PROGETTO DI LEGGE - N. 1182
Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge
riproduce analoga proposta presentata nella XII legislatura a
firma Saraceni, Finocchiaro Fibelbo, Di Lello Finuoli (AC
899).
La riforma prospettata non è "invecchiata" in questi due
anni ed anzi, alla stregua delle recenti pronunce della Corte
costituzionale in materia di incompatibilità, si rivela da un
lato premonitrice e dall'altro di scottante attualità. La
proposta di legge pertanto riproduce, salvo marginali
modifiche, il testo già presentato nella XII legislatura, che
prende le mosse, a sua volta, dai lavori di un convegno
organizzato dalla Commissione giustizia della Camera dei
deputati nel corso della XI legislatura sotto il titolo "La
giurisdizione e la cultura della legalità. Le regole del
processo penale alla prova". In tale convegno, il presidente
della Commissione stessa aveva posto all'attenzione del
dibattito i seguenti quesiti: "Il giudice delle indagini
preliminari è oggi in grado di mantenere la propria posizione
di "terzietà", assegnatagli con forza dal legislatore della
riforma? In quali errori si è incorsi nella configurazione -
ordinamentale e processuale - della nuova figura? Quali
strumenti sono oggi attuabili, anche sotto il profilo di
possibili interventi normativi, per consentire alla
"giurisdizione di garanzia" del giudice per le indagini
preliminari di funzionare realmente?".
In effetti, questi interrogativi colgono un rilevante
aspetto problematico, tuttora irrisolto, della figura e della
funzione del giudice per le indagini preliminari. Al di là
delle enfatizzazioni che pretendono di affermare un
generalizzato "appiattimento" del giudice per le indagini
preliminari sulle esigenze dell'accusa, non v'è dubbio che la
funzione di garanzia del giudice per le indagini preliminari,
essenziale nel modello processuale disegnato dal codice del
1988, si è rivelata, nella sperimentazione pratica,
istituzionalmente debole.
Intorno alla figura e alle funzioni del giudice per le
indagini preliminari ruotano peraltro non solo questioni di
garanzia, ma anche questioni di efficienza che, del resto, è
una condizione imprescindibile di un esercizio garantista
della giurisdizione. L'esperienza applicativa ha messo in
luce, in particolare, i limiti di funzionalità del giudice per
le indagini preliminari e le carenze dell'udienza preliminare
nello svolgimento del ruolo di controllo sull'esercizio
dell'azione penale e di filtro di accuse immeritevoli di
rinvio a giudizio.
D'altra parte, una sede preliminare appare indispensabile
non solo ai fini delle suddette esigenze di filtro e di
controllo, ma anche per affrancare il dibattimento da una
serie di attività improprie che attualmente ne appesantiscono
lo svolgimento e ne turbano la terzietà.
La presente proposta di legge intende dare una risposta
non episodica né contingente a questi problemi, rimodellando
la figura del giudice per le indagini preliminari e
ristrutturando l'udienza preliminare, nel quadro di un disegno
organico di riforme.
Punto centrale della proposta di legge è la collocazione,
ordinamentale e processuale, del giudice per le indagini
preliminari nell'ambito della sezione dibattimentale e la
conseguente trasformazione della udienza preliminare in
"udienza predibattimentale".
Se è vero che, come da più parti si sostiene, la causa
principale della tendenza del giudice per le indagini
preliminari a farsi carico più delle esigenze investigative
che delle garanzie dell'indagato, risiede nella sua
collocazione all'interno della fase delle indagini
preliminari, delle quali si sente partecipe e responsabile,
appare evidente che il suo inserimento nella struttura
ordinamentale deputata al giudizio e, soprattutto, la pratica
del dibattimento, costituiscono decisivi fattori di correzione
di quella tendenza, essendo idonei a fondare le basi di una
figura di giudice che, "distanziato" dal pubblico ministero, è
caratterizzato da mentalità, cultura, senso di responsabilità
proprie del giudice "terzo".
Lo svolgimento delle funzioni di giudice per le indagini
preliminari e di giudice del dibattimento (ovviamente in
procedimenti diversi) da parte di tutti i giudici della
sezione dibattimentale consente inoltre di moltiplicare il
numero dei magistrati che si occupano delle indagini
preliminari, rovesciando il rapporto numerico tra pubblici
ministeri e giudici per le indagini preliminari, attualmente
sbilanciato a favore dei primi. Si rende così possibile
ampliare la rosa degli abbinamenti tra pubblici ministeri e
giudici per le indagini preliminari, eliminando quella
stabilità di rapporti, professionali e personali, che è
considerata altro fattore non secondario dei lamentati profili
inquisitori dell'attuale figura (e soprattutto dell'attuale
prassi) del giudice per le indagini preliminari.
La nuova figura di giudice per le indagini preliminari,
fortemente responsabilizzato - per cultura, prassi processuale
e collocazione ordinamentale - verso le esigenze del
dibattimento, trova complemento nella trasformazione della
attuale udienza preliminare in "udienza predibattimentale",
configurata come sede nella quale devono trovare soluzione da
un lato le attuali carenze del controllo sull'esercizio
dell'azione penale e dall'altro lato i gravi inconvenienti
attualmente connessi, sotto il profilo sia della garanzia sia
dell'efficienza, alle attività preparatorie del
dibattimento.
Il numero, di gran lunga superiore al limite fisiologico,
di assoluzioni in dibattimento è indice di una incontestabile
alternativa: l'azione penale troppo spesso è esercitata o
infondatamente o senza adeguato corredo di indagini. Nel primo
caso il rinvio a giudizio si rivela "inutile" per la pretesa
punitiva (e dannoso per l'imputato); nel secondo caso, in cui
l'esito assolutorio è addebitabile alle carenze delle
indagini, l'esercizio dell'azione penale è solo "apparente",
con violazione del principio di obbligatorietà. Entrambi i
casi, comunque, rivelano all'evidenza che l'udienza
preliminare non svolge adeguatamente la funzione di filtro e
di controllo.
La causa principale della grave disfunzione va anzitutto
individuata nella persistente riserva mentale, comune a
pubblico ministero e giudice dell'udienza preliminare, che
sarà il dibattimento a risolvere i problemi di un quadro
probatorio incerto o insufficiente, assolvendo l'imputato o
provvedendo alla necessaria integrazione della prova. Una
riserva mentale assecondata e favorita da una latissima
interpretazione - avallata dalla giurisprudenza delle sezioni
unite della Corte di cassazione - dell'articolo 507 del codice
di procedura penale che, dall'originaria previsione di
eccezionale istituto di integrazione probatoria, si va
trasformando in improprio strumento inquisitorio del giudice
del dibattimento.
Il giudice dell'udienza predibattimentale, essendo - per
pratica professionale e per appartenenza all'ufficio
giudicante - consapevole, responsabile e informato delle
esigenze del dibattimento più di quanto possa esserlo
l'attuale giudice dell'udienza preliminare, è senza dubbio
meno disposto a scaricare sul dibattimento le disfunzioni
della fase investigativa ed è incline a soppesare con scrupolo
l'incidenza delle sue decisioni sullo svolgimento del
dibattimento. Tale attitudine va tuttavia corredata da più
incisivi strumenti normativi.
Attualmente, nonostante la eliminazione della necessità
della evidenza della innocenza dell'imputato (articolo 1
della legge 8 aprile 1993, n. 105), il giudice può deliberare
il proscioglimento solo ove risulti positivamente che
l'imputato non ha commesso il fatto o che il fatto non
sussiste o non costituisce reato. Nella presente proposta di
legge si prevede invece, in simmetria con quanto previsto per
l'archiviazione, che la sentenza di proscioglimento deve
adottarsi quando "gli elementi acquisiti nel corso delle
indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in
giudizio".
Peraltro, di fronte ad una accusa che, sulla base delle
sole indagini del pubblico ministero, si prospetta idonea ad
essere sostenuta con successo in giudizio, l'imputato può
richiedere l'assunzione, nell'udienza predibattimentale, di
prove manifestamente idonee a neutralizzare l'apparente
fondamento dell'accusa e a determinare, quindi, il
proscioglimento. Le ragioni del riconoscimento del diritto
dell'imputato di difendersi provando sin dall'udienza
predibattimentale appaiono in linea con il maggior rigore con
il quale il giudice dell'udienza predibattimentale è chiamato
a valutare l'utilità del dibattimento, non solo a garanzia
dell'imputato, ma anche nell'interesse dell'economia
processuale.
In coerenza con il più incisivo potere-dovere di
proscioglimento, si è corretto il farraginoso sistema
attualmente previsto dall'articolo 422, attribuendo
immediatamente al giudice la facoltà di disporre, anche di
ufficio, le prove manifestamente idonee a neutralizzare il
fondamento dell'accusa, provvedendo direttamente alla loro
assunzione.
Tale potere istruttorio, attribuito in vista
dell'eventuale proscioglimento, appare omogeneo ai compiti di
controllo e di garanzia che spettano al giudice per le
indagini preliminari nel processo di tipo accusatorio, con il
quale è incompatibile invece il coinvolgimento del giudice
nelle attività investigative dell'accusa.
Per questa ragione, nel caso in cui la inidoneità delle
acquisizioni delle indagini preliminari a sostenere l'accusa
in giudizio dipenda non da infondatezza dell'accusa, ma da
insufficienza delle indagini, al giudice della udienza
predibattimentale è attribuito - anche qui correggendo
l'ambiguo meccanismo del citato articolo 422 - non già il
potere di disporre e assumere le prove, ma semplicemente di
indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini - da
compiere in un termine prefissato - ritenute necessarie ad
integrare, ai fini di un utile passaggio alla fase del
giudizio, il carente quadro probatorio.
Si realizza così, facendo leva ancora una volta sulla
forte responsabilizzazione del giudice nei confronti della
"utilità" del dibattimento, un efficace controllo sulla
completezza delle indagini, senza che ciò comporti un diretto
coinvolgimento del giudice in attività investigative o una sua
ingerenza nelle strategie del pubblico ministero. Il giudice
dell'udienza predibattimentale deve, infatti, limitarsi - in
adempimento di un compito di controllo sull'esercizio
"inutile" e sull'esercizio "apparente" dell'azione penale - a
verificare se le fonti di prova addotte dal pubblico
ministero, proiettate nello sviluppo del dibattimento, siano
idonee a sostenere l'accusa. Il proscioglimento, conseguente
all'inutile sperimentazione della ulteriore attività
investigativa del pubblico ministero, non è che lo strumento
con il quale il giudice, in adempimento del suo potere-dovere
di controllo e di garanzia, impedisce l'inutile passaggio alla
fase del giudizio.
L'udienza predibattimentale è altresì deputata alla
risoluzione delle questioni preliminari e, in caso di
passaggio alla fase dibattimentale, all'ammissione delle prove
richieste dalle parti. Il dibattimento viene così affrancato
dalla trattazione - spesso assai defatigante - di una serie di
attività che, mentre ne appesantiscono lo svolgimento, non
necessitano di tutte le garanzie del giudizio di merito (in
particolare collegialità e pubblicità), in quanto ne
costituiscono solo un momento preparatorio.
Per quanto riguarda, in particolare, l'ammissione delle
prove, il sistema vigente appare per più versi irrazionale.
Anzitutto, appare palesemente assurdo che testi e
consulenti siano citati, su autorizzazione dell'ufficio
(articolo 468), prima che ne sia stata deliberata
l'ammissione, che potrebbe anche essere negata dal giudice del
dibattimento. Senza dire che la citazione si rivela del tutto
superflua nel caso in cui, concludendosi il processo su una
questione pregiudiziale o preliminare (exceptio
iudicati, nullità, incompetenza, eccetera) ovvero con
applicazione della pena richiesta dalle parti, l'ammissione
del teste o consulente, pur autoritativamente citati a
comparire in giudizio, non viene neppure presa in con-
siderazione.
In secondo luogo, è del tutto raro il caso in cui testi e
consulenti siano sentiti alla prima udienza. Il che non solo è
fonte di disagi per i testi comparsi inutilmente, ma
conferisce al termine di decadenza per il deposito delle liste
(articolo 468) un carattere puramente vessatorio.
L'ammissione, infine, è deliberata al buio dal giudice del
dibattimento che, non conoscendo gli atti delle indagini
preliminari, non è in grado di compiere consapevolmente la
valutazione in ordine alla congruità e alla rilevanza della
prova, impostagli dall'articolo 190.
Parimenti, per quanto riguarda l'acquisizione di
documenti, il giudice del dibattimento, specie in caso di
produzione documentale ponderosa e complessa, è costretto a
decidere con una valutazione approssimativa della rilevanza e
pertinenza dei documenti, salvo improprie incursioni nel
fascicolo delle indagini preliminari, con conseguente
"inquinamento" della sua terzietà.
Del resto, le occasioni in cui il giudice del dibattimento
è costretto a prendere impropria cognizione degli atti delle
indagini preliminari sono, nell'attuale assetto normativo,
numerose e varie.
Si possono ricordare, in via esemplificativa, i casi che
più frequentemente si riscontrano nell'esperienza pratica.
Nei processi con più imputati, alcuni dei quali soltanto
chiedano la definizione anticipata con un rito alternativo, il
giudice prende cognizione del fascicolo del pubblico ministero
e adotta la decisione sulla base degli atti delle indagini
preliminari, che invece non può utilizzare - e che dovrebbe
quindi ignorare - per la definizione della posizione dei
coimputati che hanno scelto il rito ordinario.
Analogamente, il giudice deve conoscere, senza poterli
utilizzare per la decisione sulla responsabilità, gli atti
delle indagini preliminari nei casi in cui, a conclusione del
dibattimento, è chiamato a valutare la fondatezza del dissenso
del pubblico ministero sulla richiesta di un rito
alternativo.
Anche per la risoluzione delle questioni preliminari
sollevate dalle parti (competenza, riunione e separazione dei
giudizi, nullità) il giudice del dibattimento deve esaminare,
per adottare una decisione consapevole, gli atti del fascicolo
del pubblico ministero. E ove le parti si astengano dal
sollevare la questione, il giudice, che non dispone del
fascicolo, non è in grado di rilevarla di ufficio; con la
conseguenza, ove si tratti di nullità insanabile, che il vizio
accompagnerà il processo per tutti i gradi di giudizio.
Di particolare rilievo, tra le questioni preliminari, è
quella relativa alla composizione del fascicolo del
dibattimento, formato dall'ufficio del giudice per le indagini
preliminari, al di fuori del contraddittorio delle parti.
Anche qui, per decidere se un certo atto può essere contenuto
nel fascicolo, il giudice deve per forza di cose prenderne
cognizione: cioè, per decidere se può conoscere un atto deve
previamente conoscerlo.
L'udienza predibattimentale, configurata come momento di
effettivo e funzionale raccordo tra la fase delle indagini e
il giudizio, appare sede idonea a funzionare da "filtro" non
solo rispetto alla "utilità" del dibattimento, ma anche
rispetto a tutte le sopra illustrate attività che ne
appesantiscono lo svolgimento e ne turbano la terzietà.
La verifica della costituzione del rapporto processuale
(con l'oneroso controllo della regolarità delle citazioni), la
risoluzione delle questioni preliminari (spesso assai
complesse), la esaustiva impostazione dei temi probatori (con
benefico effetto di prevenzione dell'uso abnorme dell'articolo
507), l'ammissione delle prove, la formazione del fascicolo
per il dibattimento (di cui viene modificata la composizione,
includendovi gli atti delle indagini preliminari su cui vi sia
richiesta o consenso dell'imputato), sono tutte questioni che
vengono trattate, nel contraddittorio delle parti e nella
semplicità delle forme della camera di consiglio, con la
attiva e consapevole partecipazione del giudice monocratico
che ha piena conoscenza degli atti delle indagini
preliminari.
Lo stesso giudice inoltre, conoscendo la concreta
dimensione dei processi e operando all'interno della sezione
dibattimentale (di cui conosce le esigenze organizzative e la
situazione dei ruoli), è in grado di programmare con
cognizione di causa la distribuzione del carico di lavoro
nelle udienze dibattimentali, tenendo anche conto delle
esigenze delle parti private e del pubblico ministero e
citando testi e consulenti per l'udienza nella quale possono
essere effettivamente esaminati.
Si supera così l'irrazionalità dell'attuale sistema, in
cui la fissazione della prima udienza avviene attraverso un
meccanismo estraneo alla sezione dibattimentale e sulla base
di automatismi che, fondati sul mero titolo di reato, non
tengono conto della concreta complessità del singolo processo,
con la conseguenza di una casuale e sperequata distribuzione
del carico di lavoro delle udienze, che comporta a sua volta,
tra l'altro, i già rilevati disagi per le parti e per i testi
inutilmente convocati.
Mercè la funzione preparatoria dell'udienza
predibattimentale, il dibattimento - affrancato dalle attività
preliminari, defatiganti e improprie rispetto alla solennità
della sede e alla terzietà della decisione del merito,
liberato dal "patteggiamento", impostato su un quadro
probatorio esaustivo e ben delineato - viene effettivamente
destinato soltanto alla enunciazione delle tesi delle parti,
all'assunzione delle prove, alla discussione e alla decisione,
che sono le attività proprie del giudizio, per le quali
soltanto si giustifica il carattere solenne, collegiale e
pubblico del dibattimento.
La ristrutturazione della udienza preliminare trova utile
e necessario complemento nelle modifiche dei riti alternativi,
del procedimento pretorile e dei procedimenti speciali. Questi
ultimi vengono ricondotti o assorbiti nell'unico modello
processuale incentrato sulla udienza predibattimentale, che
anche per il procedimento pretorile, per il giudizio immediato
e per il procedimento direttissimo, costituisce fattore di
effettiva semplificazione.
L'udienza predibattimentale diventa inoltre l'unica sede
per lo svolgimento dei riti alternativi. La richiesta di
applicazione della pena non può più essere avanzata in
dibattimento, mentre il giudizio abbreviato viene allo stesso
tempo rimodellato alla luce delle decisioni della Corte
costituzionale ed esteso nella sua potenzialità deflattiva.
Le modifiche riguardanti l'udienza preliminare richiedono
l'adattamento di alcune norme del codice e dell'ordinamento
giudiziario che sono previste nell'ultima parte della presente
proposta di legge.
Il giudizio abbreviato
Il giudizio abbreviato, concepito, insieme al
patteggiamento, come sede privilegiata della definizione
anticipata del procedimento, doveva servire, nell'intento del
legislatore, a realizzare l'esigenza di deflazionare il
dibattimento, indicata dagli stessi compilatori come esigenza
ineludibile per il funzionamento del nuovo processo penale.
Nell'impostazione "negoziale" dell'istituto, configurato
come "patteggiamento sul rito", il legislatore aveva ritenuto
di subordinare l'instaurazione del procedimento all'accordo
delle parti, attribuendo al pubblico ministero un potere -
insindacabile - di interdire all'imputato che ne abbia fatto
richiesta l'accesso al rito.
Tale impostazione è stata sostanzialmente demolita dai
numerosi interventi della Corte costituzionale. Con le
sentenze n. 66 e n. 183 del 1990, e in particolare con la
sentenza n. 81 del 1991, la Corte ha ritenuto in contrasto con
l'articolo 3 della Costituzione "una disciplina che autorizza
il pubblico ministero ad opporsi non soltanto ad una
determinata scelta del rito processuale (...) ma anche ad una
consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in
caso di condanna, senza neppure dover esternare le ragioni di
tale opposizione, così sottraendola all'obiettiva ed
imparziale valutazione del giudice".
Affermato quindi l'obbligo per il pubblico ministero di
motivare il proprio dissenso e la sindacabilità dello stesso
da parte del giudice, la Corte si è preoccupata di individuare
da un lato i criteri sulla base dei quali il pubblico
ministero può legittimamente motivare il proprio dissenso,
dall'altro "la sede ove il controllo su tale motivazione deve
esplicarsi e il giudice al quale affidare tale controllo".
Con la sentenza n. 81 del 1991 la Corte, confermando il
precedente orientamento, ha individuato come unico criterio
dato al pubblico ministero per esprimere il consenso o il
dissenso "quello imperniato sull'effettiva utilità del
passaggio al dibattimento: criterio che, alla stregua della
normativa in vigore, non può che identificarsi in quello (...)
consistente nel ritenere il processo non definibile allo stato
degli atti".
La Corte, inoltre, ha ritenuto di dover escludere che "il
giudizio abbreviato sia instaurabile senza il consenso del
pubblico ministero" e di affidare quindi il controllo sulla
motivazione del dissenso al giudice del dibattimento al quale
viene riconosciuta, all'esito della fase dibattimentale, la
"possibilità di far luogo alla riduzione di pena allorquando
il dissenso del pubblico ministero gli risulti
ingiustificato".
Il criterio della "non definibilità allo stato degli
atti", criticato da autorevoli commentatori, era però
destinato a vita breve.
A poco più di un anno dalla sentenza n. 81 del 1991 la
Corte ha dovuto prendere atto del fatto che la "definibilità
allo stato degli atti" non è criterio idoneo a garantire un
pari trattamento di tutti gli imputati, in quanto la
completezza della istruttoria dipende da scelte discrezionali
del pubblico ministero.
Nella sentenza n. 92 del 1992 si legge: "Resta
evidentemente fermo, e va anzi ribadito, che l'introduzione o
meno di un rito avente automatici effetti sulla determinazione
della pena non può farsi dipendere da scelte discrezionali del
pubblico ministero. Tali sono, indubbiamente, quelle con le
quali costui decide quali e quante indagini esperire per porle
a base della richiesta di rinvio a giudizio e, più in
generale, quelle connesse alla sua strategia processuale: la
quale può fargli preferire - in quanto li ritenga non
necessari a tal fine - di rinviare al dibattimento
l'esperimento di certi mezzi o l'acquisizione di determinate
prove. Rispetto al giudizio abbreviato ciò comporta
l'inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero può
legittimamente precluderne l'instaurazione allegando lacune
probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate.
Sicché, una volta affermato che un mero atto di volontà del
pubblico ministero non può condizionare l'interesse
dell'ordinamento alla semplificazione del rito e quello
dell'imputato alla riduzione della pena, deve trarsi il
corollario che tale condizionamento non può farsi derivare
neanche da un atto di volontà (implicita) concretatasi nello
svolgimento di indagini insufficienti alla decidibilità con
giudizio abbreviato".
La Corte abbandona dunque il criterio della "definibilità
allo stato degli atti" ed afferma esplicitamente che è
"necessario", al fine di ricondurre l'istituto a piena
sintonia con i princìpi costituzionali, che il vincolo
derivante dalle scelte del pubblico ministero sia reso
superabile con l'introduzione di un meccanismo di integrazione
probatoria", sollecitando un intervento del legislatore, "la
cui urgenza è resa evidente dall'esigenza di ricondurre la
normativa impugnata a piena coerenza coi princìpi
costituzionali".
La presente proposta di legge raccoglie la sollecitazione
della Corte costituzionale e prevede una serie di modifiche
dirette ad eliminare i vizi di costituzionalità, ma anche a
restituire una effettiva funzione deflattiva all'istituto del
giudizio abbreviato.
Non va sottaciuto, infatti, che l'attuale disciplina del
giudizio abbreviato - oltre ad essere, come si è visto, in
contrasto con la Costituzione - ha una limitatissima funzione
deflattiva, ed anzi produce spesso un inutile aggravio per il
dibattimento. Attualmente, infatti, a fronte del dissenso del
pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato
formulata dall'imputato si deve necessariamente dar corso al
dibattimento. Ma se il dissenso del pubblico ministero non era
giustificato, all'esito del dibattimento il giudice dovrà
ridurre la pena di un terzo: in questo modo l'ordinamento
rinuncia sia alla economia processuale, sia alla applicazione
della giusta sanzione ed, in più, grava il giudice del
dibattimento dell'onere di studiare l'intero fascicolo del
pubblico ministero al solo fine di valutare la fondatezza, o
meno, del dissenso.
Nella disciplina che si propone, l'accesso al giudizio
abbreviato è consentito a tutti gli imputati che ne facciano
richiesta e, seguendo le indicazioni della Corte, si
attribuisce al giudice un potere di integrazione probatoria.
Tali modifiche sono perfettamente in linea con la disciplina
del codice e con le sentenze della Corte costituzionale.
Il modello cui si è fatto riferimento è quello del
giudizio abbreviato che si innesta nel procedimento
direttissimo, per il quale l'attuale disciplina del codice non
prevede rigetto della richiesta per l'impossibilità di
decidere allo stato degli atti, ma un'integrazione su
indicazione del giudice (articolo 452, comma 2, del codice di
procedura penale).
Ed è proprio dalla osservazione dell'attuale funzionamento
di questo rito speciale che emerge con evidenza la necessità
di un intervento di razionalizzazione: nel procedimento
abbreviato che si innesta sul giudizio direttissimo, infatti,
la non definibilità allo stato degli atti non è ostativa allo
svolgimento del rito, ma, nello stesso tempo, è valido motivo
di dissenso da parte del pubblico ministero.
Di questo si sono subito resi conto, nella pratica, gli
operatori: si assiste così a richieste di giudizio abbreviato
"con perizia", alle quali il pubblico ministero aderisce
"subordinatamente all'uso da parte del collegio dei propri
poteri ex articolo 452 del codice di procedura penale".
Tali atteggiamenti sono sintomo di un evidente disagio dinanzi
ad una situazione normativa irrazionale. Quando, infatti, le
parti e il giudice non accedono a queste anomale forme di
"patteggiamento sul rito", si verifica che l'entità della
pena, nella misura di un terzo, dipende dalla diversa
"etichetta" sotto la quale si svolgono le medesime attività
istruttorie (nei frequentissimi procedimenti direttissimi per
reati di droga, la mancanza della consulenza del pubblico
ministero sulla sostanza determina, per fattori del tutto
accidentali, lo svolgimento di un rito abbreviato con
assunzione di perizia ex articolo 452, ovvero, in caso
di dissenso del pubblico ministero che non potrebbe ritenersi
ingiustificato, di un giudizio nelle forme ordinarie con la
medesima assunzione di perizia, ma senza sconto di pena).
Il procedimento dovrebbe quindi svolgersi così: l'imputato
chiede il giudizio abbreviato all'udienza predibattimentale;
con la richiesta, sulla quale il pubblico ministero non deve
esprimere il suo parere, gli atti raccolti nelle indagini
diventano prove; il giudice, se ritiene di non poter decidere
allo stato degli atti, assume, anche di ufficio, gli elementi
necessari ai fini della decisione. In caso di condanna il
giudice riduce di un terzo la pena.
Si supera così la principale obiezione di rilievo
costituzionale: il rito diventa accessibile a tutti,
indipendentemente dall'attività di indagine svolta dal
pubblico ministero.
Sul piano degli effetti deflattivi, la richiesta di
giudizio abbreviato risulta fortemente incentivata dalla
possibilità per l'imputato di difendersi provando, mentre il
premio è in ogni caso giustificato dal fatto che l'imputato
accetta che siano utilizzati per la decisione gli atti delle
indagini preliminari, nonché dal fatto, di estrema rilevanza
dal punto di vista dell'e- conomia processuale, che si evita
il dibattimento.
Inoltre, in questo quadro normativo, la potenzialità
deflattiva del rito abbreviato si allarga a tutti quei casi in
cui oggi, per il dissenso del pubblico ministero o per
l'indecidibilità allo stato degli atti, si procede al
dibattimento (salvo poi a riconoscere ugualmente lo sconto di
pena nei casi in cui il dissenso del pubblico ministero o
l'indecidibilità si rivelassero privi di fondamento).
Sul piano delle garanzie, con l'eliminazione del parere
del pubblico ministero non solo si sottrae all'accusa il
potere di incidere sull'entità della pena, ma si supera la
preoccupazione di matrice garantista di cui le prassi
applicative hanno in alcuni casi dimostrato la fondatezza
circa il potere di "ricatto" del pubblico ministero insito nel
"patteggiamento sul rito".
Così potenziato e garantito, il giudizio abbreviato
potrebbe realmente raggiungere, senza sacrificio di valori
costituzionali, i livelli statistici (70/80 per cento)
auspicati per i riti alternativi al momento dell'entrata in
vigore del codice, realizzando nei fatti, per la stragrande
maggioranza dei processi, quella monocraticità dei giudice
verso cui sono orientate alcune proposte di modifica
dell'ordinamento giudiziario.