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Doc. XXIII n. 46


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PARTE I
QUADRO GENERALE

1 Trasformazione della criminalità camorristica dal 1993 ai giorni nostri; cenni di carattere generale.

Può certamente darsi per acquisito un profondo mutamento del contesto criminale rispetto a quello emerso dalle indagini che avevano portato, fra il 1993 ed il 1994, a significativi risultati giudiziari, per merito, essenzialmente, del contributo conoscitivo fornito dai collaboratori di giustizia che, per le posizioni di vertice ricoperte all'interno delle rispettive organizzazioni, avevano consentito, con le loro rivelazioni, di penetrarne i più reconditi segreti.
Proprio in virtù delle indagini scaturite da queste dichiarazioni si era riusciti ad infliggere notevoli colpi alle bande più potenti operanti in Campania.
A Napoli, taluni clan (quelli dei Quartieri Spagnoli e quelli che controllavano il Rione Traiano) sembravano, ormai, definitivamente smantellati.
In provincia di Napoli, le inchieste effettuate avevano portato allo scompaginamento dell'organizzazione di Carmine Alfieri come entità dotata di propria autonomia, mentre gran parte dei gruppi in essa confluiti si era disciolta per la collaborazione di numerosi loro capi, che aveva condotto all'arresto della quasi totalità degli affiliati.
Nella zona di Torre Annunziata e Castellammare di Stabia complesse e difficili investigazioni avevano condotto alla pressoché completa disarticolazione delle bande camorristiche facenti capo a Valentino Gionta e a Michele D'Alessandro, entrambi organicamente legati a famiglie mafiose siciliane. A quello stesso contesto criminale - e cioè al clan di Torre Annunziata in alleanza con quello Nuvoletta di Marano - e grazie alle collaborazioni di aderenti a quei sodalizi si era riuscito ad addebitare uno dei più efferati crimini commessi in Napoli che aveva realmente scosso l'opinione pubblica campana e cioè l'omicidio del giovane giornalista Giancarlo Siani. Tutti i procedimenti in parola che avevano visto anche il coinvolgimento di personaggi della locale politica e che avevano avuto nelle locali amministrazioni posizioni di vertice hanno visto poi condanne in primo grado (1).

(1). Merita in particolare una citazione la vicenda del giornalista Giancarlo Siani, ucciso nel settembre del 1985. Il procedimento che era immediatamente sorto dopo il feroce episodio aveva imboccato la pista dei mandanti napoletani. L'indagine che venne condotta dall'allora procuratore generale Vessia e che si concluse con l'ampio proscioglimento degli imputati scatenò nel mondo giuridico napoletano pesanti polemiche. Successivamente la DDA di Napoli, nella persona del sostituto D'Alterio, grazie all'apporto anche di collaboratori di giustizia ha ricostruito la genesi dell'omicidio - la volontà dei clan Gionta e Nuvoletta di liberarsi di uno scomodo cronista - individuando mandanti ed esecutori. La ricostruzione accusatoria è risultata confermata nella sentenza della Corte di Assise di Napoli del 14 aprile 1997 che ha condannato come mandanti Valentino Gionta ed Angelo Nuvoletta alle pene rispettivamente di anni trenta di reclusione e dell'ergastolo, pene confermate dalla Corte di assise di appello in data 7 luglio 1999.


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Nel casertano, erano stati eseguiti - grazie anche alla collaborazione di un personaggio dal cognome «eccellente», Carmine Schiavone - centinaia di arresti per innumerevoli ed efferati episodi criminosi; e, soprattutto, era stato raccolto il materiale per ricostruire decenni di attività illecite nonchè per individuare i responsabili di alcuni omicidi eccellenti - quali quello contro il sindacalista Imposimato, di recente conclusosi con una sentenza di condanna che ha sancito l'esistenza di un patto tra la camorra casertana, la mafia siciliana e quella della banda della Magliana (2), nonchè quello contro il sacerdote Don Peppino Diana (3) -; erano state scoperte strutture e strategie criminali e collusive di eccezionale livello di pericolosità, per oltre 15 anni sottratte, di fatto, a ogni incisiva azione di contrasto.

(2). Ci si riferisce alla sentenza della II sezione della Corte di Assise di S. Maria C.V. del 17 maggio 2000 che ha condannato Giuseppe Calò e Lubrano Vincenzo alla pena dell'ergastolo.
(3). Con ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli risultano individuati mandanti ed esecutori dell'omicidio, nelle persone di Quadrano Giuseppe, Nunzio De Falco, Piacenti Francesco, Verde Vincenzo, Santoro Mario e Della Medaglia Giuseppe. Il processo si trova attualmente ancora al vaglio della Corte di Assise di S. Maria C.V.

Nel salernitano, territorio storicamente condizionato dalla camorra napoletana, i pentimenti di Alfieri e Galasso avevano suscitato ulteriori collaborazioni che di fatto avevano disarticolato tutte le organizzazioni più pericolose.
La situazione che ne era derivata era stata quella di una sostanziale polverizzazione delle associazioni criminali, con il fallimento dei tentativi «federativi» di cui erano stati in precedenza espressione la N.C.O. di Raffaele Cutolo e la «Nuova Famiglia»; struttura quest'ultima dalla quale erano sorti il clan dei Casalesi e quello capeggiato da Carmine Alfieri, che tale schema organizzativo avevano portato avanti sino a divenire, per potenza militare e capacità di infiltrazione negli apparati dello Stato, i più importanti sodalizi della regione.
Con l'andare del tempo, dunque, si erano rese sempre più evidenti caratteristiche di crescente «frammentazione anarcoide» della camorra napoletana, tendente ad aggregazioni e riaggregazioni suscettibili di continua composizione e scomposizione sul modello delle bande criminali urbane di tipo americano, alle quali era già stato imputato l'elevatissimo numero di omicidi che aveva caratterizzato il 1996 e il 1997; e ciò derivava essenzialmente, più che da caratteristiche di tipo genetico della delinquenza, da una sorta di condizione di fluidità seguita ai numerosi colpi inflitti ai vecchi assetti criminali dall'operato della magistratura e delle forze dell'ordine, che imponeva la ricerca di nuovi assetti e gerarchie in una cruenta lotta ingaggiata tra i clan per il controllo delle attività illecite.
D'altra parte, l'arresto dei capi storici delle organizzazioni vincenti aveva determinato il riemergere di antiche rivalità, di antagonismi e di nuove ambizioni da parte di gregari che, mal tollerando il permanere della supremazia degli antichi vertici ormai privati della libertà, si erano resi protagonisti di scissioni o della costituzione di nuovi gruppi in aperto contrasto con i tradizionali apparati gerarchici


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esistenti, cagionando, in occasione di episodi eclatanti - quali l'omicidio di Silvia Ruotolo e l'esplosione dell'autobomba in via Cristallini, su cui fra breve si ritornerà - non indifferenti turbamenti per l'ordine pubblico, così da giustificare l'adozione di provvedimenti straordinari, come il ricorso all'Esercito per la tutela degli obiettivi a rischio.
In questo periodo va segnalato il tentativo da parte di un gruppo criminale, in particolare quello di Secondigliano facente in un primo momento capo a Gennaro Licciardi, di affermarsi come unico punto di riferimento di tutti i sodalizi della città ed in parte della provincia.
L'escalation degli episodi di violenza nella città capoluogo in quel periodo - che non trova omogenea corrispondenza nelle altre zone della Campania - merita di essere ripercorsa proprio perchè emblematica della situazione criminale determinatasi

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Terminata da poco la violenta guerra di mafia tra la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia alla quale lo stesso Licciardi apparteneva, quest'ultimo maturò fin da quel periodo, il proposito, consapevole della propria forza criminale e dei legami di solidarietà e di affinità che lo legavano ad altri gruppi camorristici già aggregati nel cartello anticutoliano, di estendere il proprio dominio, partendo dal quartiere di Secondigliano nel quale operava originariamente, a tutta la città.
Primo atto di questo disegno fu la nascita di una «federazione» fra il clan Licciardi ed i clan dei fratelli Mallardo, operante in Giugliano in Campania, zona confinante con Secondigliano, e con quello di Edoardo Contini, operante nei quartieri del Vasto e nelle zone del rione Amicizia e di San Giovaniello.
I vincoli di alleanza criminale erano cementati da stretti legami familiari, avendo gli omonimi capi dei gruppi camorristici sposato tre sorelle.
All'interno di questa stabile aggregazione criminale lo stesso Gennaro Licciardi assunse un ruolo di aperta leadership, forte del carisma e del prestigio criminali acquisiti nel corso degli anni del sanguinoso scontro con i cutoliani.
Già all'epoca, infatti, Licciardi poteva contare su un manipolo di fedelissimi sottocapi a lui profondamente legati da vincoli di amicizia e divenuti a loro volta capi di altre strutture camorristiche operanti nello stesso contesto cittadino.
È il caso dei gruppi criminali facenti capo a Gaetano Bocchetti, operante in Secondigliano, alla famiglia Lo Russo, operante prima nella zona della Masseria Cardone e poi nei quartieri di Marianella e Piscinola, a Luigi Esposito, operante nelle zone di San Pietro a Patierno e Casavatore (unitamente al gruppo di Ernesto Vacca), a Gaetano Guida, operante nella zona di Miano, a Gaetano Stabile, operante nel quartiere di Chiaiano ed infine di quello capeggiato da Costantino Sarno, operante nella zona di Miano.
La forza militare e finanziaria di questa originale struttura criminale era tale, già all'inizio degli anni '90, da collocare Gennaro Licciardi in un ruolo di assoluta centralità nelle dinamiche criminali napoletane, divenendo il riconosciuto punto di riferimento nel quadro


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di equilibri tradizionalmente mutevoli, arbitro o feroce risolutore di ogni controversia di rilievo.
L'esistenza di tale struttura criminale risulta accertata processualmente in modo definitivo.
All'epoca (17 novembre 1994) in cui fu pronunciata la sentenza del Tribunale di Napoli che condannava Gennaro Licciardi ed alcuni dei suoi più fidati uomini quali promotori ed organizzatori del cartello criminale appena descritto, il controllo diretto della consorteria criminale si era ormai esteso ad altre zone della città (in particolare alle zone di Posillipo, della Torretta, del Vomero, dell'Arenaccia, di Barra), attraverso l'azione di gruppi criminali tutti operanti sotto il controllo della famiglia Licciardi.
La morte, avvenuta nei mesi successivi nel carcere di Voghera per setticemia, del detenuto Gennaro Licciardi ha segnato il momento d'avvio di una crisi di questo sostanziale nuovo equilibrio che è alla base delle successive (e ancora attuali), violentissime contrapposizioni criminali.
La prima manifestazione della difficoltà di conservare l'equilibrio mafioso garantito dal ruolo di Licciardi è stata rappresentata dallo scontro armato tra il clan Stabile e il clan di Costantino Sarno.
Quest'ultimo gruppo camorristico, forte dell'appoggio degli altri gruppi parte della federazione Licciardi, tentava così di impadronirsi del mercato degli stupefacenti.
Il sanguinosissimo scontro, iniziato nell'ottobre del 1995, si concludeva nei primi mesi del 1997 con il prevalere dell'alleanza di Secondigliano.
La morte del capo dell'alleanza criminale dava, però, il via, anche nella stessa zona di Secondigliano a rivalità e lacerazioni interne.
Gruppi guidati da personaggi sino ad allora di secondo piano tentavano di approfittare dello stato di confusione per conquistare una propria autonomia.
Emblematico, nella catena di fatti di sangue, é l'omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa nel corso di una violenta sparatoria scatenata in pieno giorno nelle strade del quartiere Vomero al fine della realizzazione di un agguato camorristico organizzato, secondo la ricostruzione investigativa attualmente al vaglio dibattimentale, dal gruppo camorristico di Giovanni Alfano che aveva tentato di estendere la propria sfera di influenza tradizionale dal Vomero alla zona di Posillipo.
La repressione violenta di queste tendenze centrifughe consentiva il rinsaldarsi del potere della famiglia Licciardi, ma anche la trasformazione della struttura di governo criminale dell'alleanza camorristica vincente, sostituendosi alla condizione di predominio personale di Gennaro Licciardi una sorta di struttura di coalizione composta dai principali «luogotenenti» e da alcuni dei familiari del Licciardi, in grado di affermare il proprio predominio in quasi tutte le aree metropolitane, assorbendo le organizzazioni minori ovvero annientando i più agguerriti sodalizi rivali.
Si concludeva così una prima fase di grandissimo allarme per la situazione dell'ordine pubblico a Napoli.
In questa fase, era comunque la zona di Secondigliano il teatro degli scontri più sanguinosi.


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Estendendosi presto nel resto della città, nei primo mesi del 1997 aveva, infatti, avuto inizio un durissimo scontro tra i successori di Licciardi e il clan Prestieri, legato al potente gruppo rivale di Paolo Di Lauro pure operante in Secondigliano. In tale guerra trovavano la morte una decina di persone tra i quali Vincenzo Esposito, figlio di Gennaro e nipote di Gennaro Licciardi, il quale, ancorché minorenne, era divenuto il sicario più spietato dell'organizzazione.
La temporanea condizione di crisi della «federazione» ruotante attorno alla famiglia Licciardi si ripercuoteva negli assetti criminali di altre zone della città, innescando il riacutizzarsi, nella zona orientale, di antiche faide tra i clan Mazzarella e Rinaldi, Formicola ed Altamura che progressivamente coinvolgevano anche i gruppi Reale, Cuccaro-Alberto-Aprea e Sarno.
Gli scontri armati che ne sarebbero seguiti, costati decine di morti, avrebbero sconvolto la vita dei quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli.
La tumultuosità degli eventi delittuosi sarebbe stata contestualmente accresciuta dall'improvvisa e gravissima rottura dei rapporti tra Costantino Sarno ed il resto dell'Alleanza di Secondigliano, risoltasi, in breve tempo, nell'assassinio di numerosi elementi del clan Sarno ed nell'isolamento dello stesso Sarno, costretto a risiedere nel territorio della ex Jugoslavia e quindi a costituirsi, iniziando una collaborare con la giustizia, poi interrotta.
La rottura aveva avuto per causa diretta la spartizione degli enormi guadagni connessi al controllo del contrabbando di tabacco lavorato estero, settore la gestione del quale Sarno aveva rivoluzionato, introducendo metodologie innovative che, unitamente ai guadagni, avevano condotto, di fatto, l'alleanza di Secondigliano a egemonizzare, così comprimendosi i tradizionali interessi concorrenti del clan Mazzarella e degli altri gruppi attivi nella zona orientale della città, il controllo diretto della quale, a sua volta, trattandosi di area prossima ad un importante processo di investimenti e di sviluppo economico, obiettivo non secondario dei cartelli criminali.
In tale scenario affaristico-criminale risiedono le ragioni della guerra di camorra, che ha visto violentemente contrapporsi il cartello camorristico ormai noto come l'Alleanza di Secondigliano e i gruppi camorristici organizzati attorno agli interessi della famiglia Mazzarella.
Nel breve volgere di poche settimane, attraverso delitti che si sono susseguiti anche a distanza di poche ore l'uno dall'altro, si consuma una serie di delitti che pare inarrestabile.
Il delitto che innesca la guerra di camorra in questione è stato l'omicidio di Vincenzo Siervo, da sempre legato a Mazzarella, ucciso in Casoria il 25 gennaio 1998.
Il giorno successivo, a seguito di agguato dettato da evidenti finalità ritorsive, vengono uccise quattro persone - viene colpito anche Salvatore Vollero coinvolto nella sparatoria in maniera del tutto occasionale - risultate appartenenti al clan di Edoardo Contini, detto «o Romano».
Lo scontro non si esauriva in questo eclatante agguato, anzi proseguiva ancora con un nuovo tentativo di omicidio (in danno di Ciro


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Uccello, legato alla banda Contini), verificatosi il successivo 11 febbraio.
Nello stesso giorno, veniva rinvenuto il cadavere di un affiliato al clan Mazzarella.
Il 12 febbraio veniva ucciso Sergio Annunziata altro membro del clan Mazzarella, il giorno seguente lo slavo Aceski, pure considerato inserito nel clan Mazzarella.
Il 16 febbraio aveva luogo una sparatoria innanzi al portone d'ingresso della casa circondariale di Poggioreale, nel pieno di un'area presidiata dall'esercito a seguito della quale veniva ucciso Francesco Mazzarella (padre di Vincenzo, capo dell'omonima organizzazione e reale obiettivo dell'agguato) e gravemente ferito Antonio Palladino. Dopo pochi minuti, il cadavere di Egidio Cutarelli veniva abbandonato da un'auto in corsa dinanzi a un ospedale cittadino.
Le indagini consentivano di comprendere che dinanzi all'edificio penitenziario vi era stato uno scontro aperto tra i componenti dei due gruppi contrapposti.
Infatti, quella sera doveva essere scarcerato Vincenzo Mazzarella, essendo noto che non era stato convalidato il fermo disposto nei suoi confronti due giorni prima per il delitto di concorso in altro omicidio. Pertanto, sul luogo si erano recati componenti del clan di appartenenza per accoglierlo e scortarlo a casa, nonché membri dei clan avversari, animati da ben diverse intenzioni.
Nell'imminenza della effettiva scarcerazione i due gruppi armati entravano in contatto e ne scaturiva un conflitto a fuoco che vedeva, da un lato, la morte del Cutarelli, membro dell'Alleanza di Secondigliano e dall'altra il ferimento del Palladino, accompagnatore del vecchio Mazzarella che trovava, invece, la morte.
Nonostante il clamore degli eventi e la pressione delle indagini di polizia, il successivo 23 febbraio veniva ucciso Giovanni Mallo, il 24, all'interno di una concessionaria di autovetture nella quale aveva cercato riparo, Salvatore Alfano, entrambi membri del clan di Sarno Costantino che avevano deciso di schierarsi con il clan Mazzarella, offrendo basi logistiche all'interno dell'area di Secondigliano.
Il 26 febbraio, nei pressi della stazione di Piazza Garibaldi, veniva ucciso Gennaro Guardigli.
Il 27 febbraio venivano uccisi Enrico Figliolini e Carmine Zambello nei pressi di Porta Nolana, zona controllata direttamente dal clan Mazzarella, cui i due erano affiliati.
La brutale catena di fatti di sangue appena ricordato ha rischiato di trascinare in una spirale inarrestabile di lutti e terrore le speranze di crescita economica e civile di un'intera comunità.
Quelle violenze, del resto, non si sarebbero arrestate.
Il gruppo camorristico facente capo ai Mazzarella da tempo, del resto, aveva deciso di intraprendere con determinazione lo scontro con i clan di Secondigliano, a tal fine ricucendo tradizionali rapporti di alleanza, quale quello con la banda Misso, ancora attiva nel centrale rione Sanità ed oggetto delle mire espansionistiche del cartello di Secondigliano, attraverso il clan Lo Russo.
La gravità eccezionale della situazione nella quale agiscono feroci gruppi criminali in grado di disporre di armi in gran quantità e del


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controllo militare di estese aree territoriali si sarebbe ulteriormente rivelata in eclatanti azioni delittuose.
La disgregazione di vecchie e nuove strutture criminali avrebbe, del resto, acuito la condizione di conflittualità armata ormai diffusa su gran parte del territorio metropolitano.
Nella zona di Ponticelli, un gruppo di camorristi capeggiato da Antonio De Luca Bossa si staccava dal clan Sarno, schierandosi al fianco della Alleanza di Secondigliano e minacciando il controllo delle attività illecite nella zona ed in quella dei comuni limitrofi di Cercola, Massa di Somma, San Sebastiano al Vesuvio e Volla.
Lo scontro inevitabile si sarebbe manifestato con il ricorso all'uso di un'autobomba (26 aprile 1998) al fine di eliminare Vincenzo Sarno.
Nel primo caso recente di ricorso camorrista a metodi stragisti (le indagini consentono di ritenere, allo stato, accertato il coinvolgimento diretto di esponenti di vertice dell'Alleanza di Secondigliano) si sarebbe sperimentata una tecnica criminale apertamente tesa ad abbattere ogni ostacolo al raggiungimento dell'obiettivo avuto di mira ed alla diffusione del terrore fra i rivali e nell'intera popolazione di interi quartieri.
A questa tecnica le organizzazioni camorristiche sarebbero ricorsi anche in seguito, attraverso l'esplosione dell'autobomba collocata all'esterno di un circolo ricreativo abitualmente frequentato da esponenti del clan Misso, sito in via Cristallini, nel pieno centro della zona della Sanità.
Il giorno successivo, si accertava l'esplosione di un colpo di bazooka contro la casa di un esponente della famiglia Lago di Pianura.
Oscuri messaggi intimidatori paiono collegati al provocato rinvenimento, in quei giorni, nelle immediate adiacenze del nuovo Palazzo di Giustizia, di un motoveicolo di provenienza furtiva nel bagagliaio del quale era stato installato un ordigno esplosivo con meccanismo di innesco disattivato.

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Dalla relazione depositata nell'audizione del giugno 2000 dal Procuratore della Repubblica di Napoli, si da atto come nel 1997 si sia verificata un'innegabile difficoltà degli apparati repressivi dello Stato nel fronteggiare l'emergenza palesatesi.
La difficoltà, secondo la condivisibile analisi del Procuratore, era da ricollegarsi a una serie di fattori ed in particolare:
la difficoltà e la lentezza nella celebrazione dei processi, con la inevitabile liberazione, per decorrenza dei termini di custodia cautelare, di numerosi esponenti di organizzazioni camorristiche i quali poi, ripresentandosi sul territorio, avevano preteso di riacquistare le vecchie posizioni dominanti, innescando ulteriori episodi di conflittualità;
il progressivo arresto verificatosi nel settore delle collaborazioni con la giustizia, o comunque la involuzione delle stesse, essendo sostanzialmente cessato l'apporto conoscitivo di soggetti ricoprenti posizioni di vertice nei clan. Il modesto profilo criminale dei nuovi «collaboranti», infatti, se consentiva di far luce su singoli episodi criminosi, non permetteva una esatta comprensione delle dinamiche


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criminali interne ed esterne ai singoli gruppi, con conseguente agevole sostituibilità dei soggetti privati della libertà personale;
la inadeguatezza delle tecniche investigative degli organi inquirenti, ormai abituati al mero riscontro delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e disabituati a percorrere la via di autonome investigazioni che da tali contributi prescindano, specie in materia di accertamento delle responsabilità connesse ai singoli omicidi di camorra. Da ciò, la conseguenza della sostanziale impunità dei loro autori nella immediatezza dei fatti e il differimento dell'accertamento delle singole responsabilità a un futuro non meglio precisato, in vista di apporti conoscitivi forniti da nuovi collaboratori di giustizia.

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Negli anni più recenti - fermandosi, per il momento, all'analisi della sola città di Napoli, proprio per il suo valore emblematico - la situazione è apparsa stabilizzarsi: gli anni di sanguinosi conflitti avevano condotto al ristabilimento di un nuovo ordine camorristico e alla cessazione di quella frantumazione e polverizzazione cui si è fatto riferimento, attraverso la costituzione di federazioni e la creazione di una serie di vincoli e di alleanze caratterizzati da sostanziale stabilità, pur con le limitazioni che a una definitiva cristallizzazione degli equilibri sono frapposte dalle caratteristiche storiche della criminalità organizzata napoletana e dalla non ancora avvenuta «normalizzazione» di alcune aree.
Il nuovo assetto - la materiale dimostrazione del quale si ricava proprio dalla caduta progressiva del numero degli omicidi e dei delitti di sangue a matrice camorristica registrata negli anni 1998, 1999 e nei primi mesi del 2000 (4) - appariva chiaramente percepibile proprio, e in primo luogo, nella città di Napoli, in cui la cosiddetta «Alleanza di Secondigliano», ormai dominante sull'intero territorio urbano, era riuscita a realizzare una sorta di equilibrio, sia pure precario, tra diverse bande camorristiche operanti nella città (dalle quali percepiva quote dei ricavati illeciti), facendo prevalere ora l'uno ora l'altro sodalizio, in funzione degli interessi che oggettivamente risultavano prevalenti.

(4). Per quanto riguarda il numero di omicidi compiuti in Campania dai dati tratti dal Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata del Ministero degli Interni risulta che essi sono stati 185 nel 1997, 199 nel 1998, 151 nel 1999. Dai dati forniti, poi, dalla Procura di Napoli, riferiti specificamente agli omicidi di matrice camorristica, è possibile individuare il numero che riguarda lo specifico distretto negli ultimi due anni; nel 1998 vi sono stati nel distretto di Napoli 116 omicidi, di cui 94 a Napoli e provincia e 22 a Caserta e provincia; nel 1999 in totale 76, di cui 55 tra Napoli e provincia, 19 tra Caserta e provincia e 2 tra Avellino e provincia. Nel 2000 secondo i dati forniti dal Procuratore di Napoli - periodo fino a metà giugno 2000 - sono avvenuti 44 omicidi, di cui 34 tra Napoli e provincia, 9 tra Caserta e provincia ed 1 tra Benevento e provincia.

Per l'ennesima volta è stato confermato, cioè, che spesso l'assenza di episodi eclatanti, lungi dall'attestare la debolezza delle organizzazioni criminali, rappresenta, invece, il sintomo più evidente della pervasività del controllo mafioso che le stesse esercitano sul territorio, tanto da eliminare qualsivoglia fenomeno di conflittualità, interna ed esterna.


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Tale pervasività rende particolarmente drammatica la situazione al punto che può apparire che parte del territorio sia controllato dalla criminalità anche se tale impressione va inserita in un'analisi complessiva che tanga conto sia della capacità di penetrazione dell'universo camorristico che delle risposte a esso in modo che siano ugualmente evitate sia visioni retoricamente armonistiche e rassicuranti che rappresentazioni totalmente negative e apocalittiche.
La condizione di, pur sempre relativa, pax camorristica sembra mutata proprio in concomitanza con il sopralluogo da ultimo effettuato nella città partenopea.
L'aumento vertiginoso degli omicidi nel periodo dalla tarda primavera del 2000 secondo il Procuratore distrettuale sembrerebbe giustificato da una frattura determinatasi all'interno dell'alleanza di Secondigliano tra esponenti della famiglia Lo Russo ed altri della famiglia Licciardi, correlata al mancato pagamento di un ingente quantitativo di sostanza stupefacente, per circa 800 milioni di lire.
L'escalation delle attività omicidiarie ha, in particolare, interessato la zona di Pianura, dove, fra l'altro, un commando omicida ha fatto fuoco su due giovani incensurati scambiandoli, stando almeno agli esiti delle prime attività di indagine, per due sentinelle di un locale capocosca (tale Marra) del clan Lago.
L'omicidio dei due giovani innocenti ha sollevato dal torpore il quartiere che massicciamente ha partecipato ad un corteo-fiaccolata anticamorra, accompagnato dalla apposizione di una lapide per ricordare l'inutile fine dei due ragazzi. La lapide fatta apporre dal comune di Napoli è stata oggetto di una provocatoria e sfrontata richiesta di rimozione avanzata per le vie legali (!!!) da parte degli esponenti del clan Lago.
Pure particolarmente colpita è l'area occidentale e cioè il comprensorio tra Fuorigrotta e Bagnoli; gli omicidi commessi nel periodo estivo - fra di essi si segnala la sparatoria avvenuta in un mercatino rionale in pieno giorno con il rischio di coinvolgimento di persone del tutto estranee - sembrano rappresentare una attacco al clan dei D'Ausilio e solo in parte appaiono spiegabili con il tentativo di radicare un consistente predominio in zona in attesa di lucrare gli «indotti» connessi all'operazione cosiddetta «Bagnoli 2000».
Riservando alla analisi più particolareggiata ciò che è avvenuto nelle altre province, va invece, posto in rilievo come accanto ad una situazione esplosiva in città, nella provincia napoletana sembra permanere una vera e propria pax mafiosa.
Con l'esclusione della zona di Acerra - dove è in atto un vero e proprio scontro tra i clan locali - negli altri contesti dell'hinterland partenopeo i singoli omicidi sembrano spiegabili come una sorta di assestamento degli equilibri sostanzialmente consolidati. Fra di essi merita certamente una segnalazione l'omicidio dell'imprenditore Falanga avvenuto in Torre del Greco; i primi accertamenti sembrano accreditare la tesi che il Falanga non sia voluto piegare alle logiche estorsive dei locali clan e sia perciò stato punito anche in modo eclatante. Se questa analisi dovesse risultare corretta, sarebbe un ulteriore e certamente pericoloso segnale di un controllo realmente asfissiante di tutte le attività raggiunto nel contesto provinciale.


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In provincia del resto operano clan di rilevante forza e spessore - v. il già citato gruppo Mallardo di Giugliano - che molto spesso forniscono la manovalanza anche per le attività delittuose della città.

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L'excursus sopra fatto - che si completerà con l'analisi delle varie articolazioni criminali e dei singoli contesti provinciali - permette di elaborare una qualche preliminare considerazione.
Ciò che emerge in modo preoccupante è, in primis, l'utilizzo, divenuto quasi fisiologico dei metodi cosiddetti stragisti. Se è vero, infatti, che di tali metodi si era avuto già un'anticipazione durante il periodo passato - basta, qui ricordare, l'autobomba fatta esplodere in Roma per ammazzare un personaggio eccellente, quale il braccio destro di Cutolo, Casillo - è, purtroppo, altrettanto vero che essi oggi vengono utilizzati anche in casi di scontri ordinari tra le bande rivali - basta sul punto richiamare l'autobomba di via Cristallini nella sanità, l'autobomba utilizzata per eliminare Vincenzo Sarno o l'uso del bazooka contro un esponente del clan Lago.
L'altra preoccupante considerazione è che l'omicidio è diventato il metodo ordinario di risoluzione dei conflitti e che, troppo spesso, anche per i colpi diretti e continui inferti dalle forze dell'ordine, i sicari sono persone assolutamente «impreparate» ed in molte occasioni nemmeno a perfetta conoscenza degli obiettivi e dei luoghi nei quali operare. È un dato che getta una luce sinistra sui rischi che può correre il cittadino comune di coinvolgimento in fatti di sangue. Vanno in questo senso ricordati gli omicidi che hanno visto coinvolti ignari bambini - il caso del piccolo Fabio De Pandi - passanti - Silvia Ruotolo di cui si è detto o Giuseppina Guerriero, uccisa in Scisciano - o persone persino scambiate per altri - ci si riferisce al clamoroso episodio dell'omicidio dei tre giovani operai del pastificio Russo di Cicciano, scambiati (come le indagini, che hanno portato alla cattura ed alla individuazione dei colpevoli, hanno dimostrato) per estorsori di un clan rivale e fatti segno di un'azione di fuoco impressionante o come il recentissimo e già citato episodio di Pianura - .

1.1. La situazione attuale nella città di Napoli e nella provincia.

L'analisi particolareggiata della situazione dei clan nelle varie province campane appare utile ai fini dell'analisi che si sta effettuando, sia perchè dimostra concretamente la veridicità delle affermazioni fatte sopra sulla polverizzazione delle organizzazioni criminali sia perchè è un ulteriore riprova di quanto il fenomeno sia massiccio ed indirettamente rende evidenti come in esso siano coinvolte numerosissime persone.
In un documento parlamentare che si pone l'obiettivo di fotografare la situazione e di trarre alcune considerazioni anche operative, una parte dedicata agli attuali assetti non può assolutamente essere omessa.

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Cominciando l'analisi da Napoli e dalla sua provincia può essere affermato con assoluta tranquillità che - a differenza, persino, della provincia casertana - non esistono zone franche del territorio in discussione, nelle quali cioè non operano con maggiore o minore forza sodalizi di tipo camorristico.
È una considerazione amara ma essa è la conseguenza della elaborazione dei dati forniti alla Commissione e riportati anche nelle relazioni predisposte dal Procuratore della Repubblica di Napoli, dal Prefetto e dalle Forze di Polizia.

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Con riferimento specifico alla città di Napoli appare possibile distinguere all'interno della vasta area metropolitana tre zone - e cioè quella Orientale, quella Centro Settentrionale e quella Occidentale.
Nel comprensorio di Napoli Est - Area Orientale - vengono inclusi i quartieri cittadini di Poggioreale, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio e Barra.
I clan di questo territorio hanno una tradizione di grandi alleanze e sanguinose guerre.
A S. Giovanni a Teduccio i Rinaldi risultano ormai federati con i Reale e gli Altamura, in contrapposizione all'analogo cartello formato dalle famiglie Mazzarella, Formicola e D'Amico.
La zona di Barra, successivamente alla sostanziale scomparsa dei Nemolato, risulta controllata dalle famiglie Aprea-Cuccaro-Alberto, che sono riuscite a emarginare quasi totalmente il gruppo capeggiato dai fratelli Minichini.
A Ponticelli permane il contrasto tra i De Luca-Bossa, appoggiati dall'Alleanza di Secondigliano, e i Sarno, sostenuti da Mazzarella..
È in atto in questo momento un'azione comune tra i gruppi vincenti di Barra e Ponticelli finalizzata alla definitiva eliminazione dei Sarno. I primi, che controllano anche le zone di Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Massa di Somma e Volla, sembrano aver soppiantato il clan rivale nella gestione del traffico degli stupefacenti.
La zona di Poggioreale appare saldamente sotto il controllo del gruppo Contini.
Con riferimento all'area centro-settentrionale del tutto particolare si presenta la situazione di Forcella. Il clan Giuliano, che detiene da tempo immemore il controllo del quartiere cittadino, è segnato da un forte scontro interno e dal declino dei suoi esponenti storici di vertice, anche per la collaborazione con la giustizia avviata da due dei fratelli del capo storico della «famiglia», Luigino.
Sembrerebbe, allo stato, essere in atto un tentativo di ricompattazione delle nuove leve a opera di soggetti finora marginali nell'ambito del sodalizio, che mirano ad assumere, in esso, posizioni apicali. Sostanzialmente scomparsa, come entità criminale autonoma, risulta, invece, la famiglia Stolder.
I cosiddetti. Quartieri Spagnoli sono stati caratterizzati nel passato dall'incontrastato dominio del clan Mariano, che è stato, però, messo in crisi dai numerosi arresti conseguiti alle indagini giudiziarie. In esso, agli inizi degli anni '90, avvenne una scissione, promossa da Salvatore Cardillo ed Antonio Ranieri.


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Gli arresti dei principali esponenti delle predette organizzazioni determinarono un loro oggettivo indebolimento a vantaggio di un altro gruppo, quello capeggiato dalla famiglia Di Biasi.
Il controllo delle attività illecite è attualmente conteso, pertanto, fra i Di Biasi e gli «scissionisti» di S. Anna di Palazzo, che appaiono anch'essi in crisi a causa dell'incarceramento dei loro esponenti di vertice.
Praticamente scomparso è il gruppo delle cosiddette «teste matte», mentre i Mariano rimangono solo come entità criminale potenziale, stante la detenzione di tutti i capi storici della famiglia.
Chiaia, Torretta, Posillipo, Vomero, Arenella e la zona collinare vedono la presenza camorristica degli Alfano e del contrapposto gruppo Caiazzo-Cimmino, alleato con i Calone-Anastasio di Posillipo, questi ultimi direttamente inseriti nell'Alleanza di Secondigliano.
Continua, sulla scia degli anni scorsi, il declino del clan Alfano, decisamente soccombente rispetto al gruppo Caiazzo-Cimmino, ma si avvertono segni (in particolare gli omicidi di Ruffano e Consiglio, affiliati al clan Caiazzo, avvenuti il 28.4.1999 e la sanguinosa risposta concretatasi nell'eliminazione di Montebello e Testa, aderenti al gruppo Cimmino) che lasciano ipotizzare lo sfaldamento dell'alleanza in questione.
Particolarmente conflittuale risulta la situazione del quartiere Sanità, dove la scarcerazione di Giuseppe Misso, personaggio di notevole carisma coinvolto anche nelle indagini sulla strage del rapido 904 e ritenuto in rapporti con ambienti dell'eversione di destra, ha riaperto le ostilità tra i clan. Attualmente il cartello Vastarella-Tolomelli, forte della sua alleanza con il cartello di Secondigliano, risulta contrapposto a quello Misso-Pirozzi.
La zona di Secondigliano - e in genere la periferia settentrionale di Napoli, comprensiva dei quartieri di Miano, Piscinola e San Pietro a Patierno - ha conosciuto, in conseguenza della morte del boss Gennaro Licciardi, una polverizzazione dei gruppi criminali in campo.
Gli stessi, nella consapevolezza dell'impossibilità per ciascuno di assumere il sopravvento sugli altri, si sono consociati in una confederazione denominata «Alleanza di Secondigliano», che ha raggiunto una posizione egemonica su tutta la città di Napoli.
La struttura confederativa ha consentito alla «Alleanza» di sopravvivere anche ai numerosi colpi inflitti dalle indagini giudiziarie, che hanno portato a decine di arresti e alla cattura di numerosi esponenti di spicco latitanti, come Pietro Licciardi.
Si è già sottolineato come i recenti omicidi sembrino testimoniare, peraltro, la recente frattura insorta nell'alleanza tra le famiglie Lo Russo e Licciardi.
La posizione preminente dell'«Alleanza di Secondigliano» fra tutte le organizzazioni operanti sul territorio urbano appare direttamente correlata alla sua capacità militare e alle intese che ha saputo instaurare. Indagini giudiziarie hanno posto in evidenza la convenienza bilaterale di siffatti rapporti di sinergia criminale, giacchè i clan di Secondigliano percepiscono, in forza di essi, quote sui proventi delle attività illecite autonomamente espletate dai sodalizi alleati, e questi ultimi si avvalgono dell'appoggio dei primi per il mantenimento del controllo del territorio.


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Si è, così, verificato che i clan napoletani appoggiati dall'«Alleanza di Secondigliano» sono risultati prevalenti nei confronti delle associazioni rivali: i Tolomelli-Vastarella nei confronti del Misso-Pirozzi; De Luca Bossa, nonché gli Aprea-Cuccaro-Alberto, nei confronti dei Minichini e dei Sarno; i Caiazzo-Cimmino nei confronti di Alfano.
L'estensione della sfera di influenza dell'Alleanza di Secondigliano risulta ulteriormente accentuata dai rapporti strettissimi esistenti con il gruppo Contini e con la famiglia Mallardo, nonché da tradizionali rapporti di buon vicinato con i Nuvoletta.
Il territorio dell'Arenaccia-Capodichino-Ferrovia rimane saldamente nelle mani del sodalizio capeggiato da Eduardo Contini che, attraverso una serie di referenti e di alleanze con i clan Annunziata, Vastarella, Bosti, Scuotto e Prota, spesso agevolate da intricati rapporti di parentela e di affinità, estende il suo controllo nei quartieri di San Giovanniello, del Borgo S. Antonio Abate, del Vasto, del Mercato e del Rione Amicizia.
Permangono attivi nella zona del Rione Perrone il clan Di Lauro ed in quella di S. Pietro il clan Bocchetti.
L' area occidentale ricomprende i quartieri cittadini di Fuorigrotta, Rione Traiano, Pianura, Soccavo, e Bagnoli.
Si tratta di una zona caratterizzata, negli anni scorsi e come si è detto anche attualmente, da una elevata conflittualità tra i clan, determinata essenzialmente dall'interesse ad acquisire il controllo monopolistico delle attività estorsive in vista degli ingenti stanziamenti correlati alla riconversione della zona di Bagnoli.
Le indagini hanno posto in evidenza come i vari sodalizi avessero dato luogo a due cartelli contrapposti: da un lato, i gruppi D'Ausilio, Contino, Grimaldi, Marfella, forti dei tradizionali legami tra il primo di essi e l'Alleanza di Secondigliano; dall'altro le associazioni dei Lago e di Sorrentino-Sorprendente, consapevoli della possibilità di contare sul sostegno offerto dai casalesi di Francesco Bidognetti.
I contrasti tra le varie organizzazioni, che hanno dato luogo a decine di omicidi, sembravano scemati a seguito delle indagini giudiziarie coordinate da questo Ufficio, che hanno condotto all'arresto di più di 100 soggetti appartenenti ai clan che controllavano il territorio, e all'arresto di numerosi latitanti che ne erano esponenti apicali (Giuseppe Contino, Stefano Ciotola, Antonio Varriale, Domenico D'Ausilio), taluni dei quali hanno iniziato a collaborare con la giustizia.
Va ribadito il peculiare interesse che il progetto di risistemazione e di rilancio dell'area ex-cantieristica di Coroglio-Bagnoli ha suscitato nei clan, riaccendendo contrasti e lotte.
A Pianura il gruppo Marfella sembra attualmente avere stretto un patto di non belligeranza con i Lago.
Il territorio del Rione Traiano, già teatro, agli inizi degli anni '90, di una cruenta faida tra i clan Perrella-Puccinelli, dopo la collaborazione con la giustizia di Mario Perrella e del fratello Nunzio è rimasto nelle mani della famiglia Puccinelli, che lo gestisce attraverso due nipoti del vecchio capo clan, attualmente condannato all'ergastolo, appoggiati dall'alleanza di Secondigliano.
In tale quartiere cittadino sembra essersi arrestato il conflitto tra il sodalizio del Puccinelli e quello capeggiato da Ciro Grimaldi.


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Nel quartiere di Fuorigrotta resta attivo il gruppo capeggiato dai Bianco-Baratto, eredi di Antonio Malvento - personaggio di particolare interesse per i suoi notori rapporti con le istituzioni e gli ambienti bancari, tanto da divenire anche una sorta di consulente per queste questioni del capo clan Carmine Alfieri - che gestisce il territorio.
A Bagnoli il controllo del territorio è conteso tra i gruppi D'Ausilio, da un lato, e Sorrentino-Sorprendente dall'altro.
Il predominio del primo sodalizio, incontrastato fino ad epoca recente, è stato posto in crisi dai numerosi arresti intervenuti nel gennaio del 1998 e dalla cattura dello stesso capo clan, Domenico D'Ausilio. Gli stessi omicidi recenti appaiono in gran parte indirizzati contro questo sodalizio, evidentemente in crisi.
Il territorio della provincia di Napoli evidenzia allo stesso modo la presenza di molte organizzazioni.
Nel nolano, un tempo feudo incontrastato del clan Alfieri, gli assetti criminali hanno subito e stanno subendo una profonda evoluzione.
Il gruppo facente capo a Mario Fabbrocino, un sodalizio dai caratteri spicatamente mafiosi quanto alle regole di organizzazione interna e di omertà, si era impadronito del controllo del ricco ed operoso territorio di San Gennaro Vesuviano, San Giuseppe, Ottaviano e Palma Campania (questi due ultimi comuni negli anni '80 roccaforte del clan Cutolo e passati, quindi, sotto il controllo di uno dei suoi più acerrimi nemici).
Il clan in esame - che si era giovato dell'effetto positivo della decennale latitanza del suo capo, che era evaso in modo rocambolesco dagli arresti domiciliari lasciando una scia di gravi sospetti di connivenze anche negli organi istituzionali e giudiziari - era sostanzialmente divenuto egemone nell'area ed aveva accresciuto il suo prestigio con una rete di alleanze in particolare con il gruppo Cava operante in Quindici e con i fratelli Russo operanti in Nola.
Con l'esecuzione di un importante ordinanza cautelare (5) - fondata soltanto su indagini della p.g. del Centro Dia di Napoli e senza l'ausilio di collaboratori di giustizia, fenomeno che non ha interessato il clan Fabbrocino - è stato, inferto un durissimo colpo al gruppo Fabbrocino, i cui esponenti di maggiore spicco sono stati tratti in arresto - di recente il Tribunale di Nola ha inflitto ad alcuni dei principali esponenti del clan pesanti condanne per il delitto di cui all'articolo 416 bis c.p. - e del quale sono stati individuate anche alcune connivenze particolarmente importanti nel mondo economico- imprenditoriale.

(5). Ci si riferisce all'ordinanza cautelare emessa il 10 giugno 1998 dal Gip Presso il Tribunale di Napoli c/ Mario Fabbrocino + 19; nell'ambito dello stesso procedimento risultano sequestrati ex articolo 12 sexies l. 356/92 alcuni beni immobili per il valore di svariati miliardi.

La cattura di poco precedente di Mario Fabbrocino da parte della DIA di Napoli in Argentina, in uno al sequestro di beni dal valore di svariati miliardi disposto dalla DDA di Napoli avrebbe potuto forse assestare un colpo definitivo anche di immagine al clan.
Rimane, però, irrisolta la questione della estradizione del capo clan, che a distanza di oltre due anni non si riesce a riportare in Italia.


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Il ridimensionamento, comunque, del Fabbrocino ha comportato l'espansione del gruppo capeggiato dai fratelli Pasquale e Salvatore Russo, entrambi da anni latitanti. Per costoro è lecito parlare di una sorta di «identità criminale di terzo livello», che non ha bisogno di presenza militare per ribadire la propria leadership.
Secondo la DDA di Napoli, i Russo sarebbero impegnati, più che nell'assicurarsi il controllo del territorio inteso quale entità geografica, nella gestione diretta e nell'investimento delle enormi somme di danaro che anni di potere indiscusso hanno loro consentito di accumulare. Allorquando è stato necessario il ricorso alle armi per l'eliminazione di avversari emergenti, essi hanno saputo trovare nei loro alleati storici la disponibilità necessaria.
In tal modo sono riusciti a giungere alla pressoché totale espulsione dal territorio del clan Ruocco, mentre consentono, per motivi di strategia criminale, la presenza della cosca Sangermano - peraltro formata, nella maggior parte, da ex cutoliani - in virtù della sua vicinanza al clan Cava di Quindici, già a loro legato da forti vincoli sinergici.
Di particolare rilievo sono le attività delle organizzazioni criminali sopra citate per il controllo degli appalti relativi alla ricostruzione di Sarno e Quindici. Proprio in questa ottica va letto un inquietantissimo episodio verificatosi in Quindici, in provincia di Avellino, nei mesi scorsi: alcuni personaggi armati travestiti da poliziotti si sono recati nella casa del capoclan del gruppo, oggi perdente, dei Graziano, e hanno tentato di sequestrarlo, presumibilmente per poi ucciderlo, non riuscendovi solo perchè costui era assente.
Le indagini dei locali carabinieri e della DDA di Napoli, particolarmente tempestive anche perchè hanno potuto contare sulla collaborazione dei presenti, hanno permesso di catturare, come presunti responsabili, alcuni personaggi di San Giuseppe Vesuviano e comuni viciniori, ritenuti vicini al gruppo Fabbrocino. La chiave di lettura dell'episodio sta nel tentativo di definitiva eliminazione del gruppo Graziano per porsi come monopolisti proprio per l'indotto dei già intrapresi lavori di ricostruzione in Quindici e nella volontà del capocosca Biagio Cava di imporsi quale una sorta di capo-vicario del gruppo Fabbrocino.
A Pomigliano d'Arco, la sostanziale scomparsa dell'associazione dei Cirella, dovuta agli arresti disposti a seguito delle indagini sul triplice omicidio di tre innocenti dipendenti del pastificio Russo, avvenuto il 20 luglio del 1998, ha consentito la ricomparsa sulla scena del crimine del gruppo Foria, avvantaggiato dal recente recupero della libertà di Nicola Foria, fratello del capo clan Salvatore.
Sembra, allo stato, essersi consolidata un'alleanza fra tale organizzazione e quella degli Anastasio, operante in S. Anastasia, zona nella quale opera anche il gruppo Orefice.
La zona di Marigliano è stata di recente teatro di uno scontro tra il gruppo riconducibile ad Antonio Capasso e una cellula operativa del clan Mazzarella, insediatasi a Ponte Citra.
L'arresto di alcuni componenti di quest'ultimo sodalizio ha, peraltro, consentito ai Capasso di riappropriarsi completamente del territorio.


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In preoccupante evoluzione è invece la situazione ad Acerra. Qui, l'emissione di provvedimenti limitativi della libertà personale, indebolendo il predominio acquisito dal clan Piscopo, ha consentito la nascita di gruppuscoli criminali con potenzialità di futura concorrenza per la gestione delle attività illecite. Il ritorno in libertà di Pasquale Iorio Raccioppoli, capo di un sodalizio già falcidiato da una serie di agguati camorristici, e il recupero della libertà di taluni affiliati dello stesso per decorrenza dei termini di custodia cautelare aprono scenari inquietanti sulla probabilità dell'instaurarsi di un ennesimo sanguinoso conflitto con il Piscopo; anche in considerazione delle alleanze che Iorio Raccioppoli può vantare con affiliati dei gruppi Rega e Veneruso, delle adiacenti zone di Castello di Cisterna e di Volla.
Il comprensorio di Gragnano - S. Antonio Abate vede la presenza del clan Carfora-Fontanella che, sebbene decimato da recenti arresti conseguiti a indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, mantiene ancora saldamente il controllo delle estorsioni in particolare nel settore conserviero.
Il gruppo Fontanella, dopo la scarcerazione per espiazione pena di alcuni esponenti apicali dello stesso, aveva operato una sorta di «salto di qualità» perché, non tralasciando le tradizionali attività illecite, aveva costituito una vera e propria società di servizi, naturalmente intestata a prestanome, per imporre il monopolio nei settori degli autotrasporti dei prodotti conservieri e della mediazione nella compravendita dei medesimi prodotti. Sono state, altresì, accertate infiltrazioni dell'organizzazione criminale, a livello di vertici, in una organizzazione sindacale degli autotrasportatori italiani (6).

(6). Ci si riferisce al decreto di fermo della DDA di Napoli, del 26/5//98 c/ Fontanella + altri.

Fortemente conflittuale è pure la situazione in altre zone.
A Ercolano è in atto un contrasto per la gestione dello spaccio di stupefacenti tra i clan Ascione e Birra, quest'ultimo formatosi a seguito di una scissione dal primo e ormai avente una propria, distinta identità criminale.
Stabile è, invece, il predominio degli Abate in San Giorgio a Cremano come quello dei Veneruso in Volla.
Il Comune di San Sebastiano al Vesuvio risulta ormai sottratto al predominio della famiglia Vollaro e rientra nel territorio sottoposto alla influenza del clan De Luca Bossa, operante anche nel confinante Comune di Cercola.
Il gruppo Gallo (cosiddetto «dei Cavalieri») prevale decisamente a Torre Annunziata sul clan Gionta, pesantemente indebolito dalla detenzione dei suoi capi; e tenta di espandersi, al fine di acquisire il monopolio del mercato degli stupefacenti, nel confinante Comune di Torre del Greco, sino a epoca recente dominio incontrastato dei Falanga.
Boscoreale è stata contrassegnata da un aspro scontro tra il clan Annunziata e l'organizzazione Pesacane. Il primo gruppo risulta fortemente ridimensionato, pur mantenendo ancora una limitata autonomia operativa nei settori delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.


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In Boscotrecase e Trecase operano i gruppi Limelli e Vangone, pure decimati in passato da arresti dei principali esponenti.
Pompei e parte di Castellammare di Stabia soggiacciono al clan di Ferdinando Cesarano, la latitanza del quale - si ricordi evaso insieme ad Autorino mente era in corso un processo nell'aula bunker di Salerno, latitanza interrotta proprio di recente nel maggio del 2000, così come interrotta era stata quella di Autorino, rimasto in ucciso in data 20 marzo 1999 in un conflitto a fuoco con personale della DIA e dei NOCS - ha ridato vigore al sodalizio, che peraltro da sempre ha gestito il territorio senza che gli altri gruppi, di minore spessore, osassero contrapporglisi.
La debolezza delle organizzazioni di Castellammare di Stabia - in primo luogo il clan D'Alessandro, decimato dagli arresti - parrebbe favorire il Cesarano in un'ulteriore espansione territoriale, anche in considerazione dell'interesse del suddetto a estendere la sua sfera di influenza su un'area destinataria di significativi stanziamenti pubblici.
Il sodalizio di D'Alessandro appare ulteriormente in difficoltà per il conflitto in atto con il gruppo Maresca-Di Somma - nato per iniziativa di alcuni ex collaboratori dissociati - che ha assunto una propria identità criminale nel popoloso quartiere della Caparrina-S. Caterina.
In Pimonte ed Agerola continua, invece, il predominio dei clan Afeltra e Di Martino.
Il territorio delle zone di Marano, Giugliano e Afragola nella maggior parte si presenta a elevata stabilità criminale, per il pluriennale controllo esercitato sullo stesso da talune organizzazioni camorristiche.
È il caso dei Nuvoletta - il suo principale esponente dopo la morte del patriarca Lorenzo è da lungo tempo latitante - e dei Polverino i quali pur nella loro distinzione intrattengono da anni un proficuo rapporto di alleanza, che li ha condotti a estendere il loro potere sull'intera fascia che va dai Camaldoli a Pozzuoli.
È ancora il caso dei Mallardo, potentissimo sodalizio che ha reso Giugliano un importante crocevia di alleanze incrociate sia con l'Alleanza di Secondigliano che con il gruppo dei casalesi di Bidognetti; va posto in rilievo come di recente la Squadra mobile di Napoli ha interrotto la latitanza del capoclan Francesco, evaso dalla detenzione domiciliare, interrompendo un vero e proprio summit al quale partecipavano oltre ad altri latitanti del clan Mallardo un importante esponente del cartello di Secondigliano, pure latitante, Bosti Patrizio.
È soprattutto il caso dei Moccia che, come i Nuvoletta, appaiono referenti di una pluralità di associazioni criminali cui demandano la diretta trattazione degli affari illeciti, così riuscendo a limitare al massimo i rischi derivanti da un'esposizione personale; e che si presentano, tra l'altro, come vera e propria cerniera tra i clan cittadini e quelli dell'area nolana in considerazione delle relazioni mantenute con i sodalizi già facenti parte della disciolta organizzazione Alfieri.
Aree caratterizzate da forte conflittualità risultano quelle di Sant'Antimo, dove i Verde risultano al momento in posizione di assoluta preminenza, avendo completamente emarginato i Puca e


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fortemente ridimensionato i Ranucci (due esponenti di esso sono stati di recente condannati all'ergastolo dalla Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere); e quella di Caivano, segnata dal contrasto tra i Natale e i Pezzella, questi ultimi, allo stato, dominanti anche se di recente pesantemente colpiti dalla esecuzione di numerose ordinanze di custodia cautelare in carcere.
Nella zona di Pozzuoli e comuni viciniori operano i clan Beneduce e Bellofiore; si segnala la recentissima scarcerazione di Longobardi Gennaro per decorrenza termini che potrebbe avere come conseguenza di elevare una conflittualità nell'area allo stato assente.

1.2. La situazione nella provincia di Caserta

L'analisi della situazione criminale nella provincia di Caserta appare particolarmente complessa perchè mentre le dinamiche criminali della città partenopea e della sua provincia erano state già oggetto di una penetrante indagine da parte della Relazione della commissione antimafia della XI legislatura, non identica attenzione era stata dedicata a quest'altra provincia della Campania.
Ciò certamente perchè i dati messi a disposizione di quell'Organo parlamentare erano certamente assolutamente incompleti, tanto da poter fare affermare ad un relatore pure così attento che il clan dei casalesi aveva «rallentato notevolmente le proprie attività».
In realtà il quadro messo mostrato dalla Procura della Repubblica di Napoli - alla cui DDA va ascritto in modo chiaro il merito di avere iniziato una reale e seria azione di contrasto - le acquisizioni di materiale anche da parte della Prefettura e dagli organi di polizia rendono evidente come la criminalità casertana avesse avuto nel passato un abnorme sviluppo, conseguenza evidente di un difetto di attenzione almeno parzialmente spiegabile con le ampie connivenze che il clan era riuscito a creare negli ambienti della locale politica, delle forze dell'ordine e della stessa magistratura.
Il livello di penetrazione nel tessuto socio-economico della provincia di Terra di Lavoro potrebbe, forse, essere posto in evidenza dai dati numerici relativi agli atti di indagine posti in essere dalla Procura di Napoli nel periodo dal 1993 in poi: sono state emesse oltre 400 ordinanze cautelari che hanno riguardato un numero elevatissimo di omicidi avvenuti anche in periodi vetusti ed hanno colpito centinaia di soggetti per il delitto di partecipazione ad associazione camorristica; fra le persone raggiunte dalle ordinanze in parola, o comunque interessati dalle indagini, vi sono personaggi di vertice della vita politica ed istituzionale del casertano, sindaci, amministratori comunali, investigatori appartenenti a tutte le forze di polizia giudiziaria e parlamentari del casertano.
Le indagini medesime, almeno in una prima fase, hanno prodotto un elevatissimo numero di collaboratori di giustizia - oltre 25 - fra cui si annoverano personaggi che hanno avuto ruoli anche apicali nel sodalizio - basterebbe ricordare Carmine Schiavone, Giuseppe Quadrano, Dario De Simone e più di recente Raffaele Ferrara.


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Si sono scoperti settori di attività lecita ed illecita integralmente gestita dalla camorra casalese - quello, ad esempio, delle truffe all'AIMA (7) che ha visto coinvolti oltre che numerosi coltivatori diretti in concorso con i vertici del clan anche numerosi appartenenti alla GDF che avevano tradito i loro compiti di controllo; oppure quello della cosiddetta Ecomafia, che ha fatto scoprire come intere zone del casertano fossero state utilizzate come sversatoi per i rifiuti tossici e speciali provenienti da tutta Italia -, sono state individuate gigantesche opere pubbliche quasi integralmente gestite dai casalesi - ci si riferisce, in particolare, alla copertura e bonifica dei cosiddetti «regi lagni» (8) - e sono stati effettuati svariati sequestri preventivi anche di complessi industriali di rilevante valore economico (svariate aziende bufaline ed un importante zuccherificio, l'IPAM, ritenuto allo stato delle indagini, utilizzato anche per il riciclaggio degli ingenti profitti delle attività criminali).

(7). La vicenda delle truffe all'AIMA risulta oggetto di ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli in data 12 giugno 1998, proc. c/ Alviani Federico; i delitti contestati vanno dall'associazione camorristica, alle truffe aggravate, alla corruzione.
(8). Ci si riferisce all'ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli in data 30 luglio 1998, c/ Bidognetti Domenico + altri; i delitti contestati vanno dall'associazione camorristica, alle truffe aggravate, alla frode fiscale.

Si sono, infine, interrotte lunghissime latitanze di personaggi di vertice - in particolare ci si riferisce a Francesco Schiavone, detto Sandokan (9) - avviati al regime del cosiddetto 41 bis al fine di tentare di recidere i legami criminali.

(9). Schiavone Francesco è stato tratto in arresto dal Centro Dia di Napoli in data 11 luglio 1998, in Casal di Principe, in un nascondiglio ricavato in una abitazione, in compagnia di altro latitante, Schiavone Michele. All'interno del rifugio sono state sequestrate varie armi.

Eppure a fronte di questi risultati permane fortissimo il controllo del territorio e delle attività illecite da parte dei sodalizi casertani.
È per questa ragione che si tenterà di ricostruire, sia pure brevemente e compatibilmente con i limiti del presente lavoro, la genesi e lo sviluppo di quello che rimane uno dei forti stanziamenti criminali campani.

* * * *

Il clan principale fra quelli operanti nel casertano è certamente quello detto dei casalesi, per avere trovato il suo centro di interessi principale nei paesi di Casal di Principe, di San Cipriano e viciniori (10).

(10). La ricostruzione della genesi e dell'evoluzione della camorra casalese è quasi integralmente ripresa dalla monumentale ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli, il 25/9/95, nel proc. c/ Abbate Antonio + altri, procedimento divenuto noto come Spartacus I.

Senza dubbio un vero e proprio salto di qualità criminale avviene quando Bardellino Antonio, - soppiantati i vecchi esponenti di quella che appariva una camorra rurale dedita alle piccole estorsioni, alle guardianie ed all'intermediazione nelle attività agricole e nell'allevamento - entra in contatto con i mafiosi siciliani con i quali opera in particolare nel settore del contrabbando di sigarette e nel traffico di stupefacenti.


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Bardellino, infatti, viene legalizzato e si lega con il gruppo all'epoca dominante in Sicilia facente capo a Stefano Bontade.
Lo stesso Bardellino, coadiuvato dall'altro diarca del clan Mario Iovine, accresce notevolmente il suo peso quando si schiera all'interno della Nuova Famiglia con una posizione anche di preminenza, nella lotta ai cutoliani.
I cutoliani che pure erano riusciti a fare proseliti nel casertano vengono completamente annientati - ad eccezione di pochi soggetti, lasciati confluire nelle fila dei casalesi (si v. il gruppo Di Girolamo di Aversa) ed ad eccezione del gruppo operante in Marcianise e zone viciniori di cui si parlerà - ed il gruppo dei casalesi acquisisce la forza sufficiente per porsi come il principale referente di tutte le organizzazioni delinquenziali casertane.
Con Bardellino nasce una struttura di tipo confederativo; i clan anche operanti in realtà più distanti - si pensi a quelli dell'area mondragonese o sessana - vengono di fatto risucchiati nella struttura unitaria, che pur lasciando una sua autonomia alle singole entità si organizza con una sorta di cupola, il cui centro è proprio nel gruppo dei casalesi.
L'organizzazione camorristica casertana ruotò, unita e compatta, intorno alla figura di Antonio Bardellino fino alla fine del 1987. E con Bardellino che il clan opera il salto di qualità e comincia ad intessere significativi rapporti con il mondo della locale politica e delle istituzioni, controllando, ad esempio, le attività dei comuni di Casale e di San Cipriano.
Ai primi del 1988, iniziò, con l'omicidio di Domenico Iovine, all'interno di essa, un conflitto tra i gruppi egemoni facenti capo ad Antonio Bardellino e a Mario Iovine, che culminò nell'uccisione di Bardellino, nel maggio del 1988, in Brasile, da parte di Mario Iovine.
Le potenti famiglie casertane degli Schiavone, dei De Falco e dei Bidognetti, si schierarono con Mario Iovine, dopo aver avuto la certezza della morte di Bardellino.
A quest'ultima, seguì, immediatamente, l'omicidio del nipote Paride Salzillo, suo braccio destro. Fu, quindi, organizzata una «caccia» spietata ai parenti ed ai seguaci di Bardellino, i quali furono costretti a lasciare le aree di loro influenza e a rifugiarsi in Formia.
Unica opposizione, convinta ed armata, al clan dei Casalesi venne portata avanti da Antonio Salzillo, fratello di Paride.
Questi, nel dicembre 1988, tentò, con propri affiliati, di irrompere all'interno di una bisca clandestina, sita in Casapesenna, al fine di uccidere alcuni abituali avventori appartenenti all'opposta organizzazione criminale.
I Casalesi, preventivamente informati dell'aggressione da un loro infiltrato, riuscirono a contrastarla efficacemente. Infatti, al termine del conflitto a fuoco, due persone trovarono la morte ed una rimase ferita.
Il comando dell'organizzazione delinquenziale dei «Casalesi» fu preso da Mario Iovine, Francesco Schiavone detto «Sandokan», Francesco Bidognetti e Vincenzo De Falco.
Di essi, Mario Iovine, all'epoca latitante, era solito trascorrere lunghi periodi di tempo all'estero e, in particolare, in Francia e in Brasile. In quest'ultima nazione, con la collaborazione del nipote


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Stefano Reccia, aveva aperto una azienda di import - export di farina di pesce, che fungeva da paravento alla attività di traffico di stupefacenti del tipo cocaina.
Proprio in questo periodo emerse, con grande prepotenza, la figura di Francesco Schiavone «Sandokan» sia per la sua provata capacità «militare» che per le sue doti di «imprenditore del crimine». Egli si avvaleva, tra l'altro, di un numero elevato di parenti fidati, primi fra tutti, il fratello Walter ed il cugino Francesco di Luigi quali spietati esecutori di azioni delittuose e Carmine Schiavone, poi pentitosi, quale gestore della «economia» del gruppo delinquenziale.
Vincenzo De Falco, da sempre in ottimi rapporti con il mondo politico-amministrativo casertano e che vantava legami fra le forze dell'ordine e nella stessa magistratura sammaritana, attraverso il suo socio avv. Aldo Scalzone, si occupava in particolare di incrementare la propria attività nel campo imprenditoriale (11).

(11). Sul ruolo centrale nell'organizzazione di Vincenzo De Falco e sui suoi rapporti con le istituzioni si vedano, in particolare, oltre che la già citata ordinanza cautelare c/ Abbate Antonio + altri, le due ordinanze emesse entrambe dal Gip presso il Tribunale di Napoli, l' 11/10/96 , c/ Baldascino Antonio + altri (divenuta nota come Spartacus II) e il 13/5/99 c/ Schiavone Francesco + altri (riguardante l'omicidio Scalzone). Del ruolo e dei rapporti del De Falco hanno a lungo parlato nel corso di vari dibattimenti i collaboratori Schiavone Carmine, De Simone Dario e Quadrano Giuseppe.

A seguito dell'arresto di Francesco Schiavone e di Mario Iovine, avvenuti nel 1989 in Francia, e delle investigazioni di P.G., il clan dei Casalesi sembrò subire pesanti sconfitte.
Agli inizi del 1990 la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere iniziò una indagine sui presunti collegamenti tra Francesco Schiavone, Sindaco di Casal di Principe e Nicola Schiavone, Assessore alle finanze dello stesso Comune, entrambi congiunti di Francesco Schiavone, «Sandokan».
Della circostanza profittò Vincenzo De Falco, il quale fece pressioni, con gli alleati, al fine di vedere assegnato l'incarico di Sindaco ad una persona a lui molto vicina. I due predetti amministratori furono costretti alle dimissioni, dietro promessa che il procedimento nei loro confronti sarebbe stato chiuso grazie ad interventi di esponenti politici vicini ai De Falco sugli inquirenti della procura di S. Maria Capua Vetere (il procedimento venne, poi, archiviato) .
Le famiglie «Iovine» e «Schiavone» si resero ben presto conto del piano architettato dal De Falco, finalizzato ad assumere una posizione dominante nel settore degli appalti pubblici.
È, ormai da considerarsi certo che l'azione di De Falco mirava a estrometterle dagli «affari» con la Pubblica Amministrazione, minando il loro potere economico; ne decisero, pertanto, l'uccisione.
A tal fine indissero una riunione, il 13.12.1990, nella abitazione di un assessore del comune di Casal di Principe Gaetano Corvino, alla quale invitarono De Falco che non si presentò. La riunione, fu interrotta dall'irruzione dei Carabinieri che trassero in arresto Francesco Bidognetti ed altri esponenti di primo piano del clan dei Casalesi.
Vincenzo De Falco, sospettato di essere il mandante dell'irruzione dei carabinieri, non evitò la «sentenza» di morte emessa a suo carico: egli fu, infatti, ucciso il 2 febbraio 1991, in Casal di Principe.


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Per ritorsione, Nunzio De Falco, fratello di Vincenzo, fece uccidere Mario Iovine a Cascais, in Portogallo, il 6 marzo 1991.
Si aprì, allora, un conflitto tra due schieramenti contrapposti che mise in crisi la confederazione: da un lato, le famiglie di Francesco Schiavone «Sandokan» e di Francesco Bidognetti con gli alleati Vincenzo e Michele Zagaria, Stefano Reccia e Giuseppe Caterino, dall'altro, il gruppo dei fratelli Nunzio e Giuseppe De Falco, coadiuvati da quelli di Antonio Salzillo, dai La Torre di Mondragone, da Giulio Luise di Castelvolturno, dagli Esposito di Sessa Aurunca, da Giuseppe Quadrano, da Luigi Venosa e da Sebastiano Caterino.
Nel corso di questo ulteriore conflitto, furono uccise decine di persone, fra le quali, nell'ottobre del 1991, l'avv. Aldo Scalzone, vera mente politico-imprenditoriale del gruppo De Falco.
Con l'uccisione di Giuseppe De Falco, avvenuta il 5.3.1992, e con la fuga di Nunzio De Falco in Spagna e di Antonio Salzillo in Germania nonchè con il rientro, nella organizzazione vincente, di Luigi Venosa e di Giulio Luise e con la acquisita neutralità delle famiglie dei La Torre e degli Esposito, il gruppo «SCHIAVONE - BIDOGNETTI», assunse il quasi totale dominio delle aree della provincia di Caserta.
Nell'autunno del 1992, il solo gruppo di Caterino Sebastiano si oppose, in maniera armata, ad esso.
Superato questo ultimo ostacolo, l'organizzazione Schiavone-Bidognetti acquisì il controllo totale di tutto il territorio della predetta provincia sino al basso pontino.
Tale controllo ha sostanzialmente mantenuto fino all'emanazione della prima importante ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli, del divenuta nota come Spartacus I, ordinanza nata anche in seguito alle rivelazioni di Carmine Schiavone.
A distanza di non molto tempo veniva poi emessa un'ulteriore ordinanza cautelare - divenuta nota come Spartacus II - che vedeva l'arresto, fra l'altro di amministratori comunali dei principali comuni dell'agro aversano, sindaci, parlamentari, appartenenti alla polizia e ai carabinieri in servizio in reparti del casertano che avrebbero dovuto svolgere indagini sui clan con cui erano conniventi (12).

(12). L'ordinanza in parola è quella già citata c/ Baldascino Antonio + altri; a seguito della stessa risultano arrestati i sindaci di Aversa (Bisceglie), di Casal di Principe (Schiavone Francesco, omonimo e parente di Sandokan), di Villa Literno (Riccardi) gli assessori del comune di Aversa (Marrandino e Minale) di Casal di Principe (Schiavone Nicola), di Villa Literno (Pedana), alcuni consiglieri regionali (Pozzi, Cappello) e parlamentari (Ventre, Cecere). Venivano, altresì, arrestati i sottufficiali dei carabinieri Barbato, De Dominicis, Bonafiglia, Cristiano, Matassino, l'ispettore di polizia Capoluongo, l'agente di polizia penitenziaria Sibona.

Il quadro che emerge dalle complessive investigazioni (non soltanto le due citate ordinanze) è decisamente inquietante: basterà qui dire che il clan dei casalesi aveva manifestato una clamorosa capacità di influire sul consenso elettorale - si può citare il caso delle elezioni provinciali del '90 dove una lista civica appoggiata dal sodalizio ricevette nei paesi più strettamente controllati dal clan un vero e proprio plebiscito drenando voti da quel partito a cui notoriamente erano andati in massima parte i consensi elettorali del sodalizio e cioè la D.C. o il caso dell'avv. Martucci, eletto parlamentare nelle liste del partito liberale, ottenendo consensi plebiscitari in zone nelle quali fino alle precedenti


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consultazioni erano state ottenute pochissime preferenze per l'intervento diretto (il fatto è ormai giudiziariamente acclarato con sentenza irrevocabile (13<) del clan dei casalesi - di decidere chi dovesse avere alcune cariche nelle singole amministrazioni locali, eliminando, eventualmente, chi si potesse opporre ai loro piani (si pensi al clamorosa gambizzazione del vicesindaco di Casapesenna, Cangiano, divenuto all'esito dell'azione di fuoco invalido permanente (14); di gestire integralmente gli appalti pubblici di maggior peso, di favorire la nascita di un consorzio per la vendita in zona del calcestruzzo.

(13). L'avv. Martucci risulta con sentenza del Gip presso il Tribunale di Napoli del 17 gennaio 1997 avere patteggiato una condanna per il delitto previsto dalla legge elettorale (articolo 97 decreto del Presidente della Repubblica n. 3612/57, aggravato ex articolo 7 l. 203/91; cd concussione elettorale), aggravato dall'uso dei metodi mafiosi.
(14). Si tratta di una vicenda risalente al 1988 che ha formato oggetto anche di molteplici interrogazioni parlamentari e che non ha trovato ad oggi alcuno sbocco giudiziario.

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I colpi assestati al sodalizio, una ritrovata vigoria delle forze dell'ordine, quasi integralmente rinnovate, l'arresto di pericolosissimi capoclan da tempo latitanti - per tutti, si ribadisce, quello del famoso Sandokan, scovato nel 1998 dalla DIA in un bunker protettissimo, ma anche quelli non meno importanti di Augusto La Torre, di Nicola Zara, di Michele Cantiello, di Salvatore Cantiello, di Francesco Biondino, di Aniello Bidognetti -, la defezione di personaggi anche di elevato profilo criminale avrebbero potuto permettere di assestare un colpo particolarmente duro se non definitivo.
In realtà, malgrado la situazione rispetto ad un passato anche prossimo appare di gran lunga migliore e comunque il clan si trovi in difficoltà, i problemi nel celebrare alcuni dibattimenti, dovuti sia alle notorie carenze del Tribunale di S. Maria Capua Vetere sia alla scelta, di certo infelice, di celebrare veri e propri maxi processi, ha di certo attutito i colpi assestati: troppi inquisiti sono stati scarcerati per decorrenza dei termini (i due processi denominati Spatacus I e Spartacus II si concluderanno presumibilmente a gabbie quasi vuote); non moltissimi sono stati i processi, almeno in relazione al numero di quelli cominciati, che si sono conclusi in primo grado e tutto ciò anche nell'opinione pubblica in alcuni casi ha lasciato l'impressione che almeno in parte l'impunità del clan fosse rimasta.
Si è verificato, inoltre, un significativo ricambio generazionale che ha vista la discesa in campo di elementi giovani - quali ad esempio, i due rampolli di Francesco Bidognetti, Aniello e Raffaele, colpiti di recente da ordinanza per 416-bis ed altro (15) - ma non per questo meno pericolosi, che hanno assunto in uno ai latitanti le redini del clan e sono mandatari degli ordini che presumibilmente continuano a provenire dal carcere dai boss detenuti.

(15). Ci si riferisce all'ordinanza cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli, in data 13/3/2000.

Permane preoccupante, inoltre, la presenza di vari latitanti - il Prefetto di Caserta dottor Sottile ne ha segnalati oltre 30 - fra cui certamente alcuni personaggi eccellenti che stanno svolgendo in questo


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periodo vere e proprie funzioni vicarie; ci si riferisce in particolare a Antonio Iovine , detto o' ninn, a Michele Zagaria - vicari dei capi casalesi - o a Gaetano Di Lorenzo - vicario nella ricca anche turisticamente zona di Sessa Aurunca e Mondragone al posto dei capicosca detenuti Mario Esposito e Augusto La Torre.

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La situazione attuale conferma l'esistenza di una struttura confederata; le varie famiglie sembrano continuare a riconoscere la centralità del vertice storico dei casalesi - e cioè la diarchia Schiavone-Bidognetti - malgrado i due maggiori rappresentanti siano detenuti (il Bidognetti da oltre 7 anni, anche se per nessuno dei due è giunta ancora una sentenza recente passata in giudicato).
Anche i sodalizi che un tempo si erano contrapposti più nettamente ai casalesi - quali i La Torre di Mondragone e gli Esposito di Sessa Aurunca - hanno di fatto stipulato una vera e propria pace quantomeno in attesa di «tempi migliori».
La struttura sembra, però, caratterizzarsi sempre più da una sua verticizzazione - solo i capi famiglia hanno rapporti diretti con i principali esponenti dei casalesi latitanti o detenuti - per evitare che le defezioni eventuali di personaggi non apicali possano riferire delle strategie in atto.
Una situazione nuova che sembra poter incidere sulla stessa struttura del clan è la frattura che risulta essersi verificata nel clan, provocando l'improvviso innalzamento della conflittualità tra il gruppo facente capo alla famiglia Bidognetti e quello dei Tavoletta, per il controllo delle estorsioni nella zona di Villa Literno.

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Un focolaio di tensione, mai sopito, ed addebitabile ad una rinnovata instabilità di equilibri interni, è individuabile nell'agro di Marcianise, teatro di ripetuti omicidi ed il cui stato della criminalità organizzata merita un cenno a parte.
Le vittime appartengono ai due contrapposti gruppi camorristici, facenti storicamente capo alle famiglie dei Belforte (alias Mezzacane), provenienti dalla NCO ma che ha successivamente stipulato con il clan dei Casalesi un accordo di non belligeranza e quello dei Piccolo (alias Quaqquaroni).
La faida diede luogo, nel gennaio '98, a una serie di omicidi, alcuni dei quali avvenuti all'interno di esercizi pubblici, con il conseguente ingenerarsi di un notevole allarme sociale nella popolazione, al punto che il Prefetto di Caserta ravvisò l'urgenza di adottare provvedimenti straordinari atti a limitare il campo d'azione delle organizzazioni criminali operanti in quel territorio, ricorrendo al provvedimento, ex articolo 2 T.U.L.P.S., di chiusura anticipata degli esercizi pubblici alle ore 22.00 di ogni giorno, per un periodo di 20 giorni.
La detenzione di quasi tutti gli esponenti apicali dei due gruppi - ed in particolare di quello Belforte che pare ormai quello vincente; va, qui, segnalato che il capo indiscusso del sodalizio Domenico Belforte è stato arrestato per avere commesso un duplice omicidio in provincia


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di Brescia - non sembra avere bloccato gli omicidi - due recentissimi, di Michele Cangiano e Ciro Salzano si sono verificati in Agosto e Settembre - la cui causale sembra, però, da individuarsi nella necessità di creare nuovi equilibri di potere interni al clan egemone.

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Per quanto riguarda la situazione attuale dei clan, sulla scorta in particolare dei dati forniti dalla Prefettura di Caserta essa può essere così delineata.
Nella città di Caserta si concentrano gli interessi dei vari clan operanti nel resto del territorio della provincia. Infatti, localmente non esistono cosche camorristiche. Diffusa, però, è l'attività estorsiva (la cui incidenza è però inferiore agli altri centri della provincia) a danno di piccoli imprenditori e di imprese edili, posta in essere dal clan dei casalesi.
Nella viciniore zona di Casapulla, Casagiove e S. Maria C.V. opera il clan Iovine; in quella di Recale il clan Perreca.
Nell'agro aversano, inteso in senso ampio, opera il nocciolo duro del clan «dei casalesi», con alleati in tutta la provincia. È una zona che può considerarsi un vero e proprio fortilizio di questo sodalizio che ha un controllo del territorio quasi totalizzante; basterebbe pensare che in quel comprensorio sono stati sciolti 7 comuni per infiltrazioni camorristiche, sono stati arrestati sindaci ed esponenti delle amministrazioni comunali, nonchè ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti ai carabinieri, alla polizia ed alla finanza.
Il clan in parola è considerato il più potente sotto l'aspetto organizzativo, militare ed economico-finanziario, favorito anche da vincoli familiari ed ambientali di sottocultura.
Le imponenti operazioni di polizia ed i recenti arresti di numerosi latitanti di spicco come Francesco Schiavone, Salvatore Cantiello, Luigi De Vito, Egidio Coppola, Elio Diana, Luigi Diana, Domenico Bidognetti, Nicola Zara, Francesco Biondino, Giancarlo Di Sarno, Vincenzo Di Sarno, Orlando Lucariello e Aniello Bidognetti, hanno assestato un duro colpo, ma certamente non risolutivo, alla compattezza del gruppo lasciando libere, ai vertici dell'organizzazione, posizioni di comando ancora in via di definizione.
La zona è retta da vari capozona che sono diretta emanazione dei capi casalesi.
In Villa Literno è in atto una guerra per la supremazia del territorio, fra il clan «Tavoletta» con a capo Cesare Tavoletta, alias «Cesarino», ed il clan di «Bidognetti - Verde» capeggiato da Enrico Verde, detenuto agli arresti domiciliari.
Nella zona di San Cipriano d'Aversa e Casapesenna predomina il gruppo capeggiato dal latitante Michele Zagaria, mentre in San Cipriano d'Aversa opera anche il clan capeggiato da Antonio Iovine, alias «o ninno», nipote del più noto boss Iovine Mario, ucciso in Portogallo nel 1990.
In Casapesenna opera il gruppo di Vincenzo Zagaria, oggi detenuto; in Trentola, Lusciano opera il gruppo facente capo a Francesco Biondino, arrestato dopo una lunga latitanza; in Parete esiste ancora forte, malgrado la collaborazione di un personaggio significativo come Raffaele


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Ferrara, il gruppo facente capo a Domenico Feliciello, oggi detenuto; in Grigignano opera il gruppo Autiero; in Cesa il gruppo Mazzara; in Orta di Atella il gruppo Indaco; in Frignano il gruppo Di Chiara, il cui principale esponente è stato di recente ammazzato; in Teverola e Carinaro opera il gruppo, da ritenersi particolarmente attivo, facente capo al latitante Aldo Picca, già appartenente alla NCO.
Si è già detto del comprensorio di Marcianise, Capodrise, Portico di Caserta e Macerata Campania, afflitto da lunghe tradizioni criminali, risalenti all'epoca in cui la zona era una delle principali roccaforti della Nuova Camorra Organizzata.
Accanto al clan Belforte opera il clan Bifone, anch'esso di derivazione NCO, con base operativa in Portico di Caserta. Di recente il sodalizio è stato decapitato con l'esecuzione di varie ordinanze per episodi di usura ed estorsione.
L' Agro Maddalonese, ed in particolare i comuni di S. Felice a Cancello, S. Maria a Vico, Maddaloni, Arienzo e Cervino, sono sotto il controllo del gruppo camorristico dei «Belforte», cui fa riferimento la figura emergente di D'Albenzio Clemente, pregiudicato, già appartenente alla disciolta N.C.O. Di contro voci insistenti indicano il latitante Mario Di Paolo, già boss indiscusso dell'area Maddalonese, vittima di «lupara bianca».
Sul Litorale Domitio, nei comuni di Mondragone e viciniori, opera il gruppo criminale facente capo alla famiglia La Torre di Mondragone, una delle organizzazioni, che, hanno, per il passato, tentato di impedire l'espansione del clan «dei casalesi» e dei suoi alleati. Esso deve la sua fortuna economica ed il suo potere all'attività estorsiva ai danni dei numerosi complessi turistici e balneari, fiorenti lungo il litorale domiziano, ed alle industrie casearie.
Ereditate dal padre, Francesco Tiberio, le redini del gruppo, Augusto La Torre, oggi detenuto al 41 bis, dopo una lunga latitanza all'estero e precisamente in Olanda dove ha numerosi interessi economici, ha operato inizialmente alle dipendenze dei «Casalesi», fino a quando, dopo l'omicidio di Alberto Beneduce, già capozona in Baia Domitia per conto dei casalesi, ha scelto di agire in autonomia.
Lo stato attuale delle conoscenza porta a ritenere che il gruppo La Torre - fatto segno di recente di un'importante sentenza di condanna, sia pure pronunciata con la maggioranza degli imputati scarcerati per decorrenza dei termini - si sia riavvicinato ai casalesi.
Nel comprensorio territoriale dei comuni di Sessa Aurunca, Cellole, Carinola, Nocelleto, Falciano del Massico e Roccamonfina, rimane incontrastato il potere criminale del gruppo camorristico facente capo alla famiglia «Esposito» di Sessa Aurunca - e ciò malgrado la pronuncia di una sentenza passata in giudicato che ha condannato capi e gregari del sodalizio - schierata con il vicino clan «La Torre» ed anch'essa per il passato contrapposta al clan «dei casalesi».
Originariamente diretta da Luigi Esposito, l'organizzazione criminale ha raggiunto, sotto la nuova direzione di Mario Esposito, fratello di Luigi - oggi detenuto dopo essere stato arrestato in Spagna dove il gruppo ha molteplici interessi economici - un elevato livello di potere criminale, economico, militare ed intimidatorio. Con l'arresto di Mario Esposito si ritiene che Gaetano Di Lorenzo, latitante, abbia assunto le redini del clan.


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In Castel Volturno opera il clan «Bidognetti», rappresentato da Giuseppe Dell'Aversano, catturato il 18 settembre 1999, e dal gruppo «Luise-Morrone».
Nell' Area Capuana continua ad operare il clan «Lubrano-Papa», alleato dei «Casalesi» e ciò malgrado il pentimento di Abbate Antonio, che in quella articolazione aveva posizione di vertice. In particolare, il gruppo «Papa», originario dell'Agro Aversano, precisamente di Villa di Briano, si è trasferito da tempo nel comune di Sparanise, dove Girolamo Papa ed i suoi fratelli sono riusciti ad assumere, in pochi anni, il controllo delle attività illecite in una zona considerata un tempo tranquilla.
All'ascesa criminale della famiglia Papa ha contribuito il rapporto di stretta alleanza con i «Casalesi», i cui esponenti di vertice sono anche legati da vincoli di parentela. Infatti, Giuseppe Papa, fratello di Girolamo, ha sposato una sorella di Giuseppe Natale, il quale è cognato di Francesco Schiavone «Sandokan», avendone sposato la sorella.
La famiglia Lubrano, dal canto suo, originaria di Giugliano in Campania in provincia di Napoli, si è stabilita, fin dagli inizi degli anni '70, nel comune di Pignataro Maggiore dove, favorita dall'assenza di concorrenza, si è immediatamente proposta come forte e coeso gruppo criminale, capace di controllare gli affari illeciti della zona.Con il proposito di consolidare il proprio potere criminale, la famiglia Lubrano è riuscita, nel tempo, ad intessere solide alleanze con alcune della maggiori organizzazioni criminali operanti in provincia di Caserta, prima fra tutte il clan «dei Casalesi», ma anche con la famiglia «Nuvoletta», cui è legata da vincoli di parentela.
L' Area matese sembra, allo stato delle indagini, estranea ai circuiti della criminalità organizzata, nonostante gli insediamenti turistici ed industriali.

1.3. La situazione in provincia di Avellino e Benevento.

Nelle altre due province rientranti nel distretto di Corte di Appello di Napoli - e cioè Avellino e Benevento - non vi è una presenza così forte e massiccia della criminalità camorristica.
L'assenza di una tradizione criminale e un'economia, almeno per il passato, abbastanza depressa non hanno creato l'humus necessario perchè attecchisse questa cattiva pianta.
Non vi è dubbio, però, che negli ultimi tempi anche per una sorta di osmosi dalle viciniori provincie di Napoli e Caserta in alcune zone sono presenti articolazioni, anche forti, qualificabili come camorristiche.
Nella provincia di Avellino, di particolare rilievo appare la situazione del comune di Quindici, da sempre teatro di scontro tra le consorterie criminali dei Graziano e dei Cava. Il Comune vicino al nolano ha certamente subito le influenze di quell'area, vedendo nel passato una significativa presenza della NCO, solo di recente soppiantata.
Alle elezioni comunali del novembre 1995 non venne presentata alcuna lista, a dimostrazione dell'influenza esercitata dalla famiglia Graziano (il sindaco Carmine Graziano, rimasto in carica fino


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al commissariamento del Comune, avvenuto nell'aprile 1993, é stato arrestato proprio nel novembre 1995 per concorso nell'incendio doloso della casa comunale, consumato nell'agosto precedente, e per abuso di ufficio nell'assegnazione dell'appalto del locale servizio di smaltimento dei rifiuti).
Il clan Graziano, capeggiato da Arturo Graziano, conta circa 50 affiliati e suoi recenti tentativi di espansione territoriale verso l'agro nocerino-sarnese sono stati respinti soltanto per effetto della resistenza opposta dalle organizzazioni rivali.
Fra queste, assoluta importanza va assegnata alla banda capeggiata da Biagio Cava - che dopo una lunga detenzione ha riacquistato la libertà ponendosi come il nuovo referente di tutta la zona - da anni in stretta alleanza con il clan Fabbrocino, operante nel territorio Vesuviano, e con il clan Pagnozzi (capeggiato da Gennaro Pagnozzi), attivo nella Valle Caudina.
L'organizzazione che gestisce importanti traffici di stupefacenti e controlla massivamente il settore degli appalti e delle forniture edili deve ritenersi oggi egemone nel territorio e particolarmente attiva nell'indotto dei lavori della ricostruzione di Quindici.
Al clan Cava sembra, dalle indagini fino a questo momento effettuate, imputarsi l'episodio già sopra indicato di un tentativo di sequestro del capocosca dei Graziano da parte di persone travestite carabinieri. I soggetti arrestati come presunti responsabili dell'episodio sono della zona di San Giuseppe Vesuviano a dimostrazione dell'esistenza, anche attuale, dell'asse con il clan Fabbrocino.
Ad Avellino e nelle zone di Serino, Montoro e Solofra si registra l'affermarsi della famiglia Genovese, dedita alle estorsioni in danno di imprenditori e commercianti, al traffico di droga e al condizionamento dei pubblici appalti.
Il sodalizio di maggiore spessore operante nelle province di Avellino e Benevento - e, in particolare, nella Valle Caudina - è indubbiamente quello Pagnozzi.
Nato come dedito al contrabbando di t.l.e. e all'usura, ha successivamente, anche grazie ai finanziamenti connessi alle opere pubbliche del post-terremoto, esteso i propri interessi criminali ai pubblici appalti e al traffico di stupefacenti.
È stato, altresì, accertato che il gruppo, retto da Orazio De Paola e Vincenzo Bove, ha realizzato in Toscana - dove risultano avviate attività commerciali e acquisite possidenze immobiliari - ingenti investimenti dei capitali illecitamente accumulati.
Attualmente esso risulta egemonico rispetto ai clan operanti nei Comuni confinanti con la Valle Caudina; e, in particolare, alla cosca Iadanza-Panella di Montesarchio, già contrapposta ai Pagnozzi.
Nella zona di Benevento, inoltre, sono state riscontrate significative presenze ed attività criminali di elementi affiliati ai gruppi operanti nella zona di Maddaloni.
La città di Benevento risulta caratterizzata dalla presenza di un unico clan dominante, quello degli Sperandeo, già in passato avversario del clan Pagnozzi.
Nell'ultimo decennio, le organizzazioni criminali beneventane hanno fissato la propria attenzione sull'ingente flusso di finanziamenti pubblici per realizzazione di opere ed infrastrutture relative, in


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particolare, alla superstrada Benevento-Caianello, alla linea ferroviaria Caserta-Foggia ed al progetto turistico del lago di Telese.

1. 4. La situazione in provincia di Salerno

L'analisi delle vicende criminali del salernitano mostra chiaramente come questa provincia abbia subito direttamente l'inflluenza dei clan camorristici napoletani, prima con l'avvento della NCO di Raffaele Cutolo e, poi, della Nuova Famiglia di Carmine Alfieri.
I vari clan della zona, infatti, hanno avuto legami di consociazione con quelli napoletani che ne hanno determinato la possibilità di affermazione sul territorio spesso in posizione subordinata o come mandatari di un potere di intimidazione.
All'inizio degli anni 80 nel salernitano operavano prevalentemente sodalizi legati alla NCO, ma non mancavano gruppi legati alla nuova famiglia.
Con la disarticolazione negli anni dall'82 al 85 della NCO i clan della NF si andarono consolidando accogliendo nelle loro fila anche i transfughi delle bande cutoliane.
Nei primi anni '90 la incisiva azione delle forze di polizia e della magistratura nonchè la collaborazione fornita anche da molti personaggi di vertice delle organizzazioni locali ha consentito di smantellare quasi del tutto i clan storici. Gran parte degli episodi delittuosi avvenuti negli anni 80 sono stati oggetto di indagini e di processi.
Secondo la relazione depositata dal Prefetto di Salerno dott. Orrù negli anni 90 si è asssistito a un vero e proprio fenomeno di «pentitismo» di massa che ha comportato il dissolversi dei sodalizi nella loro connotazione originaria.
La situazione attuale, secondo le affermazioni fatte anche in sede di audizione dal Procuratore aggiunto facente funzione dott. Apicella, vede una fase nella quale è in corso un'attività finalizzata a colmare i vuoti di potere ed in particolare, fenomeno certamente sul quale porre l'attenzione, una rivitalizzazione sull'intero territoriale della NCO, in particolare nelle due zone ritenute da sempre più calde e cioè dell'Agro nocerino sarnese - da parte in particolare di Luigi Parlato - e nella piana del Sele - da parte di Procida Roberto.
Conferma della rivitalizzazione della struttura già facente capo a Raffaele Cutolo - potrebbe trattarsi solo di una coincidenza, ma da non molto tempo risulta a questa Commissione essere stata scarcerata la sorella di questi Rosetta, tornata ad Ottaviano - è l'attività intimidatoria posta in essere nei cantieri della ricostruzione di Sarno contro imprenditori ritenuti legati a personaggi di spessore della criminalità napoletana, - in particolare si tratterebbe di un imprenditore ritenuto legato a Mario Fabbrocino - già ai vertici della N.F.

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Per quanto riguarda la situazione dei clan operanti sul territorio sembrano potersi individuare tre grandi aree nelle quali risultano censiti 13 sodalizi camorristici; esse sono l'area della città di Salerno, quella nocerino sarnese e quella della Piana del Sele.


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Nella prima area si evidenzia una situazione in continua evoluzione.
Nella città di Salerno operano contemporaneamente i clan facenti capo ad Amedeo Panella, già legato alla NCO, e quello facente capo a Lucio Grimaldi, scarcerato nell'ottobre del 1999 per fine pena, e legato in passato a Carmine Alfieri. L'attività di entrambi i clan si sarebbe concentrata sulle estorsioni, sul traffico degli stupefacenti, sul contrabbando e sul controllo del gioco d'azzardo in particolare attuato mediante i videopoker.
A nord-est della città in Cava dei Tirreni avrebbe ripreso ad operare il clan Bisogno, disarticolato negli ultimi anni, che farebbe sentire la sua presenza sul territorio con una recrudescenza delle estorsioni e delle rapine.
Nei comuni della valle dell'Irno, in Fisciano e Baronissi opera il clan Forte, capeggiato dall'omonimo Antonio Forte. In esso sarebbero confluiti anche alcuni elementi del clan facente già capo a Francesco Genovese, oggi detenuto.
Nei comuni di Mercato S. Severino e Roccapiemonte sembra scemare la presenza del clan Maisto facente capo a Giuseppe Maisto.
Nell'area del Picentino operebbe il clan Pecoraro- Renna, molto attivo in tutti i settori illeciti nonostante siano detenuti i capi Alfonso Pecoraro e Pasquale Renna. Funzioni vicarie sarebbero svolte da Gerardo Pecoraro fratello di Alfonso, il quale terrebbe contatti con esponenti dei clan sarnesi.
L'area nocerino-sarnese è certamente quella a più elevato radicamento criminale, ciò sia per gli stretti collegamenti con i clan della provincia napoletana sia perchè si tratta di un'area molto appetibile sotto il profilo economico, caratterizzata da varie attività commerciali ed industriali ed interessata in questo periodo da un ingente massa di finanziamenti pubblici per la ricostruzione delle zone colpite dall'alluvione del 1998.
Nei comuni di Nocera inferiore e Pagani le redini del clan Fezza - i cui maggiori esponenti sono detenuti - sono state assunte dal gruppo dei paganesi, facente capo a Sandro Contaldo, che malgrado sia detenuto riesce a gestire le illecite attività attraverso il fratello Francesco ed attraverso Francesco Annunziata. Il clan sarebbe particolarmente attivo nel settore delle estorsioni e nel mercato degli stupefacenti.
In Scafati opera il sodalizio facente capo a Luigi Annarumma, anche in virtù dei legami di parentela acquisiti attraverso il matrimonio con la figlia del boss di Castellamare ora deceduto, Mario Imparato.
L'area compresa nel territorio dei comuni di Angri, S. Egidio e zone limitrofe è controllata dal clan Nocera, capeggiato dal detenuto Tommaso Nocera, operante nel settore delle estorsioni alle industrie conserviere.
Il territorio di Sarno e delle zone limitrofe è dominato dal clan Serino, guidato da Aniello Serino , attualmente detenuto. È dedito ad estorsioni ed usura ed investe i proventi illecitamente accumulati nell'acquisto di immobili, in attività commerciali e ricreative.
Nella terza area - quella della Piana del Sele - la situazione criminale appare in continua evoluzione perchè i gruppi in questo


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momento operanti sono sorti dalla disgregazione dei principali clan (Pecoraro-Renna e Maiale). Si è poco sopra posto in rilievo come nella zona sembra aver ripreso ad operare Roberto Procida, già legato alla NCO.
Il territorio cilentano non sembra essere caratterizzato da presenze camorristiche, anche se alcune parti del suo territorio - in particolare quella costiera - parrebbero essere interessate dal fenomeno del riciclaggio dei capitali sporchi nelle strutture alberghiere o negli esercizi commerciali, particolarmente aumentati negli ultimi anni.

1. 5. La presenza extraregionale della Camorra.

È un tema che richiederebbe ulteriori approfondimenti e che qui sarà oggetto soltanto di brevi cenni.
Dallo studio degli atti e dalle informazioni assunte emerge che molti sodalizi camorristici non soltanto avrebbero effettuato significativi investimenti all'estero o, ivi, avrebbero vere e proprie «filiali» - si ricordano a titolo esemplificativo gli interessi economici nei paesi dell'Est di alcune consorterie operanti nella zona vesuviana, l'esistenza di una vero e proprio insediamento di camorristi legati al gruppo Fabbrocino in Germania, gli investimenti in America Latina di molte consorterie napoletane o, ancora, il controllo da parte dei casalesi di alcune attività illecite in Spagna, luogo di ricovero preferito dei latitanti casertani; altri, meno noti, appaiono ugualmente preoccupanti come le infiltrazioni e la presenza di attività commerciali in Olanda ed in Scozia da parte del clan La Torre di Mondragone - o avrebbero reinvestito i proventi in attività dell'Italia Centro Settentrionale - in particolare in Toscana, nelle Marche ed in Emilia - ma starebbero cominciando, in modo sempre più massiccio e in contesti da sempre non toccati da fenomeni di criminalità organizzata, a spostare attività illecite ed insediamenti criminali.
Sono vari i dati che meritano da parte di questa Commissione quantomeno un segnale di attenzione; non siamo ancora, come è avvenuto nel passato, alla creazione di filiali della ndrangheta a Milano ma i clan camorristici potrebbero pensare di spostare parte delle loro attività illecite, attesa la pressione delle forze dell'ordine e della magistratura campana, in contesti nei quali vi è minore esperienza e sensibilità ai temi della lotta alle associazioni mafiose.
In questa ottica vanno segnalate le trasferta di rapinatori della provincia napoletana in molte zone dell'Italia Centrale; da indagini in corso non paiono assolutamente essere attività estempornee ma un modo alternativo ed ulteriore per finanziare alcuni clan, ad esempio quelli di Torre del Greco e Torre Annunziata.
Esemplificativa è pure la recente operazione della DDA di Bologna che nel modenese ha individuato un'organizzazione di estorsori legati ai casalesi che imponevano il pizzo a tutte le imprese edili campane che operavano in quella zona.
Infine, sintomatica della stessa situazione è la condanna da parte della Corte di Assise di Brescia di Domenico Belforte, capoclan di


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Marcianise, quale responsabile di un duplice omicidio avvenuto in quella provincia lombarda.

2. La situazione degli apparati investigativi e degli organi giudiziari.

Per quanto riguarda l'attività della polizia giudiziaria campana, in seguito al primo sopralluogo effettuato in Campania i dati che erano stati forniti, in particolare dalla Procura distrettuale di Napoli, apparivano a dir poco preoccupanti.
Veniva sottolineato, infatti, un progressivo adattamento, nell'azione della Polizia giudiziaria, alla situazione determinatasi negli ultimi anni, da due differenti punti di vista: in primo luogo si considerava diffuso il convincimento che solo la collaborazione dei pentiti potesse essere in grado di consentire indagini di rilievo sulle organizzazioni camorristiche, e che, quindi, la tradizionale attività di costruzione, attraverso i tanti segnali raccolti dall'osservazione e dal controllo del territorio, risultava lenta, faticosa, rischiosa e poco costruttiva; inoltre, e come conseguenza, che l'attività di Polizia giudiziaria in tema di lotta alla camorra era, di fatto, appannaggio degli organi specializzati dei servizi centrali (ROS e DIA, innanzitutto, e, di recente, Criminalpol), in quanto richiedeva strutture e mezzi che nessun altro organo territoriale deteneva.
La conseguenza naturale di tale situazione era, secondo quella analisi che l'attività largamente prevalente, in tema di criminalità organizzata, che gli organi di polizia giudiziaria sostenevano era costituita dalla trattazione delle dichiarazioni dei collaboratori.
Gli organi di polizia giudiziaria territoriali, quasi sempre quantitativamente inadeguati, risultavano d'altro canto letteralmente soffocati dal peso quotidiano di mille indagini e adempimenti con la conseguenza che la naturale attività di controllo del territorio e il conseguente aggiornamento delle conoscenze sui movimenti degli equilibri criminali che vi avvengono, sui soggetti emergenti e sulle attività svolte era fortemente ridotta.
Questa analisi risulta modificata nella relazione depositata dal Procuratore Cordova nel corso della recente audizione del giugno 2000; in essa testualmente si legge che: «Va detto, peraltro, che le forze di polizia e la magistratura hanno acquisito, progressivamente, nuove e più specifiche capacità investigative »di iniziativa«, che prescindono dal contributo dei collaboratori di giustizia. Costoro, invero, pur rimanendo strumento essenziale nella lotta contro il crimine organizzato, sempre più spesso costituiscono il punto iniziale di una attività conoscitiva che prosegue - e giunge a maturazione - anche per vie indipendenti; muovendosi, in tal modo, nell'auspicata direzione di un meccanismo processuale privo di ogni carattere patologico, in cui sono le rivelazioni dei collaboratori a fungere da riscontro a materiale probatorio aliunde acquisito, e non il contrario».
Si tratta, in quest'ultima situazione, di un segnale certamente positivo - confermato, in verità, da quanto accertato in sede di audizione diretta e cioè una polizia giudiziaria più motivata e attenta - anche se non vanno sottovalutate le indicazioni pure fornite dalle forze di polizia giudiziaria e dalla stessa magistratura inquirente sulla


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assoluta inadeguatezza degli organici al fine di far fronte alle incombenze, così come va raccomandato il potenziamento di tutte quelle strutture - quali, in primo luogo, Dia, Ros, Sco e Scico - che si occupano proprio del contrasto alla criminalità organizzata.


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Per quanto riguarda la situazione degli organi giudiziari campani, va detto che pur provenendo da tutti gli uffici lamentele sulle carenze di organico e sulla sottovalutazione dei carichi giudiziari anche in seguito alla unificazione degli Uffici sia inquirenti che giudicanti di primo grado, i risultati ottenuti dalla macchina giudiziaria negli ultimi anni sono obiettivamente significativi.
La DDA di Napoli - che si avvale del coordinamento di un esperto magistrato già procuratore aggiunto della DNA e che ha operato un totale e graduale ricambio dei sostituti in modo da evitare eccessive perdite di esperienze e di conoscenze, che risulterebbero dannose per l'attività di contrasto alla criminalità - ha posto in risalto con i numeri proposti e con le indagini dichiarate il rilevante impegno prodotto.
Certo, con la creazione di veri e propri mega uffici di primo grado, all'esito dell'entrata in vigore del giudice unico, la magistratura - ed in particolare i dirigenti degli uffici - sarà chiamata a uno sforzo organizzativo importante, la razionalità della cui impostazione inciderà sui risultati futuri anche in questa materia.
Riservandosi di tornare più diffusamente sul tema delle carenze negli organici va, però, qui immediatamente sottolineato come il momento del giudizio dibattimentale abbia posto in evidenza momenti di particolare criticità, specialmente nei due tribunali di recente istituzione - e cioè Nola e Torre Annunziata - ed in quello di Santa Maria Capua Vetere; i tempi obiettivamente troppo lunghi dei processi hanno certamente contribuito alla scarcerazione degli imputati per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare
In particolare inquietanti sono i dati che emergono per l'attività giudicante sammaritana che vede le corti di Assise assolutamente stracariche di lavoro - tanto che un processo per svariati omicidi contro appartenenti alla NCO per fatti dell'inizio degli anni 80 è ancora pendente e procede a rilento con la fissazione a tempi distanti delle singole udienze dibattimentali e con la scarcerazione di quasi tutti gli imputati - l'assenza di un numero sufficiente di aule con il collegamento in videoconferenza, le difficoltà delle sezioni di Tribunale di fissare i processi di criminalità organizzata in tempi accettabili.

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Merita, in questo contesto, di essere posto in adeguato risalto un dato certamente positivo.


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La Campania che si era contraddistinta nel passato per un eccessivo uso da parte dell'avvocatura penale dello strumento delle astensioni dalle udienza ha sul punto visto un mutamento di rotta.
È diminuito in modo molto significativo il ricorso allo sciopero - ma la materia necessita in ogni caso di un intervento legislativo - e di ciò certamente va ascritto merito alle Camere penali campane, maggiormente propense al dialogo ed a forme di proteste alternative per richiamare l'attenzione su alcune pure importanti rivendicazioni.

3. La situazione dei latitanti e degli imputati scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare e dei boss detenuti.

Non vi è dubbio alcuno che una lotta alla criminalità organizzata può considerarsi efficace quando i provvedimenti restrittivi dell'AG siano realmente posti in esecuzione.
La presenza di latitanti sul territorio rafforza le organizzazioni camorristiche che agli occhi non solo degli aderenti o dei fiancheggiatori sembrano avere la capacità di tenere in scacco le forze dell'ordine.
I risultati raggiunti in questo campo in Campania negli ultimi anni possono senza tema di smentite essere definiti eccezionali.
La gran parte dei latitanti eccellenti sono stati arrestati e di tali arresti si è già detto nel corso della relazione; sono state interrotte latitanze decennali - come quella di Fabbrocino - o sono stati individuati latitanti con sistemi investigativi sofisticatissimi - v. il recente arresto di Cesarano o quello del 1998 di Schiavone Francesco Sandokan.
La polizia giudiziaria, a dimostrazione della capacità di riconquista del territorio, è riuscita, ad esempio, a riassicurare in tempi rapidi alla giustizia il boss Francesco Mallardo, evaso dagli arresti domiciliari.
Va d'altro canto posto in evidenza come il numero di latitanti rimanga comunque alto - i dati del Procuratore di Napoli parlano di 673 latitanti al dicembre del 1999, numero, però, che comprende tutte le tipologie di reato e non soltanto quelli per mafia; va anche detto che i latitanti catturati, secondo la stessa fonte, nel periodo 1/1/98 31/12/99 sono stati 636 - anche se i personaggi realmente di peso sono in numero molto ridotto (in particolare i fratelli Russo nel nolano, Angelo Nuvoletta a Marano, Antonio Iovine, Michele Zagaria e Gaetano Di Lorenzo nel casertano).
La guardia sul punto non va abbassata ed anzi l'obiettivo deve essere la riduzione generale del numero dei latitanti, anche di quelli meno noti, che spesso rappresentano i quadri intermedi realmente operativi sul territorio.
Al problema dei latitanti catturati e da catturare si collega quello delle procedure di estradizione; l'esperienza è che in alcuni casi il riportare effettivamente in Italia gli arrestati può essere particolarmente complesso, per gli eccessi burocratici nelle attività di verifica dei presupposti da parte degli stati esteri.
In questa ottica si segnala che Mario Fabbrocino arrestato in Argentina da quasi tre anni e non è stato ancora materialmente estradato; ma problemi di non minore rilievo vengono anche da paesi


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della comunità europea, quali la Spagna che frappone non pochi ostacoli alle estradizioni dei soggetti giudicati in contumacia ed i cui tempi di estradizione sono tanto lunghi da farne ancora una delle mete preferite dai latitanti della camorra (il boss Nunzio De Falco, imputato fra l'altro dell'omicidio del sacerdote don Peppino Diana è stato estradato dopo moltissimo tempo dalla richiesta avanzata dal ministero italiano).

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Un fenomeno abbastanza preoccupante, che si è accertato, al di là dell'assenza di precisi dati forniti essere presente in Campania ed in particolare nel distretto della Corte di Appello di Napoli, è il significativo numero di imputati scarcerati nei processi di camorra per decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Le conseguenze pratiche di questo fatto sono fin troppo evidenti; da un lato l'imputato anche se condannato potrà attendere a piede libero il passaggio in giudicato della decisione, che non avverrà mai a breve distanza; dall'altro i tempi dei procedimenti a piede libero si allungano a dismisura - si è poco sopra citato il caso clamoroso del procedimento contro un troncone della NCO in corso presso la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere - dovendosi, da parte dei giudici, dare preferenza, nell'ordine di trattazione, ai procedimenti con imputati detenuti.
Alcune scarcerazioni per decorrenza termine per fatti molto gravi - si pensi alla vicenda dell'omicidio del piccolo Fabio De Pandi - destano, altresì, particolare preoccupazione nell'opinione pubblica, in alcuni casi ingenerando l'insorgenza di un clima di sfiducia nelle istituzioni.
Processi di particolare importanza anche per il loro carico simbolico - si è già citato i due maxi processi alla camorra casertana, Spartacus I e II - rischiano, allo stato, di concludersi con tutti gli imputati scarcerati per decorrenza dei termini.
Non è compito di questa Commissione investigare le ragioni del fenomeno; un dato, però, pare innegabile: con il sistema processuale attuale la sorte dei processi con un numero elevato di imputati è quella della tendenziale scarcerazione almeno di gran parte di essi per scadenza dei termini.
Sul punto la Commissione richiede al Ministero della Giustizia ed al CSM una particolare attenzione e vigilanza, per verificare se il fenomeno, che merita certamente di essere monitorato, in alcuni casi possa essere ascrivibile anche ad inerzie o negligenze.

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La maggior parte dei personaggi di rilievo arrestati sono stati avviati al regime speciale del 41 bis istituto che solo con l'attuazione della legge sui collegamenti in videoconferenza può ritenersi definitivamente attuato, essendo stato eliminato il cosiddetto turismo giudiziario.
L'istituto ha sostanzialmente, pur con qualche sbavatura, dato buona prova, rendendo certamente più complessi i rapporti tra


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i capi e gli aderenti ai sodalizi ancora liberi. Va, inoltre, segnalato che, in più indagini, è emerso come i boss più che sembrare preoccupati dalla detenzione in sé sono seriamente colpiti dalla prospettiva delle restrizioni del 41 bis che spezza il legame con il resto del sodalizio.
L'opzione fatta fino a questo momento dal legislatore di considerare l'istituto come eccezionale e quindi a termine, apparentemente condivisibile perché le restrizioni del regime di cui all'articolo 41 bis in alcuni casi potrebbe rendere difficoltoso il fine di rieducazione della pena, che comunque deve essere perseguito ai sensi dell'articolo 27 della Costituzione, non può non tener presente come la criminalità organizzata non vive né dal punto di vista quantitativo nè dal punto di vista qualitativo una situazione di regresso.
Questa Commissione, in conclusione, ritiene allo stato l'istituto irrinunciabile e condivide la recente scelta del governo di trasformarlo in un sistema a regime.

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Alcune vicende verificatesi con detenuti per camorra impongono alla Commissione un cenno su un ulteriore situazione.
In due vicende diverse è accaduto che personaggi di rilievo di due consorterie criminali - ci si riferisce in particolare a Franceco Mallardo, capo dell'omonimo clan operante in Giugliano ed a Walter Schiavone, fratello del più noto Sandokan e tra i vertici dei temibili casalesi - abbiano ottenuto il regime domiciliare per gravi patologie e si siano successivamente allontanati, evadendo dai propri domicili (in un caso ospedaliero).
Se è chiaro che il diritto alla salute è assolutamente irrinunciabile ed è compito dello Stato tutelarlo anche per i più pericolosi delinquenti, d'altro canto, però, l'amministrazione penitenziaria potrà - e dovrà - sempre più migliorare le strutture ospedaliere carcerarie, in modo da garantire ai detenuti la possibilità di curarsi in modo ottimale senza mettere in discussione i pur importanti profili di sicurezza.

4. La situazione delle collaborazioni con la giustizia. La questione della cosiddetta «dissociazione»

Dalle audizioni plurime effettuate in tutti i contesti a rilevante presenza di criminalità organizzata emerge un dato innegabile: l'istituto dei collaboratori di giustizia, al di là di ogni valutazione morale, è assolutamente irrinunciabile ed insostituibile nell'azione di contrasto alle forme della delinquenza mafiosa.
A costo di ripetere un concetto trito e ritrito, questa Commissione non può non ricordare come sia spesso impossibile penetrare a fondo gli interna corporis di un'associazione mafiosa senza l'aiuto di chi vi ha fatto parte.
Del resto, l'esperienza che viene dalla Campania è chiara: quando negli anni 1992, 1993 e seguenti ci furono collaborazioni di elevata caratura - si pensi a Galasso, Alfieri, Ammaturo e Schiavone, Nuzzo - vennero inferti alla criminalità colpi durissimi e interi sodalizi, anche potentissimi, furono del tutto smantellati.


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La situazione attuale posta in risalto dalla Procura distrettuale di Napoli - l'omologo ufficio di Salerno non ha fornito al riguardo sul punto dati - è decisamente preoccupante; vi è, infatti, un calo numerico sensibile delle collaborazioni dal 96 ad oggi.
Esso è testimoniato in primo luogo dalla diminuzione del numero delle richieste di programma di protezione; nel 96 esse furono in numero di 50; nel 97 furono 27 di cui 1 testimone; nel 98 29 di cui 1 testimone; nel 99 32 di cui 4 testimoni; nei primi sei mesi del 2000 vi sono state 5 richieste di programma e 9 di misure urgenti.
Ma l'elemento più preoccupante è l'altro posto in rilievo dall'ufficio inquirente: è mutato nettamente lo spessore criminale dei soggetti che si «pentono» e, conseguentemente, la possibilità di consentire, per il loro tramite, agli organi inquirenti di compiere un salto di qualità investigativo: dalla compiuta ricostruzione di singoli episodi criminosi alla esatta comprensione delle sfere di attività, dei moduli organizzativi interni e delle relazioni esterne tra i vari sodalizi delinquenziali.
L'involuzione dello strumento d'indagine appare tanto più penalizzante in quanto le nuove metodologie investigative, faticosamente acquisite dagli organi inquirenti proprio grazie alla crisi del fenomeno, consentirebbero, se opportunamente indirizzate, cospicui risultati anche sotto il profilo della acquisizione della prova diretta, e non meramente dichiarativa.
Le ragioni di quanto viene qui sottolineato, secondo la Procura della Repubblica, sarebbero molteplici. In primo luogo, le profonde difficoltà in cui si dibattono le amministrazioni deputate alla protezione dei collaboratori e dei loro familiari. È stato in più occasioni osservato come le caratteristiche del territorio italiano - dal quale vanno ovviamente sottratte tutte le regioni meridionali, in cui più accentuato è il fenomeno mafioso - non consentono di garantire effettive condizioni di sicurezza e di anonimato all'elevatissimo numero di persone sottoposte a protezione. Di qui l'esigenza di non concedere più con larghezza il trattamento di protezione non solo nei confronti di chi si è in passato reso autore di gravi reati, ma anche nei confronti di familiari estranei a ogni attività delinquenziale.
In secondo luogo, l'irrigidimento dell'atteggiamento dell'opinione pubblica per l'assistenza che dev'essere prestata a spietati criminali, oltre ad accentuare il senso di isolamento di coloro che comunque, spesso recidendo profondi legami familiari, si sono decisi a rompere con il loro passato, provoca fondate preoccupazioni per il futuro, accentuate dallo sradicamento territoriale, che fa venir meno quelle valvole di sicurezza costituite dall'inserimento nel tessuto sociale di provenienza.
A ciò va aggiunta l'inidoneità della legislazione vigente a consentire un effettivo reinserimento sociale dei collaboratori e dei loro familiari, sia per la pratica impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, autonoma o dipendente (la mancanza di validi documenti, dovuta alla impossibilità di effettuare il cambio di generalità prima della esecuzione delle condanne, costituisce a tal fine un ostacolo praticamente insuperabile), sia per la necessità di protrarre il regime di protezione al fine di poter accedere ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario. In tal modo si verifica l'assurdo che lo Stato, per consentire a persone responsabili di gravi reati di poter beneficiare di trattamenti


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detentivi extracarcerari, è costretto ad assisterle economicamente a tempo indeterminato, con pesanti oneri per l'Erario.
La Commissione ritiene a questo proposito indispensabile segnalare al Parlamento l'opportunità non soltanto che venga portata a termine rapidamente la riforma sui collaboratori di giustizia - anche l'incertezza normativa può certamente costituire la causa di mancate opzioni verso la collaborazione - ma che le scelte di fondo non appaiano eccessivamente penalizzanti per tale istituto.

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In questa sede va fatto un cenno a un'altra situazione, apparentemente analoga alla collaborazione e che è stata di recente all'attenzione dell'opinione pubblica per essere stata oggetto di una presunta trattativa riservata tra alcuni boss mafiosi e settori delle istituzioni, e cioè il fenomeno della cosiddetta dissociazione.
Con essa i boss mafiosi chiedevano sconti di pena in cambio dell'ammissione delle loro responsabilità, effettuata, però, senza accusare terzi complici.
È un'esperienza - ed è questa la ragione per cui vi si accenna, oltre che per il fatto che di un istituto di tal tipo è stato proposto l'inserimento nel testo di legge sui collaboratori di giustizia senza, però, incontrare il consenso del Parlamento - che ha avuto un suo precedente proprio in Campania, dove gli esponenti di un importante clan, quello dei Moccia di Afragola, la sperimentarono con risultati tutt'altro che positivi per la giustizia ma di certo positivi per essi che sono riusciti ad evitare in più occasioni pene anche gravissime quali l'ergastolo.
La Commissione sul punto esprime una posizione chiara: la dissociazione non è istituto utile per il fenomeno mafioso perchè non permette alcun contributo ulteriore alle indagini - il dissociato ammette eventuali responsabilità che gli sono già state contestate - e perchè se incentivato potrebbe esso stesso disincentivare le scelte di collaborazione, certamente molto più pericolose sul piano anche dei rischi individuali per chi le intraprende.

5. La situazione dell'aggressione ai patrimoni mafiosi.

L'attività investigativa sui sodalizi criminali può ritenersi completa soltanto quando anche i momenti dell'occultamento e del successivo reimpiego dei proventi dell'attività illecita vengano impediti.
L'esperienza concreta, infatti, ha dimostrato che il modo per poter effettivamente colpire le organizzazioni camorristiche è sicuramente quello di individuare le responsabilità penali personali; ma è anche quello di sottrarre loro le ricchezze illecitamente accumulate, impedendo da un lato l'approvvigionamento economico degli adepti e dall'altro il lucroso reimpiego in altre attività.
Rinviando ad una parte successiva l'analisi delle incongruenze normative e dei problemi che nella pratica sorgono in questa sede la


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Commissione ha interesse a porre in risalto come l'attività di aggressione ai patrimoni mafiosi non sia assolutamente proporzionata al rilevantissimo numero di misure cautelari personali adottate.
Alcune importanti operazioni di acquisizione dei patrimoni mafiosi sono certamente avvenute ed in alcuni casi si è trattato di attività particolarmente importanti anche per il loro valore simbolico (si pensi ad esempio agli immobili già appartenuti alla famiglia Schiavone o a quelli del capocosca Domenico Belforte o allla recentissima confisca di una parte di beni appartenuti ad una famiglia di banchieri casertani).
I dati, però, forniti dalle Prefetture mostrano come i sequestri - ed ancor meno le confische - siano numericamente ridotte e, specialmente nell'attualità, solo in alcuni casi riguardano beni di rilievo economico effettivo.
Alle stesse conclusioni è giunta l'analisi dei componenti del Tribunale di Napoli per le misure di prevenzione che hanno lamentato la scarsezza di richieste di provvedimenti reali che provengono in particolare dalla DDA napoletana.
Il Procuratore della Repubblica ha d'altro canto esibito dati da cui risultano più sequestri di beni effettuati ex articolo 12 sexies l. 356/92, provvedimenti, però, che hanno tempi lunghissimi per tradursi in possibili confische.

6. Prime valutazioni. Tratti caratterizzanti del fenomeno.

La camorra, a differenza di Cosa nostra, non contrappone un ordine alternativo a quello dello Stato, ma governa il disordine sociale. Essa presenta, in alcune aree e in alcuni settori, blocchi monolitici e, contemporaneamente e non senz'altro contraddittoriamente, in altre aree e in altri settori o soltanto in altri momenti nelle aree e nei settori prima ricordati, dispersione e polverizzazione di attività.
La camorra, dunque, non è riducibile a una formula onnicomprensiva, né è sintetizzabile in un'ottica interpretativa unidirezionale.
L'altra faccia della camorra è rivolta verso il potere, in un rapporto di interscambio dal quale emerge che, nella storia, è più spesso il potere ad avere bisogno della camorra che la camorra del potere.
Si pone, dunque, il problema della cosiddetta «popolarità» della camorra, come delle altre organizzazioni criminali.
I comportamenti degli appartenenti alla camorra testimoniano una serie di valori, nell'accezione antropologica di mete culturali obbligatorie, molti dei quali non meno esclusivi dei camorristi, ma ampiamente diffusi negli strati popolari. Da ciò si è erroneamente dedotto che la camorra è popolare, affermazione questa che è stata assunta come spiegazione dell'omertà che spesso ostacola il corso delle indagini, quando non le vanifica completamente, e come base per giudizi sprezzanti e generalmente colpevolizza le intere popolazioni meridionali.
In effetti l'analogia, o, perlomeno, l'identità tra numerosi valori camorristici e valori popolari non deve occultare il fatto che essi sono caricati da una diversa finalità. Per quelli popolari si tratta di una finalità espressiva e autorealizzativa attraverso cui si articola la cultura elaborata dagli strati popolari per conferire praticabilità all'universo


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circostante; per quelli camorristici si tratta di finalità connesse all'attuazione dell'attività criminale, che viene resa più agevole attraverso l'intimidazione, la paura, per cui i camorristi stessi godranno sempre più, grazie a questo, di sempre maggiori ricchezza, potere e prestigio.

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Un altro dei tratti della camorra è la sua tendenziale onnipervasività. Le sue caratteristiche le consentono di essere presente ovunque vi sia un'utilità. Spietatezza, opportunismo e cinismo sono certamente princìpi comuni a tutte le bande camorristiche.
Non c'è attività redditizia che non possa essere svolta; non c'è relazione politica che non possa essere avviata; non c'è prestazione che non possa essere assicurata.
A questa pervasività ha corrisposto una spontanea disponibilità alla penetrazione camorristica da parte di uomini politici, burocrati, imprenditori e esponenti delle diverse professioni, per interessi economici, professionali, elettorali, per fragilità o per ragioni di puro potere, per mancanza di senso dello Stato o di senso civico.
Pervasività da un lato e disponibilità dall'altro hanno creato in Campania un diffuso fenomeno di integrazione e connivenza tra camorra e ambienti sociali e istituzionali. Vi sono stati alcuni gravi episodi di clamorosa tolleranza, a volte di vera e propria contiguità, se non, addirittura, di commistione nei confronti del fenomeno camorristico, frutto appunto della integrazione tra camorra, società e rappresentanti delle istituzioni. Su questo punto, di particolare gravità, si avrà modo di ritornare nella seconda parte.
La pervasività di cui si è detto fa si che la camorra coinvolga nel dispiegarsi della sua attività tutte le fasce, comprese quelle minorili. Sono certamente preoccupanti non soltanto le incriminazioni, abbastanza frequenti, di minori per delitti associativi ma il coinvolgimento di costoro in molteplici forme di traffici illeciti. Alcuni concreti provvedimenti anche legislativi adottati hanno sortito alcuni effetti positivi, ma la vastità e la drammaticità della situazione, particolarmente grave per l'universo giovanile, impongono ulteriori, adeguate iniziative legislative e amministrative. Appare a tal fine indispensabile far emergere il sommerso del lavoro nero che in alcune realtà della provincia di Napoli è divenuto quasi il modo fisiologico dell'occupazione in special modo dei giovani.

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Le organizzazioni camorristiche non hanno, in quanto tali, una marcata connotazione politica, essendo esse assolutamente indifferenti alle ideologie politiche. Già nella Relazione della Commissione antimafia approvata nell'XI legislatura veniva sottolineato che la solida tradizione mercenaria delle organizzazioni camorristiche le rende disponibili a sostenere chiunque possa contraccambiare offrendo significativi vantaggi.


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La camorra guarda tradizionalmente prima di ogni altra cosa all'affare economico, alla convenienza.
Le prime tracce di presenza elettorale della camorra risalgono alle elezioni politiche del 1865; negli anni successivi si parla di «una sottospecie recentissima di malavita [che] si impone alle elezioni col terrore e con la corruzione».
Secondo il collaboratore di giustizia Pasquale Galasso, la camorra non sostiene partiti politici, ma singole persone, disponibili a essere appoggiate e a ricambiare il favore, indipendentemente dal partito di appartenenza.
Le connessioni con figure politiche in un intreccio perverso di scambi di favori e di realizzazioni di interessi comuni sono continuate nel tempo; su questi aspetti avremo modo di ritornare nel corso di questa relazione.

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La camorra è sempre stata imprenditrice, ha sempre cercato di inserirsi nei processi economici per trarre vantaggi: estorcendo tangenti su attività economiche; gestendo il lotto clandestino a Napoli; occupando posizioni di monopolio nella distribuzione di un determinato prodotto.
Oggi, l'ambito degli affari delle organizzazioni camorristiche è praticamente illimitato, dall'usura alle truffe CEE, dal contrabbando di sigarette al traffico e spaccio minuto di stupefacenti, dalle estorsioni alle rapine, in genere fuori dalla Campania, all'importazione clandestina di carni.
Dal più tradizionale settore edilizio a quello nuovo dei rifiuti tossici che sembra vedere proprio in Campania la dimensione più rilevante a livello nazionale, la camorra ha modo di dispiegare la sua notevolissima capacità imprenditoriale, che può contare per la sua realizzazione su enormi capitali, sul riciclaggio di denaro sporco e su estese connivenze con parti del sistema bancario, secondo quanto sarà esplicitato in un successivo paragrafo.

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A un esame del fenomeno camorristico, con il suo drammatico carico di violenza e di morte, emerge nettamente che esso ha avuto una forte progressione evolutiva.
Si tratta di una «evoluzione» in termini quantitativi e sul piano della ferocia; rispetto al valore irrinunciabile del diritto alla vita e del quadro di valori specifici che da esso discende si tratta in realtà di una regressione a livelli che degradano la convivenza umana, costringendola su piani che annullano di fatto processi plurisecolari di plasmazione culturale, di faticosa elaborazione di prospettive etico-politiche e di sistemi normativi a essi ispirati.
Le cronache di questi ultimi mesi testimoniano, con la cruda aridità delle cifre, l'escalation della camorra che va contrastata con un impegno prioritario e urgente.
Quest'ultima affermazione perché non resti un generico auspicio deve portare ad approfondite indagini sui numerosissimi aspetti di tale


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fenomeno e alla conseguente elaborazione di concrete proposte operative.

7. Il contesto socio-economico e quello culturale.

L'opera di contrasto alla criminalità organizzata non può fondarsi sulla sola repressione in quanto le organizzazioni di stampo mafioso hanno profonde radici sociali che non è pensabile recidere solo con l'uso della forza dello Stato.
La Commissione antimafia dell'XI legislatura ha opportunamente affermato che, oltre all'antimafia dei delitti che consiste nella repressione penale, è necessaria, specie nelle zone a più alto disastro sociale, l'antimafia dei diritti, fondata sulla socializzazione del territorio, così come più volte indicato anche dai movimenti del volontariato.
Tutti i territori dominati dalle organizzazioni mafiose presentano allo stesso tempo un grave stato di crisi sociale e un altrettanto grave condizione di fragilità istituzionale. Queste organizzazioni, infatti, nella loro versione moderna, producono malessere sociale e fragilità istituzionale. Il malessere sociale le mette in grado di accreditarsi ponendosi come apparenti risolutrici dei problemi del vivere quotidiano per milioni di cittadini.
La fragilità istituzionale consente loro di manovrare a piacimento burocrati, amministratori e spesa pubblica.
Perciò mafia e camorra temono tanto la funzionalità delle amministrazioni pubbliche quanto la socializzazione del territorio e le attività tese a un'effettiva educazione alla legalità.

* * * *

La scuola, senza dubbio, può svolgere un importante ruolo nell'opera di socializzazione del territorio e di ciò sembrano accorgersi le organizzazioni criminali che rivolgono spesso alla scuola la loro attenzione intimidatrice.
Si pensi, ad esempio, alla IV Scuola di Gragnano (Napoli), che da anni si batte efficacemente contro la camorra e per la formazione di una coscienza civile delle ragazze e dei ragazzi, subendo, per ritorsione, atti di vandalismo, furti, danneggiamenti, incendi e minacce.
È stato già rilevato che se in queste aree la comunità godesse di servizi pubblici efficienti, ciascun bambino avesse un posto in un asilo o in una scuola, ciascuna famiglia i servizi minimi che oggi sono strettamente connessi al diritto di cittadinanza, se le istituzioni nazionali e locali facessero soltanto e sempre il proprio dovere, le organizzazioni mafiose avrebbero le ore contate.
L'assunto vale in modo drammatico per la camorra, che vive in un tradizionale intreccio con i ceti più emarginati dominati con la violenza o con la prospettiva di un qualsiasi salario. Mancanza di istruzione, di servizi, di lavoro creano un crollo di status, un'assenza di identità.
Il ragazzo povero, dei quartieri più disastrati di Napoli e del suo hinterland, senza istruzione e senza possibilità di averla, senza dignità, perché non gli è stata garantita da chi esercitava potere politico,


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obbligato a un lavoro minorile che è tanto severamente vietato quanto serenamente tollerato, può diventare disponibile a tutto; e spesso lo diventa, non per sua colpa.
Rispetto a mafia e 'ndrangheta, la camorra ha una propria specifica aggressività tanto nei confronti della società quanto nei confronti delle istituzioni.
L'esistenza di più gruppi che operano sullo stesso territorio, l'accentuata dinamicità di ciascun gruppo camorristico e la spietata concorrenza tra le diverse bande fanno sì che per ciascuna organizzazione camorristica lo spazio vitale minimo coincida con il massimo spazio occupabile.

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È certo, però, un dato; il contesto socio - culturale si è ampiamente modificato - rectius migliorato - quantomeno dall'analisi fatta nella Relazione della XI legislatura.
Già i segnali che arrivano all'esterno sono del tutto diversi; il rilancio obiettivo dell'immagine di Napoli avvenuto negli ultimi anni - non è più soltanto vista come la capitale dell'illegalità - e le maggiori opportunità economiche che ne sono derivate non sono un fatto da sottovalutare.
In molte realtà, anche notoriamente controllate dalla camorra, nel corso degli anni si sono, poi, sviluppati movimenti, associazioni di volontariato, organizzazioni di famiglie consce del fatto che la camorra produce alla lunga soltanto sofferenza e sottosviluppo.
Si tratta evidentemente di piccoli segnali che è compito degli enti pubblici e dello Stato di stimolare ed incentivare; sarebbe una pretesa assurda quella di modificare tradizioni culturali decennali in pochissimo tempo.
Anzi può persino essere controproducente ingenerare aspettative di miglioramenti immediati o di sconfitte dei fenomeni camorristici in tempi brevi, in quanto le delusioni possono essere stesse essere il volano di situazioni favorevoli alla ripresa camorristica.
Né può essere in alcun modo trascurata l'azione decisiva che può svolgere la chiesa cattolica, ribadendo l'assoluta ineludibilità dei valori da essa proclamati, quali il rispetto della persona, il rifiuto della violenza, l'amore tra gli uomini, la solidarietà con i deboli e più in generale il reticolato complessivo di ideali e di impegno che rappresentano una delle più alte manifestazioni di un'etica condivisibile anche da chi eventualmente non si riconosce ma solo, da un punto di vista di appartenenza confessionale, ad essa.
È proprio ispirati a tali valori sono alcuni esempi provenienti da esperienze cattoliche che hanno dato assieme al volontariato, anche in Campania, un contributo rilevante di magistero e di testimonianza.
In questo senso, a solo titolo esemplificativo, va ricordato lo strenuo impegno anticamorra del vescovo di Caserta, mons. Nogaro, che opera in una delle realtà più difficili della Campania.

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Un ulteriore elemento che può positivamente incidere sul miglioramento del contesto socio culturale è certamente un modo nuovo di intendere l'impresa.


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Con il crollo - o comunque con la riduzione - dell'assistenzialismo pubblico si è di fatto creato uno spazio ad un'impresa che può svolgere la sua attività in regime di reale libertà e di concorrenza; non sono soltanto le commesse pubbliche a stabilire i destini economici di un'entità imprenditoriale ma la capacità di iniziative e la fantasia nelle opzioni aziendali.
L'analisi - ovviamente breve e non esaustiva - vuole preludere ad un'affermazione di tal tipo: un'impresa giovane e dinamica, a maggior ragione in un momento di ripresa economica come quello attuale, può certamente allontanarsi dallo stereotipo di quella assistita e perciò troppo spesso coinvolta in alcune dinamiche criminali.
Eppure il tessuto imprenditoriale non sembra partecipare attivamente all'opera di bonifica del territorio; in una recente venuta in Campania, il Commissario nazionale antiraket On. Tano Grasso incontrando nelle prefetture di Napoli e di Caserta le organizzazioni rappresentative delle forze produttive ha posto in rilievo come in Campania vi fosse tra le regioni meridionali il primato negativo delle associazioni cosiddette antiraket - la prima ed unica delle quali è nata in provincia di Caserta nei comuni di Parete e Trentola Ducenta - associazioni la cui funzione, in particolare, è quella di evitare l'esposizione personale nelle denunce contro le estorsioni dei singoli operatori economici e che dovrebbero essere favorite e sponsorizzate dagli organismi di categoria.
È un dato preoccupante e certamente tale da far riflettere anche perchè rimarca una contraddizione: in più occasioni, per lo più pubbliche, gli organismi rappresentativi del mondo imprenditoriale hanno posto in risalto la necessità di intervenire sulla camorra che impedisce lo sviluppo meridionale; nulla, però, hanno ritenuto di fare quando si è trattato di tradurre tale auspicio in un impegno concreto.

8. L'immigrazione clandestina.

Un cenno merita il fenomeno - molto complesso e variegato - della immigrazione che, in Campania così nel resto dell'Italia, ha inciso sull'intero contesto sociale.
Se l'immigrazione è certamente un trend storico che sta interessando l'Europa in genere e che merita un approccio più di tipo sociologico, ciò che deve destare l'attenzione della Commissione antimafia sono in particolare le conseguenze criminologiche di quella irregolare.
Mentre, infatti, nelle realtà particolarmente sviluppate del Nord Est italiano gli irregolari, almeno in gran parte, vanno ad ingrossare l'esercito dei lavoratori in nero, in Campania essi diventano più facilmente mano d'opera utile per le attività illecite in generale e per la criminalità organizzata in particolare.
Lo spaccio al minuto di sostanze stupefacenti, la prostituzione e la vendita al minuto del tabacco lavorato estero di contrabbando sono settori in gran parte occupati da cittadini extracomunitari, che evidentemente agiscono su input della criminalità camorristica.
È un dato che ormai siano molto numerosi gli stranieri detenuti in Campania per reati cosiddetti di microdelinquenza, ma non sono


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non pochi i segnali che gli stessi stranieri vengano affiliati a cosche camorristiche (in questo va ricordato il recentissimo episodio avvenuto in Secondigliano in cui due albanesi ed un italiano sono stati fatti segno di un attentato camorristico, proveniente molto probabilmente dalla Alleanza di Secondigliano).
Nella città di Napoli si sono, poi, verificati episodi di contrasto violento tra bande di extracomunitari e soggetti appartenenti alla camorra; è un dato nuovo che va attenzionato in quanto certamente sintomatico della volontà degli stranieri di trovare forme di associazionismo criminale che consentano loro direttamente il controllo del territorio, sottraendolo alla sudditanza della camorra e pericolosamente foriero di ulteriori violenze ed omicidi.
Pure molto significativo è l'insediamento nell'area nolana di cittadini cinesi, i quali sfruttano il lavoro, sovente minorile, di loro connazionali fatti immigrare clandestinamente in Italia, esercitando sugli stessi un potere di assoggettamento talmente penetrante da porre le organizzazioni in tali settori ai limiti della descrizione normativa delle associazioni mafiose.

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Nel corso delle audizioni i funzionari di polizia sentiti sui problemi dell'immigrazione clandestina - si ricorda in particolare l'audizione del Questore di Caserta Mastrolitto - hanno concordemente posto in rilievo come l'attività di controllo ad essi demandata trovi il limite nelle difficoltà di procedere realmente ed effettivamente alle espulsioni degli irregolari.
La legge Turco-Napolitano (sopravvenuta rispetto ad alcune delle audizioni), il progressivo miglioramento della sua gestione e l'aumento dei provvedimenti di espulsione sono, comunque, riusciti ad avviare un superamento delle difficoltà denunciate dai funzionari di polizia sentiti.

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