è questo.
Io stesso nella mia introduzione ho ritenuto di definire la situazione, dell'IRI sull'orlo del collasso finanziario. È del tutto evidente che una società che versi in queste condizioni non è in grado di affrontare neppure mezzo dei problemi che sono stati indicati. Dunque a me pare che approvare, come chiedo sia fatto, questo provvedimento sia necessario, proprio nella situazione data, per cercare di affrontare e risolvere alcuni dei problemi di politica industriale che qui sono stati indicati.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Chiamparino: suaviter et breviter!
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione


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economica. Signor Presidente, sono state poste molte domande, anche se le presenze mi pare indichino che non vi era grande interesse alle risposte!

PRESIDENTE. Signor sottosegretario, si leggono anche i resoconti...

GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. So che si ha grande capacità di lettura; tuttavia mi è capitato altre volte di constatare che non sempre la lettura è accurata!
Comunque, per motivi di correttezza, credo di dover fornire qualche precisazione cominciando proprio da dove il relatore ha concluso. È evidente che quello delle telecomunicazioni è uno dei settori più delicati, più interessanti, più innovativi nel mercato industriale ed anche nel mercato dei servizi a rete. È evidente inoltre che su questo terreno si è aperta una controversia, uno scontro tra grandi gruppi mondiali, così come è evidente che questo è uno dei settori nei quali non vale il detto: «piccolo è bello»; anzi, la concentrazione, lo sviluppo non solo verticale ma anche orizzontale delle integrazioni in tale settore è quanto mai indispensabile. È altresì evidente che questa partita, stante le condizioni finanziarie del controllante la STET, sarebbe stata chiusa al 31 dicembre se non ci fosse stato questo decreto. L'intera partita si sarebbe conclusa con una vendita al miglior offerente che, proprio per gli aspetti sottolineati da molti degli oratori intervenuti nel dibattito, non avrebbe potuto essere uno qualsiasi, ma una delle grandi holding che oggi si scontrano sul mercato mondiale per conquistare il controllo di questo settore su scala non nazionale ma internazionale. È del tutto evidente, quindi, che questa partita di decisivo rilievo per l'industria nazionale oggi sarebbe stata già chiusa.
È evidente, allora, che questo decreto, in modo non surrettizio, ma chiaro, ha affrontato non tutti problemi, bensì quello decisivo che consentiva di poter continuare a discutere di tutti gli altri: ha affrontato il problema di come poter continuare ad affrontare tutti i problemi, a cominciare dalla questione decisiva dell'authority, sulla cui funzione tornerò tra breve, partendo dall'unico versante possibile con il decreto-legge in esame: quello della salvaguardia finanziaria dell'IRI, garantendo le condizioni per non svendere - al fine di salvare l'IRI - questo patrimonio.
Tale obiettivo è stato realizzato e naturalmente ciò spiega anche i tempi del decreto. Infatti il provvedimento avrebbe avuto un valore se emanato entro il 31 dicembre, ma sarebbe stato pura letteratura se si fosse superato tale termine.
A questo punto, ovviamente, nessuno dei problemi è risolto: continua un processo di conclusione della funzione dell'IRI, ma in condizioni del tutto diverse dopo il decreto-legge n. 598; si riapre dunque la discussione sui tempi e sui modi della privatizzazione della STET, affrontando diverse questioni, la prima delle quali - com'è stato da molti ricordato - è quella dell'authority. Trovo singolare - mi si consenta dirlo - che si imputi al Governo un particolare ritardo, ignorando che tale provvedimento è stato sommerso in Parlamento non, com'è stato detto da un autorevole esponente del Polo, dall'opposizione - questa sì limpida e trasparente - di una delle forze che peraltro si riferiscono alla maggioranza, che in quest'aula ha confermato oggi, per bocca di uno degli esponenti del gruppo di rifondazione comunista, la sua posizione, diciamo così, eufemisticamente perplessa sulla privatizzazione di STET; è stato sommerso - come dicevo - da emendamenti di gruppi che in questa sede hanno accusato il Governo di aver ritardato la presentazione del decreto-legge. Il fatto che alleanza nazionale abbia presentato a quel provvedimento alcune migliaia di emendamenti e che forza Italia non abbia espresso entusiastico consenso a quel testo nell'altro ramo del Parlamento, mi sembra abbastanza noto, per cui non è necessario che insista.
La questione dell'authority è decisiva anche per il rischio, che a me sembra


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molto forte, che corre l'Italia per la particolare anomalia delle presenze imprenditoriali in questo settore; l'eccessiva segmentazione verticale del comparto ha infatti impedito di sfruttare tutte le sinergie e le potenzialità di integrazione orizzontale. Questo è uno dei nodi di politica industriale. Dobbiamo continuare in questo modo o dobbiamo tentare, anche attraverso la costituzione di un'authority, di affrontare con un diverso approccio tale tematica? Credo che i tempi forniti dal decreto-legge, nonché altri fatti intervenuti, compreso l'accordo sulle telecomunicazioni raggiunto poco prima della fine dello scorso anno, consentano forse di affrontare in modo più disteso tale problematica e di concludere sul tema dell'authority.
Vi è poi, non solo per questo settore ma anche per questo settore, la questione tariffaria. Sinora le tariffe sono state utilizzate come strumento di finanziamento parafiscale; le tariffe di molte delle aziende che gestivano servizi in regime di monopolio sono state utilizzate non diversamente dal complesso degli altri strumenti di entrata del bilancio pubblico. Ma nel momento in cui alle aziende si chiede una presenza sul mercato è evidente che la politica tariffaria va largamente ripensata. Ciò va fatto, in qualche caso, per garantire alle aziende una presenza sul mercato che consenta di pagare adeguatamente i costi dei servizi prestati; ma in qualche altro caso tale politica va ripensata - vi è un accenno di ciò nell'intervento del rappresentante di rifondazione comunista - tenendo conto del fatto che una situazione di monopolio ha consentito fino ad oggi di lucrare su tariffe eccessivamente elevate. Quindi si può contemporaneamente garantire la presenza piena dell'azienda sul mercato, la sua capacità innovativa ed anche una rimodulazione delle tariffe che comporti non insensibili riduzioni delle stesse. Credo che questo sia il lavoro al quale si è accinto, nel secondo semestre dello scorso anno, il nucleo operante presso il Ministero del bilancio; ed ulteriori scadenze di tali attività interverranno nei prossimi mesi.
Infine vi è il problema di come garantire che il processo di privatizzazione, nel quadro di questa nuova situazione proprietaria e delle ristrutturazioni interne del gruppo STET (a cui tale nuova situazione proprietaria sottende), non comportino svendite o perdite di funzione. Non è ignoto a nessuno, però, che il controllo di una società per azioni delle dimensioni della STET può essere esercitato anche con quote assai inferiori al 51 per cento del capitale azionario (mi pare il caso in questione).
Credo che queste siano le assicurazioni che il Governo poteva fornire in questa sede. Nessuno più del Tesoro ha presenti il ruolo ed il peso che la STET ha nel panorama produttivo nazionale; nessuno più del Tesoro ha interesse a valorizzare al massimo questa partecipazione ed a che la valorizzazione di tale partecipazione avvenga, certo, anche nell'interesse complessivo della politica di risanamento della finanza pubblica che è compito specifico del Tesoro. Siccome, però, come è noto, il risanamento della finanza pubblica può essere realizzato in due modi, ossia diminuendo in valore assoluto il debito od anche aumentando la quantità della produzione e, quindi, diminuendo la percentuale del debito sulla produzione, nessuno più del Tesoro ha interesse a che la valorizzazione di queste partecipazioni sia anche valorizzazione della complessiva capacità produttiva del sistema economico nazionale.
Da questo punto di vista, i tempi che ci sono stati consentiti dal decreto sono la migliore garanzia che questa funzione sarà perseguita con determinazione dal nuovo azionista di maggioranza della STET, che è poi lo stesso azionista di maggioranza che determinava prima gli orientamenti dell'IRI.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

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