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Doc. XXIII n. 42


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PARTE SECONDA

1. Le risultanze emerse dalle missioni in Calabria.

Nel corso dei vari incontri a Reggio Calabria e a Catanzaro c'è stato un generale apprezzamento per l'azione dello Stato che negli ultimi anni ha saputo contrastare con maggiore efficacia l'attività della 'ndrangheta. Questa è stata la novità sicuramente più rilevante e ampiamente riconosciuta da tutti gli interlocutori, che non hanno mancato di sottolineare la drammatica realtà economica e sociale esistente nella regione.
La Calabria è una regione piena di contraddizioni: ha attraversato, in particolar modo negli ultimi anni, una grave crisi economica, è stata investita da contraddittori processi di caduta e di stagnazione di attività economiche e tuttavia anche da dinamiche nuove e da elementi di ripresa (4), ha sofferto e soffre di livelli di disoccupazione fra i più elevati in Italia. La questione del lavoro e dell'occupazione è sicuramente il problema più acuto e più sentito in modo particolare dalle nuove generazioni.
Con forze di lavoro rilevate in 738.000, di cui 531.000 occupati e 207.000 in cerca di occupazione, la Calabria è la regione d'Italia che registra nel 1999 il più alto tasso di disoccupazione, 28% (5); significativo appare il grafico del confronto Calabria/Italia dei valori percentuali del tasso di disoccupazione, rappresentato nelle "Note sull'andamento dell'economia della Calabria nel 1998 (Catanzaro 1999)" della Banca d'Italia.

TASSO DI DISOCCUPAZIONE (6)


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I segretari regionali Emilio Viafora della CGIL, Enzo Damiano della CISL e Alfonso Cirasa della UIL hanno rimarcato nei loro interventi l'enorme difficoltà della situazione per quanto riguarda il lavoro e l'occupazione.
Una situazione sicuramente preoccupante è quella relativa all'area di Crotone, un tempo polo industriale d'antico insediamento al quale era stata affidata una prospettiva di sicurezza, di occupazione e di nuovo sviluppo, non solo per la città ma anche per i comuni circostanti. Il fallimento dell'intervento Eni e del polo chimico, la situazione di crisi che si è via via abbattuta sulle locali produzioni industriali, rischia - se non si interviene in maniera efficace ed adeguata - di porre la parola fine a quel particolare comparto industriale fino a pochi anni fa vanto dell'intera Calabria.
Sono i giovani che avvertono maggiormente i drammatici disagi di questo stato di cose. Sono i giovani i più esposti alle lusinghe e alle offerte della 'ndrangheta. Il modello mafioso continua ancora oggi ad esercitare un certo fascino sui giovani e sui giovanissimi. Proprio su di essi la 'ndrangheta sta puntando in questa fase di riorganizzazione per sostituire con nuove leve quelle che sono finite in carcere grazie all'attività di contrasto messa in campo dallo Stato.
La questione del lavoro in Calabria appare allora non solo come una questione di civiltà e di giustizia sociale, ma anche come una vera e propria questione democratica.
Il sindaco di Seminara, Salvatore Costantino, ha ricordato che su 130 imputati per mafia originari del suo comune moltissimi si collocano fra i giovani di età compresa tra i 18 e i 22 anni; molti altri sono addirittura minorenni.
Il presidente del Centro comunitario Agape, Mario Nasone, e vicepresidente nazionale del MOVI, ha riferito le parole di un ragazzo di appena dodici anni: "Io da grande voglio fare il mafioso, voglio uccidere tutti i giudici e, se capita, pure qualche carabiniere e poliziotto perché ci stanno antipatici ed è un lavoro che rende, perché più uccidi e più soldi fai e più rompiscatole togli dai piedi. In questo lavoro non c'è mai disoccupazione, c'è sempre lavoro, se ci sai fare, se stai zitto e se hai fortuna".


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C'è, in queste parole, la drammatica e tragica disperazione di un giovane che, in mancanza di alternative credibili, aderisce alla cultura mafiosa, e si propone chiaramente l'obiettivo di fare il mafioso perché pensa di ricavarne vantaggi diversi, anche sul terreno economico più immediato. Questo problema non è soltanto di quel giovane dodicenne, ma riguarda la società calabrese nel suo insieme e investe le istituzioni dello Stato.
Negli ultimi anni l'economia della Calabria è stata fortemente segnata dalla contrazione della spesa pubblica e dalla diminuzione dei grandi appalti in conseguenza della conclusione del lungo ciclo economico caratterizzato dalla Cassa per il Mezzogiorno e dall'intervento straordinario dello Stato. Questo segno non risulta sia stato rovesciato o compensato dagli interventi resi possibili dal cosiddetto "decreto Reggio" e dalla realizzazione del porto di Gioia Tauro. Solo in questi ultimi anni Novanta si registrano mutamenti della tendenza e interventi finanziari nuovi da parte dello Stato e dell'Unione europea, come è ampiamente documentato più avanti e nella appendice statistica.
La Calabria che è emersa dalle audizioni ha evidenziato da una parte elementi di indubbia novità e dall'altra parte il permanere di antichi problemi irrisolti. Ha ben sintetizzato questa situazione un dirigente della CISL di Reggio Calabria, il dottor Luigi Sbarra: "proprio in questa provincia si sono formati comitati spontanei della società civile che vogliono fare barriera contro il crimine organizzato, vogliono creare argini, alzare un muro, insieme al sindacato, insieme alle associazioni culturali. Penso, ad esempio, che bisogna essere accanto a questa gente, non bisogna isolarla, perché più si isolano questi movimenti, più la mafia ha possibilità di accrescere la sua presenza sul territorio. Le porto un esempio. A Rizziconi e a Cittanova i commercianti, dopo anni di sofferenze, di soprusi, di angherie, hanno rotto la catena dell'omertà e si sono messi insieme, sfidando sul proprio terreno il crimine organizzato; ma c'è un altro esempio significativo, a Bovalino. Valorizziamo anche queste cose, perché non vorrei che magari quando rientrate nelle vostre sedi e fate i vostri rapporti si presentasse la Calabria tutto sommato come una regione ripiegata su se stessa, assuefatta, rassegnata. No, ci sono in questa regione, in questi territori, forze che quotidianamente sono attivate su questo terreno. Ecco perché noi chiediamo, rivendichiamo che a questi sforzi si aggiunga un'attenzione diversa dello Stato per moltiplicare queste iniziative. A Bovalino i giovani, la società civile si è organizzata per fare barriera, per fare diga, per lottare contro la piaga orrenda dei sequestri di persona. Quindi è vero: abbiamo sicuramente molte difficoltà, ma in questi mesi, in questi ultimi anni è cresciuta una sensibilità rispetto a queste cose".
Fra gli elementi di indubbia novità è possibile segnalare la irrilevanza del fenomeno dei sequestri di persona che pare essersi avviato a una definitiva conclusione. Né, almeno allo stato attuale delle cose, sembra esserci un mutamento di rilievo dopo l'eccezione del sequestro della signora Alessandra Sgarella rapita a Milano e liberata in Calabria.
Altrettanto importante è il dato relativo alle morti violente. Gli omicidi in provincia di Reggio Calabria sono in netta e costante diminuzione. I dati forniti dal prefetto di Reggio Calabria per il


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periodo 1 gennaio 1990 - 29 febbraio 2000 sono particolarmente significativi:

Questo dato (7) si apprezzerà ancora di più se si tiene in conto che esso è comprensivo anche degli omicidi di mafia. Più avanti, un'altra tabella indicherà i dati dei soli omicidi di matrice mafiosa e a commento di essa si cercherà di indicare le ragioni della loro progressiva diminuzione.
Il dato appare ancora più interessante se confrontato con la tragica scansione temporale che ha contraddistinto - si può dire quasi quotidianamente - alcune zone della Calabria. In un documento consegnato da Monsignor Bregantini, vescovo di Locri, e riportato in appendice è rappresentato il quadro illuminate degli omicidi nel distretto della Diocesi di Locri nel periodo 1986-1995.
Si tratta di un fascicolo elaborato dalla Commissione diocesana giustizia e pace e diffuso dalla Diocesi dal titolo: "Perché il mio popolo non dimentichi (Sal 58, 12), giornata diocesana di ricordo di tutte le vittime della violenza". Si è scelto di riprodurlo integralmente non come utile supporto di statistica criminale, ma per l'alto valore e il contributo significativo di questa iniziativa della più alta autorità morale per il riscatto della società civile.
"Un numero agghiacciante, elevatissimo, che non può non far pensare e rimettere in discussione tanti metodi pastorali e interrogare la coscienza civica di tutti noi" ammonisce il documento nel descrivere e giudicare la lunga catena di sangue. Per concludere : "Riteniamo poi che questo elenco possa essere per ogni parrocchia, per ogni comunità religiosa, per ogni associazione, per ogni movimento, per ogni gruppo un'occasione di riflessione: la nostra azione pastorale, la nostra attività,


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i nostri impegni sono adeguati alla situazione in cui ci troviamo? Non si tratta di mettere in dubbio la bontà delle intenzioni. Si tratta di vedere se il nostro zelo, la nostra fantasia, il nostro coraggio non possano e non debbano suggerirci qualche correzione di rotta. L'elenco è offerto poi a quella che si suole chiamare società civile. Al di là delle proprie convinzioni religiose, al di là delle preferenze politiche, crediamo che la considerazione dei 263 omicidi nell'ultimo decennio imponga un esame di coscienza. Non intendiamo certo estendere all'intera società le responsabilità di questi delitti, ma non possiamo nemmeno sottovalutare il peso che un certo degrado della vita civile ha nel diffondersi di un clima di sopraffazione e di violenza. Dove servizi elementari non funzionano, dove le leggi vengono prese in considerazione solo per i vantaggi che se ne possono trarre, dove al potente si offrono privilegi e al debole si negano diritti, dove in cima alle aspirazioni di molti ci sono potere e denaro, non c'è da meravigliarsi che prosperi la violenza e si giunga con disinvoltura all'omicidio. Infine, presentiamo questo elenco anche alla considerazione delle più alte autorità dello Stato. Non riteniamo ammissibile, per una nazione civile, che in un territorio così limitato avvengano tanti omicidi; meno ancora riteniamo ammissibile che ne rimanga impunito, come è ampiamente notorio, un numero tanto elevato. Questa considerazione non vuole essere un giudizio negativo sul lavoro di persone istituzionalmente preposte alla tutela dell'ordine pubblico o all'amministrazione della giustizia. Ci limitiamo a constatare i fatti e riteniamo che fatti straordinari impongano misure straordinarie: quantità e qualità adeguate di uomini e di mezzi, ma anche, pensiamo, chiarezza e semplicità di procedure, migliore coordinamento di interventi e più coraggio e fiduciosa collaborazione tra istituzioni e cittadini". Si potrà ancor più apprezzare tutto questo alla luce di quanto è più avanti riportato dalla testimonianza resa dal sindaco di Locri e dello spaccato che l'operazione Primavera evidenzia della guerra tra mafia e democrazia e dello scontro interno alla 'ndrangheta (cfr. pp. 27 e 28).
Secondo i dati forniti dalla Prefettura e dalla Questura, negli ultimi due anni sono stati catturati 160 latitanti nella sola provincia di Reggio Calabria; molti di essi erano compresi nella lista dei 500 latitanti più pericolosi predisposta dal Ministero dell'interno. Anche nelle altre province calabresi è aumentato il numero dei latitanti catturati. In altre regioni d'Italia e all'estero altrettanti e significativi successi hanno colpito gli insediamenti della 'ndrangheta.
I dati forniti dalla Direzione centrale della polizia criminale del Ministero dell'interno forniscono il quadro completo dei latitanti più pericolosi catturati nel periodo 1.1.1996-29 febbraio 2000.


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Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia alla data del marzo 2000 risultano ristretti in carcere, perché condannati per il reato previsto dal 416 bis, n. 339 affiliati alla 'ndrangheta e di essi 154 risultano i detenuti sottoposti al regime del 41-bis.
Nonostante questi risultati tanto rilevanti, la forza e la pericolosità di capi e gregari tuttora latitanti non possono essere oscurati o minimizzati dai successi. Infatti latitanti ancora pericolosi figurano nella lista dei 30 latitanti di massima pericolosità inseriti nel "programma speciale di ricerca". Essi, secondo i dati forniti dal Ministero dell'interno, sono:
Barbaro Giuseppe, di Platì
Condello Pasquale, di Reggio Calabria
De Stefano Orazio, di Reggio Calabria
FacchiNeri Luigi, di Cittanova
Morabito Giuseppe, di Casalinuovo
Santaiti Gaetano, di Seminara
Tegano Pasquale, di Reggio Calabria.

L'altra novità di notevole interesse che caratterizza la realtà calabrese è rappresentata dall'emergere di una nuova leva di amministratori locali, i quali hanno reagito alla presenza della 'ndrangheta nei loro comuni, e hanno tentato di spezzarvi le infiltrazioni palesi e più nascoste, o di neutralizzarne la rappresentanza dichiarata e manifesta, o più occulta sia tra gli eletti sia in seno agli apparati amministrativi.
L'elezione diretta dei sindaci ha permesso il rinnovo di numerose amministrazioni comunali, comprese molte di quelle che erano state sciolte perché condizionate o infiltrate dalla 'ndrangheta.
Nel corso degli anni Novanta sono stati sciolti 18 consigli comunali. Ancora prima, nel 1983, era stato sciolto dall'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini il consiglio comunale di Limbadi in provincia di Vibo Valentia perché era risultato primo degli eletti il latitante Francesco Mancuso, capo dell'omonima famiglia mafiosa. Questo fatto dimostra la potenza, sin da quegli anni, dei Mancuso. La famiglia Mancuso, storicamente collegata ai Piromalli di Gioia Tauro, è quella dominante in tutti i paesi della provincia di Vibo Valentia con una presenza opprimente soprattutto in vari campi dell'economia locale che ne è pesantemente condizionata. È una 'ndrangheta radicata, potente ed in espansione poiché dalla provincia di Vibo Valentia esponenti di rilievo di questa famiglia sono stati coinvolti e condannati in traffici di droga al nord Italia e all'estero.


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I dati forniti dal Ministero dell'interno danno il seguente quadro dei comuni sciolti:

Al momento della prima missione in Calabria, e cioè fino al marzo del 1997, solo nei comuni di Camini, Melito Porto Salvo, Roccaforte del Greco e Roghudi c'era ancora una gestione commissariale conseguente allo scioglimento dei consigli comunali. Alla data del 29 febbraio 2000 risultano ancora sciolti i comuni di Sinopoli e di Santo Stefano d'Aspromonte.
La maggior parte dei comuni disciolti ricade nella provincia di Reggio Calabria. Da notare che il consiglio comunale di Melito Porto Salvo è stato sciolto per ben due volte, nel 1991 e nel 1996: segno della forte influenza che su quel territorio riesce ad esercitare la 'ndrina al cui vertice c'è Natale Iamonte (8).
La Calabria può vantare l'unico consiglio comunale, quello di S. Andrea Apostolo sullo Jonio, che, seppure sciolto, è stato successivamente reintegrato (la sentenza passata in cosa giudicata ha annullato


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i precedenti provvedimenti amministrativi e giudiziari che avevano portato anche all'arresto del sindaco e di un assessore) (9).
I nuovi sindaci sembrano aver preso coscienza della necessità di contrastare il fenomeno mafioso e hanno posto in essere una serie di azioni in grado di limitare e di impedire i rapporti collusivi del passato.
Un significativo mutamento nel comportamento dei sindaci è dato dal fatto che mentre un tempo, chiamati a testimoniare nei processi, essi negavano la presenza della 'ndrangheta nel proprio territorio (famoso è rimasto il caso del processo cosiddetto ai sessanta quando solo due sindaci ebbero il coraggio di testimoniare (10)), ora molti di loro si costituiscono parte civile contro le cosche rinviate a giudizio, o in processi di grande rilevanza, e, per certi aspetti, emblematici, come quello per Gioia Tauro.
Giuseppe Geraci, sindaco di Corigliano Calabro, ha annunciato che il suo comune si è costituito parte civile nei confronti dei clan coinvolti nell'operazione Galassia.
All'audizione del 17 marzo 1997 non hanno partecipato i sindaci di Crotone e di Reggio Calabria le cui amministrazioni sono state elette dopo la visita della Commissione antimafia.
All'attenzione dei commissari sono stati portati esempi di un contrasto attivo dei sindaci nei confronti degli uomini delle cosche, e della reazione di questi ultimi, che si sentivano colpiti dal nuovo comportamento adottato dalle amministrazioni comunali, soprattutto quelle insediate dopo lo scioglimento delle precedenti infiltrate dalla 'ndrangheta.
Molti attentati hanno danneggiato edifici comunali o scuole. Gli stessi amministratori sono stati oggetto di minacce e di varie azioni delittuose che hanno colpito automobili ed abitazioni private.
Significativo è quanto è accaduto in alcuni comuni: a Locri, dove sono stati presi di mira dei semplici cittadini; a Stefanaconi, dove sono stati ripetutamente fatti oggetto di minacce il sindaco Elisabetta Carullo e molti amministratori; a Polistena, dove il sindaco Girolamo Tripodi ha ricevuto lettere minatorie; a Rosarno, dove sono state incendiate le scuole; a Seminara, dove si sono verificati alcuni attentati dopo che il sindaco aveva invitato un imprenditore che aveva subito dei danni a respingere i ricatti della 'ndrangheta e a proseguire i lavori; a Reggio Calabria, dove c'è stata la pesante minaccia contro il sindaco Italo Falcomatà con l'incendio del suo portone di casa che, solo grazie ad un tempestivo intervento dei vigili del fuoco, non ha prodotto danni irreparabili alle persone. Una delegazione della Commissione antimafia guidata dal presidente Ottaviano Del Turco si è immediatamente recata a Reggio Calabria per incontrare il Comitato provinciale dell'ordine e della sicurezza pubblica e per portare l'adesione e il saluto unanimi


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della Commissione ad una affollata manifestazione di solidarietà e di sostegno al sindaco Falcomatà.

Il sindaco di Seminara, Salvatore Cosentino, ha raccontato così la sua esperienza di amministratore: "proprio il giorno prima della visita del Capo dello Stato in Calabria un gruppo armato di persone irrompeva in un cantiere, imponendone la chiusura. Quello che preoccupa è che si trattava di un cantiere che avrebbe dovuto eseguire lavori di modesta entità che avrebbero comportato un movimento di denaro di complessivi 100 milioni. Fatto sta che il cantiere è stato chiuso e i lavori non sono più ripresi: dobbiamo riflettere attentamente su questo aspetto. Vi è stata una dura reazione da parte delle amministrazioni locali, vi è stato un interessamento da parte degli organi preposti, ma non vi sono stati grandi clamori. A settembre ha avuto luogo un'identica rappresentazione: un gruppo armato ha fatto irruzione in un altro cantiere imponendone, anche questa volta, la chiusura. In questo caso, però, alla reazione degli organi istituzionali si è aggiunto qualcosa in più: le amministrazioni, come è giusto, rivendicavano e rivendicano il diritto di esercitare il mandato amministrativo loro affidato, ma senza alcun vincolo nei confronti della mafia, che per lungo tempo ha ritenuto di essere l'elemento legittimante dei poteri locali. Abbiamo quindi ritenuto opportuno invitare le imprese, che rappresentano l'anello più debole del sistema, a non piegarsi alla logica del pizzo. Il giorno successivo, il municipio di Seminara è stato dato alle fiamme e, dal punto di vista simbolico, questa reazione ha avuto ed ha un significato particolarmente forte (11). Mi limito infine ad accennare il noto episodio del 31 dicembre scorso che non credo richieda ulteriori specificazioni" (12).
Seminara è un piccolo comune. Il raid di fine 1996 ha creato sconcerto e allarme per la tracotanza e la spavalderia dei mafiosi. Eppure, quello che è successo fotografa una particolare realtà e pone delle questioni più generali di cui si è fatto portatore lo stesso sindaco: "che riflessione suggerisce la circostanza che in una realtà locale, che conta meno di 4.000 abitanti, in un paio di anni 130 persone siano state imputate per fatti di mafia? Che riflessione suggerisce il fatto che dal 1995 ad oggi si siano verificati tre omicidi, di cui uno di un collaboratore di giustizia, e quattro tentati omicidi, di cui due di


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parenti di collaboratori di giustizia? Che riflessione suggerisce la circostanza che su 130 imputati moltissimi si collochino fra i giovani di 18-22 anni e che molti siano minorenni? Non so se i dati relativi al comune di Seminara siano simili a quelli che si riscontrano in altri comuni della provincia, comunque è nostro dovere riflettere sull'alta percentuale di giovani, giovanissimi e, in alcuni casi, minorenni fra gli imputati di associazione mafiosa".
Le parole del sindaco segnalano i guasti prodotti nella convivenza civile e gli effetti su una struttura sociale caratterizzata da un'alta disoccupazione giovanile che può alimentare, in mancanza di alternative, il serbatoio della manovalanza mafiosa. Una situazione altrettanto pesante è stata ricordata dal dottor Paolo Calvo, prefetto della provincia di Crotone. Secondo questo funzionario, in un comune "il 70% dei giovanissimi di 12-13 anni è assoldato dalla mafia per il controllo del territorio, ragazzini che vengono messi nelle posizioni più disparate per controllare chi entra e chi esce addirittura dalle caserme dei carabinieri".
È bene chiarire che non c'è rapporto diretto e automatico tra disoccupazione ed adesione alla mafia - non tutti i giovani disoccupati, per fortuna, finiscono nelle organizzazioni della mafia -, ma è fuori di dubbio che una politica di sviluppo insieme ad un governo del mercato del lavoro e del collocamento, in grado di promuovere l'attuazione del diritto al lavoro e del lavoro nel diritto, in grado di garantire alle nuove generazioni lavoro, e libertà sul posto di lavoro, rappresenti un forte incentivo perché molti giovani escano dalla disperazione e siano sottratti al richiamo mafioso.
Il sindaco di Locri, Giuseppe Lombardo, ha descritto in questi termini la pesante realtà esistente nel territorio da lui amministrato: "anche a Locri, purtroppo, esistono gruppi mafiosi molto pericolosi, adusi al crimine. Essi ritengono che Locri possa divenire una sorta di terra di nessuno nelle mani della criminalità e della delinquenza. Vorrei ricordare la lunga serie di attentati e di omicidi registratasi negli ultimi anni, una serie che ancora non si è interrotta. Purtroppo decine e decine di omicidi sono rimasti impuniti e questo crea grande preoccupazione anche negli amministratori locali che finiscono per non trovare collaborazione in una opinione pubblica fortemente preoccupata. Basti ricordare quanto è successo nella notte di Capodanno: numerosi imprenditori, professionisti, uomini politici, commercianti sono stati presi di mira; persone stimate, distintesi in passato per un comportamento intransigente nei confronti della mafia e della criminalità organizzata, sono state letteralmente prese di mira. Era ed è il segno che vogliono riappropriarsi del territorio oggi che l'amministrazione comunale di Locri, ma ritengo anche le altre amministrazioni comunali della Locride, di tutti i colori politici, stanno cercando di dare fiducia alla gente, di far riprendere il gusto di vivere. La delinquenza organizzata di stampo mafioso e la delinquenza comune hanno sempre fatto, in questa zona, il bello ed il cattivo tempo".
A distanza di alcuni mesi dalla visita della Commissione, l'operazione Primavera avrebbe dato un quadro ancora più drammatico - se possibile - di quella realtà, descrivendo con le stesse parole dei


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mafiosi, colte attraverso oculate intercettazioni ambientali e non da racconti di collaboratori di giustizia, il clima di paura, gli attentati, la guerra tra i contrapposti schieramenti dei Cordì e dei Cataldo, i rituali, i gradi della 'ndrangheta, l'interesse dei mafiosi per il voto amministrativo (13).


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Il nuovo atteggiamento dei sindaci ha un valore molto concreto nella lotta contro la 'ndrangheta perché rompe il muro di omertà e costituisce il terreno più adatto e il primo indispensabile atto per liberare le amministrazioni comunali dalla presa mafiosa, ma ha anche un indubbio valore simbolico, assai pratico anche esso, per tutto quello che il simbolo muove nella società civile.


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Il sindaco di Rosarno, Giuseppe Lavorato, ha fatto osservare ai commissari dell'antimafia che "un capo mafia che non ha nelle proprie mani il sindaco è un capo mafia dimezzato nel potere e nel prestigio, è un capo mafia che non incute più quel terrore necessario per essere padrone del territorio. Quindi la mafia attacca i comuni per riconquistare


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questa posizione, questa forza e questo prestigio e utilizza tutti i mezzi a disposizione: la intimidazione forte e, quando questa non basta, il danneggiamento di tutte le strutture pubbliche per creare disagio nella popolazione".
Quasi tutti i sindaci si sono anche lamentati del fatto che troppo spesso sono stati oggetto di numerose indagini da parte dell'autorità giudiziaria per fatti non ricadenti sotto la loro gestione diretta o per fatti ritenuti marginali e con richieste reiterate di atti amministrativi che in determinati casi hanno paralizzato o intralciato l'attività amministrativa.
Giuseppe Aulicino, sindaco di Santa Maria del Cedro, ha descritto quello che è successo dopo la richiesta di un numero eccessivo di documenti in seguito ad una indagine della magistratura per presunti reati amministrativi.
Le iniziative della magistratura sono state a volte, indirettamente, o direttamente provocate dalle stesse organizzazioni mafiose. Questa realtà è stata denunciata con efficacia dal sindaco di Rosarno: "La mafia utilizza anche le denunce e gli esposti anonimi perché sa che, attraverso questi strumenti, si innesca il meccanismo di cui parlava prima il sindaco di Polistena: indagini nei comuni ad opera della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza, ispettori che bloccano l'attività dei comuni. Noi governiamo comuni che hanno ancora apparati burocratici deboli, insufficienti, penetrati dalle organizzazioni mafiose. Quando a queste difficoltà si aggiunge il fatto che quotidianamente gli agenti della polizia o, in generale, delle forze dell'ordine bloccano l'attività degli uffici più importanti, si capisce perché non siamo in grado neppure di evadere la corrispondenza, non siamo in grado neppure di intervenire in relazione ai bisogni e alle urgenze quotidiane per la nettezza urbana, le fognature, la rete idrica e questa incapacità di intervenire e di dare risposte genera ulteriori denunce, esposti che perpetuano il medesimo meccanismo. Inoltre, noi amministratori non vogliamo fare da palo agli interessi mafiosi, neppure coprendo il fatto che vi possono essere delle imprese con tutte le certificazioni in regola, ma che in realtà nascondono forze criminali e allora subiamo anche determinazioni che non solo ci espongono


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fisicamente alla reazione della criminalità, ma ci espongono anche sul terreno giudiziario perché quelle imprese possono far ricorso al TAR, possono presentare denuncia alla magistratura. Dunque si determina una situazione paradossale nella quale gli amministratori onesti e corretti che vogliono veramente tutelare gli interessi delle popolazioni e combattere la mafia sono in realtà esposti dal punto di vista del pericolo fisico e da quello dell'azione giudiziaria e penale anche per inadempienze che appartengono ad un passato remoto: succede, ad esempio, di essere chiamati a rispondere delle condizioni della rete idrica in relazione a tutto quello che non è stato fatto nei decenni passati".
Il prefetto di Reggio Calabria, dottor Nunzio Rapisarda, ha sintetizzato così le novità emerse nelle nuove realtà amministrative: "c'è un mutamento sostanziale nei 97 comuni di questa provincia, effetto appunto dell'elezione diretta del sindaco. Si è cominciato a parlare un linguaggio nuovo, che io esprimerei nei seguenti termini: con molto senso di responsabilità la Calabria sta voltando pagina - guai a non credere a un'affermazione del genere - nella misura in cui gli amministratori, a volte da soli, si battono con grande coraggio per portare avanti un discorso diverso, un progetto di trasparenza e di rispetto della legalità nelle vicende spicciole di tutti i giorni".
I sindaci hanno sottolineato i problemi concreti che si trovano ad affrontare in ambienti condizionati dalla presenza mafiosa. Il sindaco di Taurianova, Emilio Argirorfi, ha raccontato un'esperienza, altamente significativa del clima che si vive in piccole comunità, quella della "iniziativa di un parroco della frazione di Amato di Taurianova, una piccola comunità di poche centinaia di abitanti, avvelenata dalla cultura della mafia e della sopraffazione".
Le parole dei sindaci descrivono il ruolo di supplenza che in determinate realtà - particolarmente nei piccoli comuni dell'Aspromonte - ha storicamente avuto la 'ndrangheta la quale è stata capace di presentarsi come un'organizzazione vicina alla povera gente.
Il sindaco di Cittanova, Francesco Morano, ha raccontato un'altra realtà, ha parlato delle "difficoltà d'impresa. Con ciò non intendo affermare soltanto che l'imprenditore del Nord non viene ad investire al Sud, ma anche che esistono le difficoltà dei nostri imprenditori che, pur avendo voglia di investire il denaro di cui dispongono, hanno paura a farlo. Nel mio paese cerco di stimolare i piccoli imprenditori, ma spesso la difficoltà non nasce dalla scarsa inventiva, ma dalle preoccupazioni e dalle paure che gli stessi hanno nell'avviare un'attività economica. Le tangenti vengono chieste non soltanto sui lavori e continua ad esservi il racket, che a volte si manifesta attraverso i furti, come è accaduto ai danni di alcune aziende agricole di Cittanova e di Taurianova".
Infine, ci sono stati segnali preoccupanti da parte di qualche sindaco del vibonese che sembra aver sottovalutato la presenza mafiosa nella sua realtà, e, in particolare, quello di un sindaco che ha trovato il modo di giustificare il comportamento di cittadini i quali, di fronte ad un caso di omicidio, hanno ritenuto di non rendere testimonianza.


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Oppure, comportamenti non sempre positivi di alcuni sindaci della provincia di Catanzaro. Secondo il questore di Catanzaro, dottor Vittorio Vasquez, "laddove i sindaci potrebbero aiutare a venire a capo di determinate situazioni, non abbiamo ricevuto mai da loro alcuno aiuto. Il prefetto ha tenuto diverse riunioni con associazioni e sindaci: ebbene, nella provincia di Catanzaro non esiste alcuna associazione antiracket né un'associazione antiusura. Quando si sono verificati degli atti di intimidazione nei confronti di amministratori, questi ultimi non hanno fornito alcuna indicazione per consentirci di capire da chi e perché fosse stato operato l'atto di intimidazione".
Pur con simili eccezioni e resistenze a fondare il governo del Comune su una netta discriminante antimafiosa, in generale, le parole dei sindaci segnano un salto di qualità rispetto al passato, quando molti amministratori si mostravano silenti rispetto a quello che accadeva nei loro comuni, o, in ogni caso, non esprimevano in forma pubblica una esplicita polemica contro lo strapotere delle cosche.
Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, sono stati uccisi alcuni sindaci perché ritenuti dalle cosche non completamente affidabili oppure un ostacolo. In quel periodo la 'ndrangheta avvertì la necessità di eliminare anche coloro che, mostratisi acquiescenti nel passato, forse non avevano fino in fondo assecondato tutti i desideri dei mafiosi. Gli omicidi mostravano l'apertura di una fase nuova, quella dell'ingresso in prima persona di uomini della 'ndrangheta nei consigli comunali. Tra i tanti casi che si potrebbero citare è utile menzionare quelli del 1980. Nel consiglio comunale di Reggio Calabria fu eletto l'avvocato Giorgio De Stefano e in quello di Gioia Tauro fecero il loro ingresso parenti diretti di Girolamo Mazzaferro, Giuseppe Piromalli e Saverio Mammoliti, i mafiosi più potenti della Piana.
L'elevato numero dei comuni sciolti per mafia mostra quanto sia stato penetrante il condizionamento mafioso sulla vita amministrativa nei due decenni successivi. I mafiosi hanno sempre ricercato rapporti con amministratori locali e regionali e con uomini eletti nel Parlamento. Il comune è il primo terreno su cui cercare e costruire la connessione migliore tra attività economiche e controllo capillare del territorio.
La storia e gli sbocchi dei rapporti tra 'ndrangheta e politica potrà trovare una più adatta e più utile collocazione nella proposta relazione della Commissione sulla 'ndrangheta (14).


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Nella storia della 'ndrangheta il rapporto con uomini politici è stato sempre utilizzato dai mafiosi per acquistare prestigio e mostrare pubblicamente il loro potere. La sanzione sociale di tale comportamenti ha fatto sì che, per un lungo periodo, i rappresentanti politici e delle istituzioni evitassero di avere frequentazioni pubbliche con i mafiosi. Il riemergere di questi rapporti non può che essere segnalato come un fatto estremamente allarmante perché contribuisce a discreditare le istituzioni e a disincentivare le forze dello stato che, con sacrifici anche di vite umane, stanno conducendo un'efficace lotta di contrasto alla mafia.
Ostentare dinanzi ad un seggio elettorale il proprio accompagnarsi, perfino amicale, con un boss mafioso e il partecipare, quale personalità eminente, al matrimonio della figlia di costui, appare riesumazione di un comportamento culturalmente e civilmente inaccettabile, che sembrava essere stato messo al bando dal comune sentire.
Questa duplice circostanza è segnalata da due relazioni, rispettivamente dei Carabinieri di Reggio Calabria e di Sinopoli (15), riguardanti il deputato Matacena e il boss Carmine Alvaro, di cui si ricorda un'estetizzante definizione di 'ndrangheta:
"Io dico una cosa: vedi che la 'ndrangheta è brutta per quelli fuori 'ndrangheta, perché la colpa è sempre nostra! ... La 'ndrangheta è la più bella cosa! Te lo dico io che è la più bella cosa! Più bella di tutte le società che esistono al mondo!"
(Così Alvaro Carmine - colloquio intercettato dalla polizia giudiziaria - in atti del proc. pen. c/o Alvaro Antonio ed altri, n. 112/96 Rgnr DDA Reggio Calabria).

2. L'aggressione della 'ndrangheta all'economia calabrese.

La fine dei conflitti armati tra le cosche e il diminuito numero degli omicidi appaiono come il risultato di una precisa scelta strategica


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generale e di un nuovo sistema di relazioni interne ed esterne delle organizzazioni mafiose, una strategia ed un sistema di relazioni che i recenti fatti di sangue di Strongoli e di Isola Capo Rizzuto non valgono a cancellare. La fine della guerra rimane la necessità prevalente della organizzazione. Pax mafiosa, dunque, e non morte della 'ndrangheta. Essa continua ancora a manifestare un preoccupante radicamento in parti consistenti del territorio calabrese. Sono mutate, nel frattempo, le forme in cui essa si organizza, si esprime e si manifesta. La capacità di adattamento che la 'ndrangheta continua a manifestare appare ancora più forte della sua notevole capacità militare.
L'attività estorsiva - antica e storica attività mafiosa, molto diffusa in tutte le zone della Calabria - in provincia di Catanzaro assume caratteristiche peculiari. Durante l'audizione il prefetto di Catanzaro, dottor Francesco Stranges, ha fatto notare come la richiesta nei confronti di un commerciante si aggiri attorno alle 200-300.000 lire, una cifra "più o meno accettabile". Ciò ha il vantaggio di non compromettere l'attività economica del commerciante che in questi casi difficilmente è portato a denunciare. "I mafiosi, non essendo molto esosi, praticano l'estorsione ad un livello più o meno accettabile; pertanto, è difficile trovare persone disposte a rivelare le azioni estorsive subite. Sono invece di mano più pesante nei confronti delle imprese edilizie, anche perché in provincia di Catanzaro non esistono attività di altro tipo".
In casi del genere l'estorsione ha un relativo, oltre che limitato, valore economico; si può dire che essa viene portata a termine per affermare il potere della cosca sul territorio.
Questa considerazione e le notazioni stesse del prefetto prima citate sembrano trovare conferma nei dati stessi - i più aggiornati, ancorché provvisori, di cui si disponga: gennaio/ottobre 1998 e gennaio/ottobre 1999 - relativi al basso numero delle denunce e delle persone denunciate per estorsione: Catanzaro 88 denunce e 59 denunciati per il 1998 e 44 e 68 per il 1999,il numero più alto per il 1998 e il secondo dopo Cosenza per il 1999 sul totale della Calabria che va dalle 193 denunce e 181 denunciati (Italia : 2913 e 3376) per il 1998 a 202 e 249 (Italia 3182 e 3704) per il 1999 (16).
L'aggressione mafiosa all'economia calabrese appare molto pesante. Paradossalmente perfino la 'ndrangheta ha manifestato preoccupazioni per le conseguenze che una eccessiva aggressione mafiosa può produrre nella popolazione. L'operazione Primavera riporta un significativo colloquio tra un mafioso di San Luca, che rappresenta la 'mamma' della 'ndrangheta cioè la 'ndrina custode delle regole mafiose, e Antonio Cordì di Locri. Nella cittadina c'erano stati attentati contro esercizi pubblici che avevano determinato un notevole allarme nella


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popolazione. Il mafioso di San Luca dice a Cordì: "Ma lo sapete perché sono venuto qua? Totò stai attento che quando l'umanità, quando il popolo vi va contro perdete quello che avete fatto in questi trent'anni! Lo perdete!... Quando si buca alla saracinesca, a quello gli bruciano la macchina a quello un'altra cosa, il popolo incomincia a ribellarsi" (17).
I settori tradizionalmente colpiti dalla presenza invasiva della 'ndrangheta sono stati quelli dell'edilizia e dell'agricoltura. Ancora oggi questi comparti dell'economia continuano ad attirare l'attenzione delle cosche.
Il rapporto tra 'ndrangheta ed edilizia è antico; al mondo dell'edilizia la 'ndrangheta ha adattato il classico strumento usato nelle campagne. La guardiania dai campi si è trasferita ai cantieri funzionando come uno strumento di selezione e di controllo dei lavoratori edili.
Le cosche si sono frequentemente inserite negli appalti e nei sub appalti. Ciò sicuramente ha rimpinguato le casse dei mafiosi, ma nel contempo ha fatto sì che essi stabilissero rapporti, e, a volte, vere e proprie cointeressenze con gli imprenditori, con il mondo politico, con gli apparati amministrativi.
Questi rapporti, queste vere e proprie cointeressenze tra cosche e imprenditori, che investono particolarmente l'edilizia, sono stati denunciati anche per il settore dell'industria in senso stretto. Valga come esempio quanto ha detto alla Commissione antimafia in dottor Di Iacovo, rappresentante della UIL: "vi sono fabbriche dove è espressamente visibile la presenza della mafia d'accordo con gli imprenditori, e queste fabbriche ricevono commesse pubbliche, magari dal Ministero dell'interno, sulla piana di Gioia Tauro". In particolare: "c'è una impresa a Gioia Tauro che ha una commessa con il Ministero dell'interno, attorno alla quale girano ambienti della mafia, della delinquenza locale che, anche all'interno, hanno assunto degli spezzoni di servizi o di altre attività".
La normativa antimafia, soprattutto per il modo come è stata applicata, e il certificato antimafia, soprattutto per come è stato dato o negato e per l'uso che se ne è fatto, non hanno ottenuto gli effetti sperati. Le critiche a tali certificazioni sono state molteplici e generali nel corso delle audizioni, in modo particolare da parte dei sindaci e dei dirigenti sindacali. Ne ha parlato il sindaco di Siderno, Domenico Panetta, che si è soffermato sui problemi relativi alla certificazione antimafia per gli appalti: "Detta certificazione va rivista, attualmente non ha senso, è una perdita di tempo; essa avrebbe senso se fosse presentata preliminarmente, ma quando sopraggiunge ad appalto avvenuto comporta, per il comune, soltanto una perdita di due o tre mesi. Peraltro, se emerge che la ditta aggiudicataria è in odore di mafia, occorre ripetere tutte le procedure di appalto, con un enorme allungamento dei tempi. Ed è proprio in queste lungaggini procedurali che si innestano fenomeni deleteri. Quindi o va rivista preliminarmente


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la certificazione antimafia oppure le ditte, le imprese in odore di mafia vanno cancellate dall'albo nazionale, per evitare che partecipino agli appalti".
Spesso una ditta formalmente in possesso dei certificati antimafia nasconde una cointeressenza mafiosa o una proprietà fittizia posta in capo ad un prestanome. L'aggiudicazione di una gara di appalto cui segue il sub appalto di parte, e, a volte, di tutti i lavori, ha sempre lasciato ampi margini alla penetrazione delle cosche. Il sindaco di Polistena, Girolamo Tripodi, ha detto: "il mio comune ha deciso di non autorizzare i subappalti che potrebbero essere veicolo di inquinamento mafioso".
Nella città di Reggio sono stati segnalati, da parte dei rappresentanti sindacali, casi di appalti di pulizia, perfino gestiti da enti pubblici, che sarebbero in mano a cosche mafiose.
La dottoressa Liliana Frascà, responsabile della CGIL per il comprensorio di Reggio Calabria, ha detto: "ormai da anni a Reggio Calabria facciamo una guerra con le aziende di pulizie o con le aziende che gestiscono le mense nelle carceri o in altre sedi per il rispetto delle leggi e dei contratti. È diventata una guerra defatigante e noi non riusciamo a far rispettare le leggi neanche dagli enti appaltanti, che molto spesso sono Ministeri, per cui ci troviamo di fronte a grandissime difficoltà nel caso di alcune aziende".
Anche il mondo dell'agricoltura avverte i sintomi di una aggressione da parte delle cosche.
La presenza di elementi mafiosi è stata segnalata in molti mercati agroalimentari.
Anche le proprietà terriere sono oggetto di particolare attenzione da parte delle cosche che mettono in atto una oculata strategia di 'esproprio mafioso' di alcuni terreni. Significativi sono il caso della baronessa Teresa Cordopatri che ha dovuto lottare per impedire che i terreni di proprietà della sua famiglia da molti secoli finissero nelle mani dei Mammoliti e il caso della signora Maria Giuseppina Cordopatri i cui terreni sono stati oggetto degli appetiti dei Raso-Albanese.
La Federazione provinciale di Reggio Calabria della Confederazione nazionale coltivatori diretti ha inviato una nota alla Commissione segnalando che nella piana di Gioia Tauro e nella Locride la 'ndrangheta ha imposto agli agricoltori la 'protezione' sulle colture, sul raccolto e sul patrimonio aziendale in genere.
Si verificano spesso, al fine di imporre la 'protezione' ai più riottosi, incendi, tagli delle piante, furti, danneggiamenti, ruberie di vario tipo nelle case coloniche e nelle campagne.
Il direttore regionale della Confagricoltura, dottor Lacquaniti, ha ricordato che le compagnie di assicurazioni non assicurano più le cisterne dell'olio, i silos e spesso neanche le macchine agricole. I coltivatori vengono taglieggiati anche nel periodo di raccolta delle derrate.
La presenza delle famiglie mafiose viene avvertita talora nella produzione e nella confezione dell'olio di oliva.
Le famiglie mafiose hanno trovato il modo di far avvertire la loro presenza anche nel campo delle truffe in danno dell'AIMA e della Comunità europea. Si tratta di crimini finanziari rilevanti perché


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attraverso il sistema delle truffe vengono sottratte svariate centinaia di miliardi ogni anno. Per attuare questo sistema i mafiosi si avvolgono di complesse, numerose e articolate complicità.
Il presidente del tribunale di Vibo Valentia, dottor Giuseppe Vitale, ha detto che molti campi sono coltivati a marijuana utilizzando un sofisticato sistema di irrigazione: "si è svolto recentemente un processo a carico di tal Perfidio Giovanni, cognato di Mancuso Francesco, dell'omonima cosca e collegato con la più potente cosca dei Piromalli di Gioia Tauro. Questo Perfidio coltivava marijuana nelle campagne di Vibo con l'aiuto di alcuni compaesani e alcuni extracomunitari, utilizzando un sofisticato sistema di irrigazione sotterranea simile a quelli utilizzati in Israele. Questa piantagione è stata individuata per caso, nel corso di una perlustrazione dal nucleo elicotteristi dei carabinieri, ed era in grado di produrre 7 milioni di dosi. Tenete conto che una dose costa al dettaglio 10.000 lire e che dunque il valore di questa piantagione era di 70 miliardi".
La realtà delle coltivazioni a marijuana è presente in molte altre zone della regione e interessa sia campi privati sia campi appartenenti al demanio pubblico, come concorre a rappresentare un indice particolarmente significativo, l'entità del sequestro citato dal Comitato per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica di Reggio Calabria (seduta del novembre 1999) : nel 1999 in Calabria "sono state sequestrate 74 piantagioni (con ben 600.000 piante) prevalentemente impiantate (il 92%) su terreni demaniali".
Nella piana di Gioia Tauro il fenomeno delle 'vacche sacre', ossia di mandrie vaganti sul territorio appartenenti a note famiglie mafiose del luogo, si è andato notevolmente attenuando mentre un fenomeno analogo si è manifestato sul Monteporo, a ridosso di Vibo Valentia.
Ancora nelle campagne calabresi l'intermediazione di manodopera e il caporalato continuano ad essere gli strumenti attraverso i quali la 'ndrangheta cerca di affermare la sua presenza.
Estorsioni e racket spingono spesso gli imprenditori a non investire, a non espandere il volume di affari delle loro attività, per paura che aumentino le richieste da parte delle organizzazioni mafiose. Ciò toglie la possibilità di creare ricchezza e posti di lavoro con danno enorme per l'economia calabrese. Molti imprenditori hanno manifestato, in vario modo, paura e preoccupazione; molti altri hanno manifestato la loro intenzione di abbandonare la Calabria.
Un altro settore particolarmente colpito appare quello del commercio. Sono stati e sono vari i tentativi di appropriarsi delle attività mercantili legali.
Uno dei sistemi usati per acquisire l'attività commerciale è spesso quello di pagare lautamente chi "deve" cedere la titolarità del negozio.
La dottoressa Loredana Canova, vice presidente vicario della Confesercenti di Reggio Calabria, ha denunciato come da circa un quinquennio a questa parte su corso Garibaldi, che è la via principale della città, i negozi siano via via passati di mano; due soli nominativi ne avrebbero rilevato le attività pagando cifre consistenti: "a Reggio Calabria abbiamo la via principale, il corso Garibaldi, che annovera quasi tutti i negozi più rinomati, di vecchia tradizione. Stiamo assistendo da diversi anni a questo fenomeno. Chiaramente la crisi


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economica fa nascere una mancanza di liquidità da parte del proprietario dell'immobile; ciò può essere imputato anche ad altri fattori - non lo metto in dubbio - ma comunque di solito il proprietario di immobili su corso Garibaldi che li affitta non è titolare del negozio che gravita su quella zona. Improvvisamente si sono verificati degli insediamenti di grandi negozi, la cui titolarità fa capo soltanto a due o tre nominativi. Abbiamo notato questo fenomeno 4 o 5 anni fa: due soli nominativi... Quei nomi sono lì, hanno aperto altri negozi, addirittura mi hanno riferito che qualcuno di questi ha fatto una spesa di due miliardi di lire per rilevare un'attività commerciale, e paga 13 milioni di affitto. Tenete presente che gli affitti su corso Garibaldi vanno dai 9 ai 15 milioni di lire mensili per negozi di jeans o di abbigliamento spicciolo e non di oro o di preziosi. Anche se oggi c'è la crisi economica - anch'io ho un negozio - viene da domandarsi come si possa andare avanti. Quest'anno la crisi è maggiore e l'economia è in ginocchio. A volte, uno stesso nome rileva o apre nuovi negozi; a tal riguardo, mi domando solo questo: non si potrebbe cercare di avviare un'indagine patrimoniale su chiunque ponga in essere nuovi insediamenti commerciali? Ad esempio, se Canova apre un negozio di 1.000 metri quadrati, oppure si accolla un affitto come quelli cui ho fatto riferimento poc'anzi, avrà forse vinto al totocalcio o che altro?".
In questo settore le modalità della 'ndrangheta sono mutate. Non ci sono più bombe, attentati, incendi. E quando non si affidano, come abbiamo già visto, alla "forza" del denaro, la appropriazione "forzosa" di una azienda o la immissione "forzosa" in un esercizio, passano attraverso una tattica più sottile: telefonate minatorie, minacce di usare violenza sessuale in danno delle figlie o delle mogli. Si cerca di non colpire duramente i commercianti e di non danneggiare l'azienda perché la 'ndrangheta ne ha bisogno per riciclare denaro.
Il dottor Attilio Funaro, vice direttore della Confcommercio di Reggio Calabria ha spiegato la nuova modalità in questi termini: "i sistemi utilizzati dalla 'ndrangheta reggina non sono più quelli di dieci anni fa: le taniche di benzina, la bomba collocata nella macchina che scoppia, i colpi di pistola contro le saracinesche dei negozi, il rapimento di persona, che fanno ormai parte di una vecchia tradizione mafiosa. Oggi i sistemi sono molto più sottili. Come è stato detto, il presidente Diano l'ha patito sulla sua pelle; l'ho patito anch'io sulla mia famiglia e quindi so che cosa significa ricevere una telefonata che fa presupporre determinate azioni (e si sa che queste cose possono succedere, e non c'è bisogno di riferirsi ad altre azioni eclatanti). Quindi i colpi di pistola e le manifestazioni che assurgono alla cronaca dei giornali spesso sono l'espressione di una piccola mafietta, del soldato che deve essere accontentato. I sistemi li conosciamo benissimo: vanno dalla minaccia di violenza sessuale a carico dei figli o delle mogli, al riuscire ad introdurre un determinato quantitativo di droga, eccetera (sono centinaia i sistemi studiati dalla mafia). Comunque bisogna principalmente constatare una cosa: alla mafia non conviene più colpire in maniera dura le attività commerciali, perché ha la necessità di riciclare il denaro. In una regione dove il credito è inesistente, dove esiste il rischio Calabria, dove peraltro non vi sono azioni di tutela (nel documento che abbiamo consegnato c'è scritto che


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la lotta alla mafia parte dalle piccole cose che potrebbero fare le amministrazioni per tutelare le aziende commerciali, industriali ed artigiane), dove è facile acquisire e rilevare la licenza, non conviene distruggere l'azienda anche perché essa è diventata una banca".
Gli operatori economici rischiano in proprio, rischiano le proprietà e le loro stesse vite. Il dottor Cesare Diano, presidente dell'associazione industriale di Reggio Calabria, ha raccontato la sue esperienza in questi termini: "sul piano personale ho avuto tutte le disgrazie di questo mondo: mi hanno appiccato incendi, sono stato oggetto di furti, mi hanno fatto esplodere bombe, sono stato al centro di sparatorie e mi hanno sequestrato un figlio. Sono l'unica persona che si è costituita parte civile in tutti i processi che si sono svolti contro i sequestratori con due avvocati: uno per mio figlio e uno per me. Io ho trovato i sequestratori e li ho consegnati alla polizia. Continuo a lavorare a Lazzaro senza fare l'eroe, rimanendo nel mio ambito e dando l'esempio in positivo con la collaborazione della gente che vuole lavorare".
Un documento della Confcommercio di Reggio Calabria acquisito durante la missione ha fornito i dati di una crescente preoccupazione dei commercianti circa la pressione soffocante e palpabile della 'ndrangheta in una realtà provinciale caratterizzata da un sintomatico andamento circa la chiusura delle aziende e l'apertura di nuove: in un anno chiudono 6.000 aziende e contestualmente altrettante iniziano l'attività secondo le rilevazioni dell'istituto CIRM.
La responsabilità del notevole ricorso agli usurai è da tutti attribuito alla politica adottata dagli istituti di credito. L'usura appare come l'effetto dell'alto costo del denaro praticato dalle banche nei confronti degli imprenditori, specialmente della piccola e media impresa. Difficoltà di credito e interessi altissimi soprattutto per lo scoperto fido inibiscono l'accesso agli istituti bancari. "C'è una impossibilità di dialogo concreto con gli istituti bancari" ha affermato il dottor Alessandro Petraglia, presidente della sezione regionale della Confcommercio di Cosenza.
A Cittanova gli imprenditori hanno trovato il coraggio di denunciare i responsabili dell'attività usuraia; successivamente si sono trovati in difficoltà perché le banche non erano più disponibili a concedere la stessa fiducia accordata in passato, prima della denuncia.
È questa la realtà raccontata dal sindaco di quella cittadina: "Si ricorre all'usura perché spesso gli istituti di credito tagliano i fondi e dobbiamo avere il coraggio di denunziarlo con fermezza perché la situazione è seria: sono dovuto intervenire personalmente presso alcuni direttori di banche locali. A Taurianova il paradosso è che alcuni imprenditori che hanno avuto il coraggio di denunziare questa situazione, facendo arrestare e condannare i propri aguzzini, hanno poi incontrato difficoltà negli anni successivi a proseguire la loro attività, perché le banche non erano più disposte a concedere loro la stessa fiducia che gli avevano dato in passato".
Gli artigiani e le piccole e medie imprese non trovano alcuna rispondenza nelle banche. Lo ha messo in rilievo il dottor Agostino Versace, presidente della Confcommercio: "le imprese si trovano in grossa difficoltà; non parlo soltanto delle imprese commerciali, mi


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permetto anche di parlare delle imprese artigiane ed industriali in rapporto all'usura. Le imprese sono in grossa difficoltà per il semplicissimo problema che non abbiamo rispondenza da parte del mondo bancario alle richieste che vengono dalle piccole e dalle medie imprese".
Si sono verificati episodi di coinvolgimento in inchieste penali di esponenti del mondo bancario che erano in rapporti con uomini della 'ndrangheta. Ne ha parlato il comandante del gruppo della Guardia di finanza della provincia di Cosenza Vincenzo Ricci: "abbiamo individuato una cointeressenza di esponenti del mondo bancario ed imprenditoriale; e soprattutto abbiamo riscontrato che i fondi provenivano dall'attività della criminalità organizzata, con il coinvolgimento di personaggi di notevole spicco. Questa è l'operazione 'usura due', ormai conclusa". Anche il comandante provinciale dell'arma dei carabinieri Giovanni Nistri ha ricordato il coinvolgimento del direttore generale di una banca popolare di San Marco Argentano. In provincia di Cosenza, come ha detto il comandante Ricci, si sono verificati anche molti casi di fallimento per bancarotta che sono molto sospetti perché possono essere il veicolo di immissione di denaro di provenienza illecita e criminale.
C'è poi un'altra questione che è stata sollevata sempre dal dottor Versace: "noi abbiamo il problema dei vari mercati agroalimentari che sono tutti in mano ad elementi non di grossa mafiosità, ma di piccola mafiosità. È bene che si sappia e si dica che nella maggioranza dei piccoli operatori vi è un'infiltrazione mafiosa e 'ndranghetista".
In provincia di Reggio Calabria non ci sono protocolli di intesa tra istituti di credito e associazioni di categoria, mentre in provincia di Vibo Valentia si è riusciti a siglare un accordo con alcuni istituti di credito che impegna le associazioni di categoria a convalidare la serietà del richiedente e l'istituto bancario a valutare il progetto imprenditoriale più che l'imprenditore.
Il vescovo di Crotone ha istituito un fondo che interviene operativamente a sostegno delle vittime dell'usura.
Sono molti gli operatori economici che si trovano talmente in difficoltà da cadere nelle mani dell'usura: fatto questo primo passo, in una fase successiva sono costretti a cedere la proprietà della propria azienda.
Dall'insieme di queste denunce si evince un inquinamento grave del sistema bancario fatto per un verso di collusioni e connivenze con le organizzazioni e gli uomini del riciclaggio e dell'usura e per un altro verso di avversione o almeno di incomprensione nei confronti dell'imprenditoria sana : un inquinamento tale da rendere legittima la domanda se lo stereotipo del "rischio Calabria" sulle banche e per le banche non costituisca un occultamento e rovesciamento di ben altro rischio : il "rischio banche" per la Calabria che vuol lavorare e produrre libera dalla mafia. Fondatezza e consistenza di questa domanda appaiono rafforzate da alcuni dati sul credito in Calabria e sulle segnalazioni - ovvero omissioni di segnalazione - delle operazioni sospette, nonché dalla stridente contraddizione tra gli assai diffusi allarmi per l'usura e il numero irrisorio delle persone denunciate per questo delitto all'autorità giudiziaria e quello, ancor più


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irrisorio, degli arrestati (da gennaio a dicembre 1999 70 i denunciati e 15 gli arrestati in Calabria - il totale nazionale è di 1115 denunziati e 181 arrestati, di cui 69 su iniziativa della polizia giudiziaria e 112 su iniziativa della magistratura -: 13 denunciati e 6 arrestati a Catanzaro, 6 e 4 a Cosenza, 0 ( dicasi ZERO) a Crotone (*), 35 e 0 a Reggio Calabria,16 e 5 a Vibo Valentia) (18).
A determinare una così vistosa sproporzione del numero di denunciati e arrestati rispetto alla diffusione dell'allarme per l'usura concorrono fortemente sia l'inadeguatezza del contrasto - fatto dipendere quasi esclusivamente dalla denuncia e non operato così come sarebbe possibile attraverso la combinazione di intelligence, indagini patrimoniali, vigilanza bancaria, uso delle tecnologie, e altri strumenti invasivi - sia le disfunzioni nella applicazione della normativa antiusura e nella erogazione dei due fondi della solidarietà e della prevenzione (disfunzioni registrate dal governo e dal parlamento nel corso del dibattito sul disegno di legge finanziaria) e il conseguente fenomeno già prima osservato a proposito delle estorsioni, e cioè quella crisi del rapporto di fiducia tra le vittime e le Istituzioni, contro la quale, con indirizzi e strumenti nuovi, è ora impegnato a combattere il Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura.
Altri settori che appaiono in diversa misura interessati da una presenza della 'ndrangheta sono quelli delle discariche e dei rifiuti tossici, della sanità, del turismo.
Le operazioni giudiziarie più significative in materia di ambiente e territorio sono in numero sufficiente a rappresentare stretti collegamenti tra l'intervento diretto o indiretto delle organizzazioni criminali nei business legati ai diversi momenti del ciclo sui rifiuti e i delitti consumati contro la salute dell'uomo e contro l'ambiente (in diversi casi anche irreparabili) e alcuni gravi rischi idrogeologici e sanitari tuttora non rimossi.
Per analisi e valutazioni delle illegalità riscontrate nel governo del ciclo dei rifiuti in Calabria si rinvia al "rapporto territoriale" che la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse vi ha dedicato, e che è stato approvato il 19 gennaio 2000.
In esso da un lato si trova conferma dei rilievi già avanzati dalla Commissione di inchiesta della Camera nella XII legislatura, e, dall'altro lato, emergono la fondatezza e i primi positivi risultati della dichiarazione dello stato di emergenza per i rifiuti solidi nell'intera regione (formulata dal DPCM del 12 settembre 1997 e reiterata ancora


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per il 1998 e per il 1999), del conferimento al Presidente della Regione, il 21 ottobre 1997, dei poteri straordinari di commissario per la emergenza, e dell'adozione, nel maggio 1998, del primo strumento di governo del territorio in questo settore, il "Piano degli interventi di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilabili".
La rassegna delle attività illecite e delle diverse forme della illegalità comprende un capitolo specificamente dedicato all'azione della "criminalità organizzata" che viene valutata come contraddistinta, da un lato, per l' "influenza diretta e coattiva sulle imprese titolari degli impianti", e, dall'altro lato, per il controllo dell'attività della pubblica amministrazione, relativa sia all'affidamento della gestione di impianti pubblici che alla programmazione dei tempi e dei siti di localizzazione dei nuovi impianti".
Ai fini di questa relazione un particolare rilievo assumono le conferme delle nostre acquisizioni in merito all'intervento e al controllo mafioso delle gare pubbliche. Il rapporto territoriale della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti evidenzia infatti due meccanismi della azione criminale : 1) "la creazione artificiosa di una serie di società satelliti, tutte riconducibili all'impresa capofila facente capo al gruppo criminale, in grado di proiettarsi nelle gare con diversi ribassi percentuali al fine di prevenire le cosiddette 'offerte scheggia' o quelle provenienti da ditte non controllabili in anticipo"; 2) la conduzione di "un'attenta politica di contatti finalizzata all'imposizione delle offerte e dei ribassi, sfruttando la propria potenza economica e la propria posizione dominante. La conseguenza era che "solo quando tale duplice modus operandi non consentiva di raggiungere gli esiti prefissati, interveniva l'attività di coazione e minaccia sugli altri imprenditori del settore, per obbligarli ad una partecipazione alle gare sottoposta alle condizioni stabilite dall'organizzazione, ovvero al ritiro dalla gara".
Si ritiene necessario segnalare l'allarme emerso nell'intervento del Presidente della Provincia di Crotone, dottor Carmine Talarico, il 7 marzo 2000 a Crotone nell'incontro della Presidenza della Commissione parlamentare antimafia con quel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica su elementi non registrati nel citato approfondito rapporto della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: gli interessi e gli interventi mafiosi nella costituzione di società per i rifiuti sia ad Isola Capo Rizzuto sia in una località già nota nella seconda metà degli anni Ottanta per il ritrovamento di otto bidoni di Seveso nelle campagne di Cirò Marina, dove quella notorietà viene riproposta oggi dalla scoperta - sulla quale occorre far piena luce - di un altro bidone.
Così come occorre fare piena luce sull'ipotesi che rimarchevoli stock di sostanze radioattive siano stati trasportati e stipati in luoghi sotterranei marini o di ex miniere esistenti nella zona di Cirò.
Per quanto riguarda un altro settore fortemente segnato dall'intervento della 'ndrangheta, la sanità, il rappresentante della CISL del comprensorio di Reggio Calabria, dottor Luigi Sbarra, ha segnalato possibili infiltrazioni mafiose: "io voglio segnalare le USL, perché in alcuni ospedali della Calabria ci sono da 20 anni gli stessi fornitori,


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soprattutto quelli che forniscono la carne. Fate una verifica e vedrete come in alcune USL in maniera particolare ci sono sempre le solite ditte che forniscono sempre il solito materiale scadente".
Anche il rappresentante della UIL, dottor Benedetto Di Iacovo, ha posto l'accento sulla sanità pubblica sollevando un caso preciso: "c'erano due aziende a Reggio Calabria che producevano materiale farmaceutico: guanti, siringhe, eccetera. Non sono mai riuscite ad inserirsi nel circuito regionale della sanità. Esportavano dappertutto, ma alla fine sono state chiuse. Una era un'azienda della Gepi, quindi una finanziaria di Stato, l'altra la Absit Lamet, che producevano camici, guanti, siringhe, garze, lenzuola e bende. Nel sistema sanitario calabrese non è stato mai possibile inserirle; si è preferita la chiusura. Il sistema calabrese delle USL, e più in generale della sanità regionale, non ha mai consentito un inserimento di queste aziende".
E ciò sottolinea le evidenti responsabilità del mancato controllo da parte della Regione Calabria e segnatamente dell'Assessorato alla sanità.

3. La risposta degli apparati dello Stato.

Nel corso delle audizioni è stata affrontato anche la questione degli organici, dei mezzi e delle tecnologie a disposizione della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza.
Nonostante i rilievi critici sollevati da più parti in merito alla mancata riutilizzazione dell'esercito, la situazione, rispetto al passato, appare in netto miglioramento soprattutto in provincia di Reggio Calabria e in provincia di Catanzaro, anche per l'invio di uomini da parte del Ministero dell'interno e per il mantenimento a Catanzaro delle stesse forze precedentemente impegnate a controllare il territorio ora ricompreso nelle nuove province di Vibo e di Crotone.
Il prefetto di Vibo Valentia, dottor Abramo Barillari, ha sollevato la questione del modo come vengono determinati gli organici delle forze di polizia: "a mio avviso, non va il sistema con il quale sono determinati gli organici, perché sono predisposti sulla base di un rapporto con la popolazione, non tenendo conto della situazione ambientale e locale dal punto di vista, nel caso di specie, della delinquenza. Quindi, ritengo che il problema degli organici si ponga in questi termini: modificare il sistema di determinazione e di assegnazione degli organici in relazione alla situazione locale".
Sono state create nuove strutture da parte della polizia di Stato e dei carabinieri, soprattutto in provincia di Reggio Calabria, che si sono mostrate capaci di assicurare un migliore controllo del territorio.
Il questore di Reggio Calabria, dottor Francesco Malvano, ha ricordato l'impegno già realizzato dal Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell'interno che si è concretizzato con l'invio di 120 uomini da destinare al controllo del territorio. Ciò ha permesso una riorganizzazione per "poli" e due nuove squadre mobili distaccate, con sede una a Gioia Tauro e una a Siderno.
Il colonnello Gennaro Niglio, comandante provinciale dell'Arma dei carabinieri di Reggio Calabria, ha segnalato che "il Comando


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provinciale dispone di una forza di circa 1.600 uomini, e coordina nell'articolazione più periferica 91 stazioni; in pratica, vi è quasi una stazione per ciascun comune, quindi, siamo ad un livello ottimale rispetto alla media nazionale. A questo dispositivo periferico si aggiungono il reparto operativo, che a livello di Comando provinciale effettua indagini specializzate, lo 'squadrone Cacciatori', che è un supporto del Comando Regione per controllare l'area aspromontana e quindi zone particolarmente impervie, la sezione anticrimine, la quale pur non dipendendo direttamente dal Comando Provinciale è un'articolazione periferica del ROS e quindi costituisce un'interfaccia della Direzione distrettuale antimafia. Ancora a favore della provincia operano il Noe e il Nas, che chiamo spesso ad operare verso obiettivi che possono comunque riferirsi alla criminalità organizzata... Abbiamo anche due squadriglie che operano in zone particolarmente impervie: una sull'area di Africo, quindi sullo Jonio, e una sull'area di Santa Cristina d'Aspromonte, cioè sul crinale di quest'ultimo".
Lo stesso coordinamento tra le diverse forze di polizia, appare migliore rispetto al passato.
Più acute esigenze di uomini sono state rilevate per la provincia di Crotone e per quella di Cosenza. La questione è stata sollevata ripetutamente sia dai sindaci del crotonese e del cosentino sia dai responsabili dell'ordine pubblico.
È stato richiesto un adeguamento degli strumenti tecnici in dotazione alle forze di polizia e la possibilità di utilizzare i mezzi tecnologicamente più avanzati al fine di incrementare le possibilità di indagine e di migliorare le qualità del lavoro investigativo.
È stata anche sottolineata la necessità di garantire una rotazione ed un avvicendamento del personale appartenente alle forze dell'ordine che da troppi anni risiede nella stessa località.
Ben diversa, grave, e difficile, è, la situazione se si guarda agli organici della magistratura.
Agli atti della Commissione esiste una copiosa documentazione inviata al CSM dalle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e di Catanzaro sulle condizioni di estrema precarietà e difficoltà degli uffici giudiziari calabresi.
Numerose relazioni - alcune delle quali sono del CSM - documentano le carenze di organico, le pendenze giudiziarie, i processi in itinere. Il quadro è allarmante e risulta pienamente confermato dalle audizioni.
Il problema della giustizia, dell'organizzazione e del funzionamento degli uffici giudiziari e delle risposte che si dovrebbe riuscire a dare, a cominciare dalla celebrazione dei processi, è stato posto alla Commissione in numerosi interventi, e da più parti (e non solo da parte dei magistrati).
Lo Stato deve dimostrare di essere in grado di concludere i processi in tempi rapidi, di giudicare gli imputati stabilendo con una sentenza se l'imputato è colpevole dei reati che gli attribuisce l'accusa oppure se è innocente.
C'è una evidente contraddizione: lo Stato ha reagito con determinazione, ha saputo colpire le cosche mafiose; l'attività di polizia giudiziaria e le inchieste della magistratura hanno portato in carcere


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o hanno costretto alla latitanza un numero notevole di appartenenti alla 'ndrangheta; si sono avviati accertamenti patrimoniali e si sono cominciati a colpire i patrimoni mafiosi, arrivando, in diversi casi, fino alla confisca.
Man mano che si sono andati ottenendo questi risultati, si è posto in modo via via più acuto, fino ad arrivare a situazioni di "emergenza", il problema della indispensabile celebrazione dei processi: il problema di dotare gli uffici giudiziari dei mezzi e degli uomini necessari, di superare le rigidità del passato, di ottenere interventi sul complesso delle strutture giudiziarie adeguate alla evoluzione quantitativa e qualitativa del fenomeno in quest'area e alle modificazioni introdotte nella procedura penale e dal già nuovo codice del 1989 e dalle sentenze della Corte di Cassazione.
La dotazione organica della magistratura calabrese è nettamente sottostimata rispetto alla qualità dei reati commessi nella regione e soprattutto alla qualità della presenza di una organizzazione agguerrita, radicata e ramificata come la 'ndrangheta. Occorre inoltre tenere conto degli effettivi, e assai più gravosi, carichi di lavoro. L'aumentata azione di contrasto, le operazioni portate a termine con numerosi arresti, i dibattimenti in processi con molte decine o addirittura centinaia di imputati hanno determinato una situazione che appare paradossale: i PM sono costretti a sostenere l'accusa nei diversi tribunali calabresi e nel contempo a proseguire le indagini su nuovi fatti criminali e sulle altre notizie di reato nel frattempo pervenute che, il più spesso riguardano la criminalità organizzata; i giudici, a loro volta, sono impegnati in più processi di grande rilevanza.
Sono significative le parole pronunciate dal dottor Mariano Lombardi, responsabile della DDA di Catanzaro: "da noi si è data sempre una certa rilevanza al momento delle indagini, adesso ci troviamo veramente a terra col problema dello svolgimento dei processi. Le dirò subito che attualmente una corte d'assise, a Cosenza, è impegnata da circa un anno in un processo che deve finire necessariamente il 4 maggio e che si concluderà solamente se il Presidente riuscirà a forzare la mano a tutti i suoi magistrati e collaboratori per ottenere che si facciano addirittura quattro o cinque udienze a settimana al momento del dibattimento. Nel contempo, dinanzi ad un'altra corte d'assise, a Catanzaro, è iniziato un processo con 191 imputati; per la costituzione di questo processo c'è stato l'intervento del procuratore nazionale antimafia, dopodiché si è riusciti a costituire il collegio soltanto attraverso la disponibilità di un magistrato della procura della Repubblica di Vibo Valentia e con la richiesta di trasferimento, accolta veramente a tempo di record, di un altro magistrato della procura distrettuale. Questo vuol dire che a Cosenza la corte d'assise sarà impegnata fino a maggio e che la corte d'assise di Catanzaro sarà impegnata per più di un anno a partire dal corrente mese di marzo. Nel frattempo è in preparazione tutta una serie di processi per criminalità organizzata, in generale nei tribunali di Rossano e di Castrovillari, oltre che presso la corte d'assise di Catanzaro, essendo in corso la fase di inchiesta per un centinaio di altri indagati, dei quali prevedibilmente un'ottantina di arrestati. Quindi, sulla struttura giudiziaria graverà un altro grossissimo processo, che imporrà per circa


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un anno ancora il totale impegno della corte d'assise. Aggiungo che le corti d'assise di Catanzaro ufficialmente sono due; in realtà riescono a frazionare il lavoro impegnando l'inizio del processo e poi cercando di scaglionarlo, col risultato che lo stesso potrebbe esaurirsi in cinque udienze ma finisce col protrarsi per sei o sette mesi per l'impossibilità del giudice di imporre un carattere più veloce al procedimento. Io stesso sto continuando un processo - che proseguirà fino alla fine di marzo o l'inizio di aprile - iniziato il 2 agosto, per il quale il presidente della corte d'assise non ha avuto la possibilità di fissare tre o quattro giorni di seguito quando era necessario sentire i testi più importanti. Altro esempio: il tribunale di Castrovillari dal dicembre 1995 all'agosto 1996 ha protratto un processo e il dispositivo della sentenza è stato emesso ad agosto inoltrato. Si è trattato di un processo per associazione mafiosa, con tutta una serie di altri reati specifici, con una frequenza di tre udienze a settimana che sono diventate quattro nella fase terminale e che hanno completamente assorbito questo tribunale, nel quale prestavano servizio, oltre al presidente, appena tre giudici. La celebrazione di questo processo per associazione mafiosa ha avuto conseguenze estremamente deleterie su tutto il resto del lavoro. La stessa cosa avviene negli altri tribunali. Il tribunale di Rossano è impegnato in un processo per reato associativo; lo stesso ha luogo a Catanzaro, dove sia il tribunale sia la corte d'assise stanno sfornando una quantità enorme di sentenze, con una cadenza veramente impressionante. Ogni magistrato può esibire delle statistiche in base alle quali risulta una frequenza da 15 a 20 udienze ogni mese, il che comporta un impegno notevolissimo, che a sua volta si ripercuote necessariamente nel dover trascurare gli altri procedimenti ordinari, per i quali le udienze di rinvio a giudizio arrivano ormai alla fine del 1998, se non all'inizio del 1999".
Alla storica sottovalutazione della 'ndrangheta, che proprio la magistratura ha dato e continua a dare un rilevante contributo a superare, è seguita una definizione degli organici della magistratura del tutto burocratica, astratta rispetto sia alla realtà specifica del contesto mafioso sia ai concreti carichi di lavoro. Questa situazione non è più sostenibile. È quanto mai urgente che CSM e Ministero della giustizia - per la parte di loro competenza - predispongano radicali interventi, non limitati alle sole applicazioni di magistrati esperti.
Oltre alla questione degli organici dei magistrati, nel corso delle audizioni è stato sottolineato quanto e come sia carente anche la struttura organizzativa e amministrativa.
Molti uffici non sono informatizzati; il personale amministrativo e di cancelleria sembra impossibilitato a fare straordinari.
Ciò costituisce un limite assai grave alle indagini e impedisce di aumentare il numero delle udienze nei processi in corso presso i tribunali e le corti di assise.
Queste carenze di mezzi e questi limiti al monte ore di altro personale colpiscono non solo il settore penale, ma anche quello civile, molto spesso trascurato e preso in minore considerazione rispetto al primo, nonostante sia anche esso decisivo per la liberazione del territorio dalla mafia.


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Un dirigente sindacale della CGIL di Reggio Calabria ha segnalato che per una causa di lavoro si deve attendere fino a sei anni e un dirigente della UIL ha detto che, avendo impugnato un licenziamento contro l'Ente poste, il pretore ha fissato l'udienza per l'anno 2002.
Il mancato funzionamento della giustizia civile crea nel rapporto tra cittadini e Stato rotture che concorrono fortemente a determinare condizioni favorevoli da un lato a costruire, a organizzare, a imporre il "doppio Stato", e dall'altro a farvi ricorso per il soddisfacimento dei propri bisogni e per il riconoscimento dei propri diritti.
Infatti, se lo Stato non riesce ad assicurare giustizia in tempi rapidi c'è sempre una risposta alternativa che viene data dalla criminalità organizzata. Sono proprio i dati relativi alla giustizia civile che offrono alle famiglie mafiose ampi margini e possibilità di assicurare una "giustizia" alternativa.
In questa situazione nessun giovane magistrato che non sia di origine calabrese chiede di lavorare in Calabria, e in genere nessun magistrato che opera in un'altra regione concorre per ricoprire i posti vacanti.
È stata sottolineata anche la connessione tra i tempi molto lunghi dei processi e il rischio che scadano i termini di custodia cautelare e che molti mafiosi, prima della sentenza, possano essere scarcerati.
Numerosi interventi hanno posto la questione dei beni mobili e immobili che sono nella disponibilità dei mafiosi.
La 'ndrangheta non è stata ancora impoverita quanto sarebbe stato non solo necessario ma anche possibile da consistenti confische dei beni illecitamente o criminosamente acquisiti. C'è ancora una grandissima ricchezza nascosta. C'è ancora un forte scarto tra patrimoni individuati e patrimoni indagati, e una differenza altrettanto rilevante tra patrimoni indagati e patrimoni colpiti. C'è ancora un notevole divario tra sequestri e confische, probabilmente un divario ancora maggiore che per altre organizzazioni mafiose.
È stato rilevato dal Presidente del Tribunale di Vibo Valentia che a volte le indagini patrimoniali fatte dalla polizia giudiziaria sono superficiali; il procuratore della Repubblica della stessa città ha detto che spesso non c'è la necessaria attenzione alle misure di prevenzione perché "non sono spettacolari e non rendono in termini di immagine".
Ancora più netto è stato il giudizio del dottor Boemi che su questo punto - da lui definito lo "scempio esistente delle misure patrimoniali" - ha affermato: "Non funziona nulla perché le sezioni delle misure di prevenzione sono le più 'raccogliticce' d'Italia: si va in misure di prevenzione o con magistrati giovanissimi o con presidenti facenti funzione. Non c'è la mentalità, non c'è la vocazione, né nei magistrati né negli organi inquirenti, tant'è che i questori non danno disposizioni di agire in modo programmato a tal fine e non vi sono indicazioni a livello nazionale: chi le vuole fare le fa, chi non crede a questa strategia non ne produce alcuna. Ma, attenzione, è uno sfacelo perché è una misura di prevenzione che comporta un enorme costo per lo Stato; molte volte queste opere sono oggetto di ristrutturazione che costa allo Stato, dopo la confisca definitiva, molto più che costruire le stesse opere ex novo. Quali miliardi confiscati! In secondo luogo, mettete mano alla riforma delle misure patrimoniali, perché è vergognoso che


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ci sia un termine soltanto per le misure di primo grado. Entro due anni le procure insieme ai tribunali devono decidere se fare o meno la confisca, ma un termine analogo non c'è per il secondo grado. A Reggio Calabria - ma mi pare di poter dire a livello nazionale - le misure giacciono nelle corti d'appello, dove non ci sono né le sezioni né la vocazione, per cui l'adozione di una misura dura mediamente due anni in primo grado e sei anni in secondo grado, con il rischio di un possibile annullamento in cassazione. Quanto costa in tal caso allo Stato la custodia di tali beni? Si tratta di misure assolutamente improduttive per come sono strutturate".
Il dottor Boemi ha proseguito affermando che "il compito essenziale delle procure distrettuali nella lotta alla mafia è quello di impoverire l'organizzazione e non di svolgere i processi. Noi schieriamo il peggio per le cose più importanti: questa è la realtà!". E sul punto ha concluso così: "sappiamo che l'unico modo per combattere le cosche è impoverirle. E noi non stiamo facendo assolutamente nulla in tale direzione".
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, anche su questo terreno si cominciano ad ottenere i primi risultati. Secondo il prefetto Rapisarda, dal 1990 ad oggi sono stati sequestrati beni per 1.500 miliardi.
Alcuni dati interessanti per la provincia di Reggio Calabria sono stati forniti dal questore Malvano che ha inviato una copiosa documentazione acquisita agli atti della Commissione. Il dottor Malvano ha così sintetizzato la sua attività: "per quanto riguarda l'attività di sequestro dei beni, ho maturato una certa esperienza a Palermo, Reggio Calabria, Napoli e Catanzaro. Nell'arco degli ultimi anni ho diretto uffici operativi ed anche l'ufficio delle misure di prevenzione a Palermo. Ho un'esperienza particolare proprio in tema di aggressione dei beni illecitamente acquisiti. Negli ultimi sei mesi, da quando sono qui, abbiamo sequestrato beni per oltre 210 miliardi e confiscato beni per 50 miliardi; altre proposte di sequestro non sono state ancora valutate dai magistrati. Mi sembra un volume di attività notevole. Il problema è che spesso al sequestro non segue la confisca, ma non dipende da noi: da parte nostra ci sforziamo nella conduzione di una attività molto più complessa della semplice attività investigativa. Molto più facile è arrestare i responsabili di una estorsione che non scoprire un collegamento tra l'attività del mafioso e l'illecito arricchimento, specie in questi anni. Non è semplice dimostrare che i proprietari di un patrimonio sono delle 'teste di legno', mentre chi dispone della proprietà è un mafioso. In poco tempo siamo riusciti a far cadere delle teste celebri. Musolino Rocco, che era considerato una persona intoccabile, si è visto sequestrare un patrimonio di 110 miliardi (19); proprio questa mattina ho firmato un sequestro di beni per altri 10 miliardi. Oppure i fratelli Frascati (nomi che ai reggini dicono sicuramente qualcosa) erano delle personalità intoccabili, titolari di importanti concessionarie di autovetture oltre che della Parmalat e di un


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bowling: a loro abbiamo sequestrato beni per oltre 100 miliardi. Abbiamo confiscato beni a Iamonte Natale per 8 miliardi, un capo 'ndrangheta; abbiamo sequestrato beni ai De Stefano e confiscato beni a Mammoliti Vincenzo".
In effetti, ben oltre e ben al di là delle cifre, sono importanti i nomi, tutti di capibastone potenti ed influenti. Colpirli nei patrimoni, oltre che nella libertà personale, significa intaccarne il prestigio, togliere i mezzi finanziari che alimentano la cosca e altri circuiti criminali, significa che è possibile affermare che le organizzazioni mafiose non sono più intoccabili.
I dati relativi ai beni sequestrati e confiscati su decisione della magistratura e per impulso della questura ci forniscono un panorama di estremo interesse per il periodo gennaio 1996 - gennaio 2000.


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Questo quadro di sequestri e confische va integrato con i dati, altrettanto significativi, forniti dall'Arma dei carabinieri:


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Un fatto è certo: finché le famiglie mafiose avranno nella loro disponibilità enormi capitali, la loro pericolosità non sarà effettivamente diminuita e, anzi, aumenterà la possibilità non solo di riorganizzazione delle loro forze, ma di riproduzione allargata del capitale criminale e della conseguente capacità di condizionamento della società.
L'impoverimento delle famiglie mafiose si conferma come il primario obiettivo strategico perché non ha solo incidenza e valore economico, ma tocca l'organizzazione della democrazia e del potere e investe la cultura e il senso comune dominante nella società civile: togliere i soldi ai mafiosi significa sottrarre loro potere e prestigio, colpire effetto di padronanza e capacità di reclutamento, oltre che compiere un atto di giustizia e restituire alla fruizione sociale, e a servizi civili per la cittadinanza, beni prima sottratti alla possibilità di sviluppo del territorio, al lavoro e all'impresa.
Che il sequestro e la confisca dei beni siano la preoccupazione principale dei mafiosi lo dimostra il loro comportamento dinanzi alle misure di prevenzione: quando sono di carattere personale - come ha fatto notare il dottor Antonio Lucisano, presidente della sezione penale del Tribunale di Crotone - c'è quasi disinteresse da parte degli stessi imputati, quando invece sono di carattere patrimoniale scatta una tenace difesa dei beni posti in discussione.
Ad un commissario che chiedeva come mai la maggioranza dei collaboratori di giustizia appartenesse prevalentemente allo schieramento di Antonino Imerti, il responsabile della DIA, dottor Angiolo Pellegrini, ha risposto dicendo che lo schieramento dei De Stefano, un tempo contrapposto a quello degli Imerti, era ancora ricco ed era in grado di sostenere economicamente i carcerati e le loro famiglie e di promettere "una sorta di impunità" anche per i condannati all'ergastolo: "lo schieramento De Stefano, in particolare il De Stefano Paolo, negli anni che hanno preceduto la guerra aveva assunto il potere quasi assoluto sulla città di Reggio Calabria. Quando De Stefano Paolo è morto, le persone a lui vicine, in particolare l'avvocato De Stefano, che ha raccolto il bastone del comando durante la guerra di mafia, è riuscito anche, fino a poco tempo fa, ad assicurare o almeno a promettere ai detenuti del suo schieramento una sorta di impunità, anche se condannati alla pena dell'ergastolo, o se già processati in primo grado e condannati a pene molto elevate. Alcuni detenuti, condannati all'ergastolo con pena definitiva, che abbiamo contattato e con i quali abbiamo avuto dei colloqui investigativi, ci hanno detto che sperano sempre nella revisione del processo. In secondo luogo ciò è dovuto alla consistenza economica dello schieramento De Stefano-Tegano che, pur uscendo perdente in un certo modo dalla guerra di mafia, era di gran lunga superiore a quella dell'altro schieramento. Pertanto esso può assicurare ancora alle famiglie dei latitanti e dei detenuti lo stipendio mensile. L'altro schieramento, invece, in questi ultimi tempi si trova in grosse difficoltà nell'assicurare questi stipendi. È proprio di due giorni fa il pentimento di un altro rilevantissimo appartenente dello schieramento condelliano, il quale ci ha detto che da oltre due mesi la famiglia non riceve più una lira. I Condello, i Serraino, gli Imerti hanno grosse difficoltà economiche, che ancora


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non hanno i De Stefano a cui tendiamo, con le nostre indagini, a togliere quanto più possibile i beni che fanno loro capo".
La 'ndrangheta investe i soldi in Calabria e al di fuori della regione. Le cosche operanti nelle province di Catanzaro, di Crotone e di Cosenza pare stiano intensificando i loro investimenti al Nord Italia e soprattutto all'estero, in particolare in Germania e nei paesi dell'Est con l'evidente intento di occultare i capitali ed eventualmente farli rientrare in Italia in forma legale.
Il dottor Lombardi ha fotografato la situazione in questi termini: "il distretto della Corte d'appello di Catanzaro, che comprende quattro provincie, deve fare i conti con la criminalità calabrese che è un po' particolare in quanto, sulla base di informazioni assolutamente valide, risulta investire altrove i propri capitali. Sul nostro territorio non si riscontra quanto è avvenuto in altre zone del paese, nelle quali sono state evidenziate accumulazioni di beni in case, terreni e azioni. Nelle nostre province i clan mafiosi, che certamente vivono di e per i delitti, non possono possedere quelle quattro cose rinvenute alla luce del sole. Il nostro cavallo di battaglia è il sequestro, due anni e mezzo fa, di due miliardi di immobili di proprietà del clan Arena. Come potrà confermare il procuratore della Repubblica di Crotone, questa operazione è stata particolarmente importante se si tiene conto della rilevanza di questo clan e delle decine di persone che portano il cognome Arena. Ritenere che il frutto delle attività illecite perpetrate da questo clan possa essere consistito solo nei due miliardi sequestrati significherebbe dimenticare non la logica aristotelica ma la logica elementare. È chiaro che questa gente investe altrove e sarebbe ingeneroso sostenere che in queste zone le forze dell'ordine non riescono ad evidenziare i patrimoni illeciti.
Anche il procuratore della repubblica di Crotone ha espresso un concetto simile: "da noi vi sono persone che vivono nella miseria più assoluta ma che all'estero possiedono patrimoni enormi, specialmente in Germania, dove risultano essere proprietari di pizzerie, ristoranti e locali notturni; ne consegue che il flusso del denaro non si concentra nelle nostre zone, ma viene esportato".
Il questore di Vibo, dottor Sergio Visone, ha detto che indagando su alcune cosche operanti nel vibonese si è potuto accertare la responsabilità di alcune banche di Hong Kong, della Mongolia e della Svizzera.
Il procuratore di Locri ha ricordato che in Australia, già negli anni scorsi, le cosche calabresi responsabili dei sequestri di persona avevano acquistato coi proventi dei riscatti grandi estensioni di terreni per coltivare canapa indiana.
Il comandante del GICO della Guardia di finanza, maggiore Antonio Ragozzino, ha segnalato il caso di un appartenente alla cosca dei Piromalli-Molè, attualmente condannato e detenuto per traffico di stupefacenti, il quale era in grado di movimentare conti correnti all'estero, in vari paesi europei ed extraeuropei, per un importo rilevante, per migliaia di miliardi e cioè per cifre sbalorditive, davvero eccezionali. "Infatti questo dato ci lascia molto perplessi, ma non si tratta sicuramente di una truffa; intanto perché il soggetto che è inquadrato formalmente nelle cosche reggine è attualmente detenuto


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per narcotraffico a livello internazionale; nello stesso tempo è indicato come elemento in diretto contatto con i cartelli colombiani, capaci di trattare quantitativi veramente enormi di droga alla volta. Noi abbiamo acquisito varia documentazione che ci ha permesso di ricostruire operazioni finanziarie veramente enormi, dell'ordine di migliaia di dollari. Tra l'altro, per dare un'idea, abbiamo accertato l'esistenza di 120 tonnellate metriche di oro, o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari, e tutto con procedure bancarie telematiche, che permettono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un cent esca dalle tasche. Abbiamo individuato i conti correnti all'estero che sono nelle Bahamas, sono nella ex Unione sovietica, in Russia, sono nella ex Jugoslavia, sono in Austria e col magistrato abbiamo avviato le rogatorie almeno per richiedere questi conti correnti. Questo è un dato che ci fa riflettere sulla potenzialità della mafia e ci lascia capire come gli enormi introiti che giornalmente la mafia incassa vengono poi impiegati non solo secondo i metodi tradizionali, se pur più sicuri (cioè ripartire il patrimonio fra vari prestanome in modo che non possa essere facilmente ricostruito dagli organi investigativi), ma addirittura mandando i patrimoni direttamente all'estero, soprattutto in quei paesi dove è più facile gestire e movimentare i conti. Altro aspetto di interesse riguarda le società finanziarie che operano soprattutto in zone della Calabria, ma che esercitano la loro attività in forma abusiva. Si tratta di ditte individuali o di società che non sono iscritte nell'elenco dell'Ufficio italiano dei cambi, e ciò nonostante esercitino attività finalizzata sostanzialmente all'usura".
In controtendenza alcune cosche di Lamezia Terme le quali pare investano prevalentemente in sede locale i proventi derivanti dall'usura. Altre ancora, secondo il prefetto di Catanzaro, utilizzerebbero i supermercati per il riciclaggio del denaro sporco.

4. Le misure patrimoniali. Un caso esemplare: Rocco Musolino.

La Commissione ha ritenuto necessario di riscontrare, ed ha avuto modo di individuare atti e documenti più utili a tal fine, le affermazioni già all'inizio evidenziate dei magistrati di Vibo Valentia e di Reggio Calabria, e non solo della DDA, sulle misure di prevenzione patrimoniali, e, in particolare su quello che il dottor Boemi ha definito "uno scempio".
Il riscontro è del tutto positivo. La verifica documentale induce a ritenere che tale definizione non sia affatto un'iperbole, ne viene messa in luce una vicenda che ha rilievo non solo in quanto riferita ad un esponente di particolare spicco nel comando della 'ndrangheta, ma in quanto assume carattere di emblematicità per le forme e il contesto delle relazioni tra gli interessi economici mafiosi e una parte degli apparati e degli strumenti stessi del contrasto nei confronti del capitale criminale.
Il riscontro inoltre è tale da fornire indicazioni e proposte in merito alla necessaria riconsiderazione e all'indispensabile salto qualitativo dell'azione sul fronte delle misure di prevenzione patrimoniali.


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Tra gli atti e i numerosi provvedimenti applicativi di misure di prevenzione personali e patrimoniali, emessi ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, acquisiti nell'ambito dell'inchiesta (20), si è ritenuto meritevole di approfondimento un caso specifico segnalato alla Commissione nel corso della missione a Reggio Calabria, e un documento significativo, il decreto (21) del presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria (22) emesso, nei confronti di Musolino Rocco, nato a Santo Stefano d'Aspromonte l'1 marzo 1927. Il decreto scaturisce dalla circostanziata proposta (23) del Questore di Reggio Calabria, Francesco Malvano, insediatosi nell'agosto 1996.
I fatti relativi al Musolino appaiono paradigmatici per vari peculiari aspetti.
In primo luogo, la motivazione del sequestro - muovendo dalla premessa che "l'intero patrimonio rientrante nella disponibilità del Musolino e della coniuge Caterina Briganti appare [...] essere intimamente connesso alla condizione mafiosa del proposto, potendo così essere considerato come il frutto di attività illecite e, al tempo stesso, il reimpiego delle stesse" - evidenzia che "in data 4 aprile 1996 la signora Caterina Briganti, quale procuratrice del marito, ha effettuato per conto del medesimo alcune operazioni bancarie presso il Monte dei Paschi di Siena (MPS), filiale di Santo Stefano in Aspromonte estinguendo due certificati di deposito del valore complessivo di oltre cinque miliardi di lire ed incassando il controvalore quasi interamente in contanti; l'operazione è avvenuta pochi giorni prima della data in cui il GUP di Reggio Calabria disponesse il rinvio a giudizio di Musolino nell'ambito del procedimento n. 46/93 RGNR [cd. operazione Olimpia (24)]".
Le anomalie dell'operazione di liquidazione dei certificati di deposito di Santo Stefano del 4 aprile 1996 risaltano evidentissime e appaiono meritevoli di una specifica disanima.
L'interesse a ricercare il contesto economico e finanziario di queste operazioni é strettamente connesso con la collocazione "ai vertici della 'ndrangheta reggina (25)" di Rocco Musolino. La sua importanza nell'ambito di quel sistema criminale viene puntualmente indicata dal questore proponente e ricostruita nel decreto della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria del 29


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gennaio 1998 (26), ove, tra l'altro, si legge che il Musolino avrebbe posseduto rilevanti partecipazioni azionarie nella Banca Popolare di Reggio Calabria, poi vendute al Monte dei Paschi di Siena, con una fortissima plusvalenza, e che la titolarità formale di dette azioni sarebbe stata in realtà frazionata tra undici persone.
Il primo approfondimento ha riguardato proprio la movimentazione di quell'enorme massa di denaro da parte di Caterina Brigante, coniuge del Musolino, con l'obiettivo di verificare l'applicazione alla fattispecie della normativa in tema di segnalazioni di operazioni sospette, ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 luglio 1991, n. 197 in materia di limitazione dell'uso di contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e alla prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio (27).
Sul punto, il Nucleo speciale di polizia valutaria (NPV) della Guardia di finanza, in riscontro ad una specifica richiesta della Commissione, con nota del 17 marzo 1999 [DOC. 1383], ha posto in evidenza che - dal 1991 fino a quella data - a carico di Musolino Rocco e Briganti Caterina non risultavano pervenute segnalazioni di operazioni sospette.
La risposta alla richiesta della Commissione è stata integrata con la successiva nota del 10 giugno 1999, dove il NPV ha fornito una descrizione più precisa delle operazioni richiamate nel decreto del Tribunale di Reggio Calabria (28), riferendo che Briganti Caterina nella sua qualità di procuratrice del coniuge, aveva estinto in data 4 aprile 1996 il Certificato di deposito al portatore nr. 9759949 del valore nominale di L. 4.850.000, emesso il 3 ottobre 1994 e avente scadenza il 3 aprile 1996, con rimborso della somma complessiva di L. 5.390. 087.555 (comprensiva di interessi e al netto della ritenuta fiscale di legge), prelevando L. 4.000.000.000 in contanti con banconote a corso legale e accreditando la somma di L. 1.390.087.555 su di un c/c intestato a Musolino Rocco. Il successivo 11 aprile 1996 la Briganti aveva poi effettuato il prelevamento di L. 1.500.000.000 mediante un operazione di cambio di un assegno tratto da quest'ultimo conto corrente.
Il NPV ha precisato altresì che le operazioni indicate erano state oggetto di segnalazioni alla locale Questura in base all'articolo 3 L. 197/91. Ma tali segnalazioni non erano mai pervenute al NPV per i relativi approfondimenti di legge.
Delle avvenute segnalazioni (rispettivamente in data 5 e 11 aprile 1996) si aveva poi conferma dallo stesso istituto bancario che, con nota


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del 24 maggio 1999 (29), assicurava l'adempimento rituale dell'obbligo previsto dal citato articolo 3 della legge 197/91, in riferimento alla previsione contenuta al n. 2.3 degli indici di anomalia previsti dal cosiddetto decalogo della Banca d'Italia e cioè "rilevanti prelevamenti o versamenti di contanti, privi di apparente giustificazione anche in relazione all'attività del cliente (in particolare quando le somme versate vengono successivamente trasferite entro un breve intervallo di tempo ovvero con modalità o destinazioni non ricollegabili alla normale attività del cliente)" (30).
Dalle richiamate segnalazioni si può evincere peraltro che sia il soggetto al quale si riferisce l'operazione (Briganti Caterina), sia il soggetto per conto del quale è avvenuta l'operazione (Musolino Rocco) avevano all'epoca "collegamenti con altri soggetti nella [...] anagrafe della clientela", tuttavia non coinvolti con le operazioni segnalate: un particolare importante sul quale di seguito occorrerà ritornare.
Ulteriori e ancor più significativi elementi conoscitivi in ordine a rilevanti operazioni finanziarie poste in essere da Rocco Musolino e da Caterina Briganti ( o comunque agli stessi riferibili) sono stati desunti dall'esame dei dati aggregati relativi all'emissione di certificati di deposito nella filiale di Santo Stefano di Aspromonte del MPS dall'entrata in vigore della legge 197/91 al marzo 1999, riferiti dall'Ufficio Italiano dei Cambi (UIC) in riscontro ad una specifica richiesta della Commissione, con nota del 16 aprile 1999.
I dati ottenuti dall'UIC con apposite elaborazioni tratte sia dalla sottoprocedura contabile certificati di deposito (dal 1991) sia dall'archivio unico informatico (dal 1993), consentono il collegamento di operazioni di sottoscrizione/rimborso dei certificati di deposito al portatore ai soggetti interessati . Da essi si evince sia il complesso delle emissione annuali dei titoli in esame (nominativi e al portatore) presso la filiale MPS in esame sia le operazioni riconducibili ai due soggetti sopra indicati.
Tenendo conto delle sole emissioni di certificati di deposito al portatore, è stato possibile operare un raffronto tra le posizioni espresse dai soggetti in esame e l'operatività complessiva della filiale, come nella tabella che segue:


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È così possibile visualizzare graficamente per il triennio 1994-1996 l'incidenza della posizione Musolino-Brigante sull'insieme delle emissioni di certificati di deposito al portatore nella filiale di Santo Stefano in Aspromonte del Monte dei Paschi di Siena (31).

I collegamenti tra le posizioni Brigante-Musolino e terzi (...hanno collegamenti con altri soggetti nella [...] anagrafe della clientela", che tuttavia non sono coinvolti con le operazioni segnalate...) richiama quanto acquisito circa l'entità e le modalità della partecipazione azionaria del Musolino nella Banca Popolare di Reggio Calabria, perché, anche in quel contesto, sembra aver operato attraverso un reticolo di intermediazioni.
L'operazione azionaria del Musolino nella banca reggina viene menzionata nel citato decreto 4/98 del Tribunale di Reggio Calabria.
I fatti consistono in un acquisto di 33.000 azioni, nel contesto di un collocamento di nuovi titoli azionari effettuato dalla Banca Popolare di Reggio Calabria quell'istituto nel 1978.


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In tale circostanza - attesi i vincoli statutari che limitavano a 3.000 azioni la partecipazione individuale - Musolino Rocco intestò pacchetti di 3.000 azioni ciascuno alle sorelle Musolino Angela, Anna e Domenica, Iolanda, Rosa, al fratello Musolino Domenico, alla moglie Brigante Caterina, al cognato Brigante Rocco, alla cognata Freno Francesca, e al cognato Stefano Malara.
Come ha evidenziato il NPV (32), "la rivendita nell'anno 1986 di tutte le azioni al Monte dei Paschi di Siena, che aveva incorporato la Banca Popolare di Reggio Calabria, permetteva di realizzare un corrispettivo di L. 1.336.500.000. Rocco Musolino, negoziati tutti i titoli in data 4 agosto 1986, effettuò un contestuale versamento per complessive L. 1.215.000.000 sul libretto di deposito a risparmio n. 14694 e il successivo 5 agosto 1986 operò allo stesso modo versandovi la somma residua di L. 121.500.000".
Da quest'ultima circostanza può desumersi la sostanziale riferibilità delle 33.000 azioni a Rocco Musolino, evidentemente elusiva dei limiti previsti dalla legge al possesso di azioni in banche popolari (33), anche se ovviamente nessuna comunicazione risulta inviata da Musolino ai sensi dell'articolo 9 della legge 281/85 (in materia di partecipazione rilevanti al capitale di banche). Al contrario, la natura fittizia delle intestazioni sembra essere stata accompagnata da un vigile comportamento dissimulatorio: all'assemblea straordinaria della Popolare, che deliberò la fusione per incorporazione nel Monte dei Paschi di Siena, Rocco Musolino presenziò quale detentore di 3802 azioni e rappresentante della coniuge Caterina Briganti.
Va ricordato che la Banca Popolare di Reggio Calabria era stata sottoposta, dal 10 ottobre 1983 al 19 gennaio 1984, ad accertamenti ispettivi da parte della vigilanza della Banca d'Italia, conclusisi con un "giudizio complessivo sfavorevole". Gli accertamenti evidenziavano "una situazione di accentuata precarietà, caratterizzata da ampie insufficienze nell'organizzazione e rilevanti manchevolezze nella gestione, oltre che da uno squilibrio reddituale e da incertezze sull'effettiva consistenza patrimoniale" (34).
Pare, infine, utile aggiungere che, su proposta della Banca d'Italia, il Ministro del Tesoro irrogò sanzioni amministrative nei confronti del consiglio di amministrazione, del Collegio sindacale e del Direttore dell'istituto per violazione dell'articolo 31 , primo comma, della legge bancaria (errate segnalazioni all'organo di vigilanza e posizioni di credito in sofferenza non scritturate a voce propria) e che la stessa Banca d'Italia riferì al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria circa irregolari iniziative nell'erogazione del credito ed anomalie nella negoziazione di assegni, da parte della direzione,.
Pur nella indiscutibile evidenza di operazioni finanziarie così rilevanti, non sono state svolte indagini specifiche.
Non può non rilevarsi, infatti, che agli atti del procedimento di prevenzione acquisiti dalla Commissione, non risulta alcun atto di indagine bancaria espressamente finalizzato alla ricostruzione


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delle attività finanziarie del Musolino, né all'individuazione dei citati "rapporti collegati", né alla verifica delle posizioni finanziarie e patrimoniali dei soggetti coinvolti nell'intestazione delle azioni della Banca popolare di Reggio Calabria, di quei soggetti del cui patrimonio il Musolino risulta - per tabulas - aver potuto disporre in tutto o in parte (35).
Questa mancanza di indagini specifiche assume un rilievo ancora più grande se si tiene nel conto dovuto anche quanto esposto nella relazione dei consulenti del PM agli atti del procedimento di prevenzione n. 144/96. I consulenti avvertono: " per potere ricostruire la formazione storica del portafoglio titoli del sig. Musolino e del suo coniuge, occorrerebbe disporre di tutti gli estratti periodici dei depositi titoli che in genere gli istituti di credito accendono al titolare del rapporto finanziario (...). In relazione alla consistenza degli investimenti effettuati una simile ricostruzione sarebbe molto complessa e richiederebbe l'esame di tutta la documentazione non disponibile nel fascicolo (...) (36)".
L'importanza di una puntuale ricostruzione di ulteriori profili del "sistema" economico e finanziario riconducibile a Musolino è fatta palese, tra l'altro, dalla circostanza, acquisita agli atti della Commissione e palesemente anomala, della sottoscrizione presso la filiale MPS di S. Stefano - in data 16 maggio 1996 - di un certificato di deposito, per l'importo di lire 853.457.196, a nome di Francesca Musolino, sebbene la registrazione in Archivio Unico Informatico risulti a nome di Caterina Briganti.
La circostanza è, forse, meglio valutabile se si considera che, in data 19 giugno 1996, nell'ambito del procedimento Olimpia, a Rocco Musolino veniva applicata la misura cautelate della custodia in carcere (37) per associazione a delinquere di stampo mafioso.
È quindi da ritenere possibile - e comunque meritevole di approfondita verifica - che tale intestazione anomala, come pure le operazioni miliardarie condotte dalla Brigante nell'aprile del 1996, siano state effettuate "per attribuire fittiziamente ad altri la titolarità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articolo 648 (ricettazione), 648 bis e 648 ter (riciclaggio e impiego) del codice penale", come espressamente previsto dall'articolo 12 quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 (38).
È inoltre risultato che Rocco Musolino eseguì un'operazione di sottoscrizione di un certificato di deposito di lire 520.000.000, l'1 aprile 1993, per conto di tale Malara Michele e, nello stesso giorno, un'altra


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sottoscrizione, per l'importo di lire 1.675.000.000, per conto di Francesco Musolino.
Restano ancora da chiarire i rapporti tra Rocco Musolino e il nominato Michele Malara. La motivazione del decreto (39) richiama l'ordinanza cautelare emessa dal GIP di Reggio Calabria in data 18 dicembre 1997 nei confronti di Musolino Rocco, Malara Francesco, nella sua qualità di Sindaco di Santo Stefano in Aspromonte, Anversa Sergio Antonio, in quella di segretario comunale, e Poeta Giuseppe, in quella di responsabile dell'ufficio tecnico comunale, nell'ambito del procedimento penale n. 117/97 della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, per concorso in concussione continuata, aggravata per aver commesso il fatto allo scopo di agevolare l'associazione mafiosa facente capo a Piromalli Giuseppe, imputato del delitto di cui all'articolo 416 bis c.p. (nei territori di S. Stefano in Aspromonte, il 15 maggio 1996, e di Gioia Tauro, nell'ottobre 1996).
In questa ordinanza, acquisita agli atti della Commissione (40), il Musolino è descritto quale promotore dei delitti contestati, legato da cointeressenze economiche con il nipote Francesco Malara, sindaco di S. Stefano in Aspromonte (41).
Un altro nipote del Musolino, tale ragionier Marcello Malara, compare agli atti del procedimento di prevenzione come consulente dell'azienda in sequestro "per quel che riguarda il rispetto della normativa giuslavoristica". Gli amministratori giudiziari Luigi Tassone, Antonio Labate e Bernardo Femia non hanno motivo di revocare l'incarico originariamente affidato al Malara dal Musolino "in considerazione della professionalità e della correttezza dimostrata"., come si evince dalla relazione del 14 aprile 1997 ex articolo 2 septies, comma 2, legge 575/65 (42).
A tal proposito val la pena di ricordare che, con la medesima motivazione, gli amministratori giudiziari del patrimonio sequestrato al Musolino hanno ritenuto di non revocare l'incarico da quest'ultimo affidato al dottore commercialista Demetrio Turiano. Ma, come emerge dalle conclusioni del pubblico ministero nel procedimento di prevenzione dinanzi al tribunale di Reggio Calabria (43) e dalla stessa motivazione del decreto 4/98, "a seguito della consulenza Di Fresco [depositata dal P.M.], la difesa ha inteso indagare ulteriormente sul contenuto della stessa e più in generale, sul tema del rapporto tra redditi prodotti dal Musolino e valore del suo patrimonio" e, a tal proposito, " si è servita di una consulenza redatta dal dr. Demetrio Turiano" per confutare il senso generale del lavoro dei consulenti del PM (44).


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Non si dispone ancora di elementi specifici in ordine ai contenuti della collaborazione prestata del professionista al Musolino in epoca anteriore ai sequestri che determinarono la nomina degli amministratori giudiziari ex articolo 2 sexies l. 31 maggio 1965, n. 575. Né si conosce per quanto tempo il Turiano ha continuato a prestare la propria collaborazione agli amministratori giudiziari.
Al di fuori di improbabili ipotesi di omonimia, appare a dir poco singolare la "evoluzione" del ruolo del commercialista di Musolino, da collaboratore degli amministratori giudiziari a consulente di parte nell'interesse del Musolino stesso. E sono inevitabili e ineludibili le domande sul ruolo che Musolino abbia potuto avere nel determinare, direttamente o indirettamente, questa singolare "evoluzione", soprattutto se si tiene conto della ratio della normativa in tema di amministrazione giudiziaria, orientata a evitare qualunque ipotesi di interferenza o di conflitto di interessi (articolo 2 sexies comma 4 l. 31 maggio 1965, n. 575).
La scelta del legislatore in tema di incompatibilità degli amministratori trova il suo fondamento nello specifico ruolo che la legge assegna a questi ultimi: da un lato riferire sullo stato e sulla consistenza dei beni sequestrati e sull'amministrazione dei medesimi, dall'altro segnalare al giudice delegato l'esistenza di altri beni che potrebbero formare oggetto di sequestro, di cui siano venuti a conoscenza nel corso della gestione.
Tale dovere di segnalazione (destinato ad integrarsi con il potere del tribunale di compiere le "ulteriori indagini", previsto dall'articolo 2 ter l.cit.) dovrebbe comportare, in primo luogo, la diligente quantificazione e qualificazione del complesso delle attività facenti capo al soggetto raggiunto dalla misura cautelare, e quindi l'esatta ricostruzione della sua situazione contabile, finanziaria e patrimoniale.
Se, nella materia della prevenzione patrimoniale, tali considerazioni assumono portata generale, nella fattispecie in esame esse vanno riferite a elementi concreti ed obiettivi, quali ad esempio l'attività di costruttore intrapresa dal Musolino in società con il germano Domenico (oggetto della perizia del geometra Quattrone, prodotta dalla difesa (45) e, soprattutto, i risultati di un'attività di controllo fiscale condotta dalla Guardia di finanza.
Infatti, già nel settembre 1985 - come fa rilevare il decreto n.4/98 più volte citato - in base alla legge Rognoni-La Torre, il nucleo di polizia tributaria aveva trasmesso al questore di Reggio Calabria una nota informativa evidenziando che "dall'esame degli elementi acquisiti e in relazione all'attività svolta e ai redditi prodotti da Musolino Rocco (...) l'incremento patrimoniale non trova(va( giustificazione con le attività palesi esercitate... (46)".
Ma perché il potere di proposta di applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale fosse esercitato, dovettero passare più di dieci anni. Questa rottura con il passato, come si visto, avvenne nell'agosto del 1996 ad opera del questore Malvano. La si può considerare una di quelle novità positive che sono state evidenziate nella prima parte della relazione.


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Nel giugno 1995, l'A.G. reggina applica al Musolino la custodia cautelare per un'imputazione di partecipazione ad associazione mafiosa.
Questo provvedimento viene annullato dal tribunale del riesame il 21 agosto dello stesso anno, con una motivazione che, tra l'altro, rileva come dagli accertamenti patrimoniali effettuati dalla Guardia di finanza non erano emersi elementi che potessero far collegare la considerevole ricchezza economica del Musolino ad attività illecite.
La pronuncia del tribunale del riesame in questione viene a sua volta annullata dalla Corte di Cassazione.
La sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria richiama nel proprio decreto (47) alcune parti della motivazione del provvedimento del 21 agosto 1995 del tribunale del riesame favorevole al Musolino: su istanza presentata il 21 luglio, riguardante il riesame avverso l'ordinanza del GUP datata 19 giugno - con la quale si applicava al Musolino la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere nell'ambito del citato procedimento n 46/93 DDA, la sezione feriale del tribunale di Reggio Calabria, con l'ordinanza 739 P/1995 R.T.L. (48) annullava "per mancanza dei presupposti applicativi" il predetto provvedimento restrittivo ordinando l'immediata liberazione del prevenuto, se non detenuto per altra causa.
La Sezione feriale osservava che gli elementi di accusa a carico dell'indagato erano stati desunti essenzialmente dalle dichiarazioni accusatorie e chiamate in correità di collaboratori di giustizia, e concludeva per l'assenza degli "estremi per una valutazione in termini di gravità indiziaria relativamente ai fatti criminosi addebitati". Testualmente: "per quanto concerne il reato associativo, [riteneva] il tribunale che da un'attenta lettura delle dichiarazioni che riguardano il Musolino, si desume che non si è propriamente in presenza ( ... ) della convergenza di accuse idonee a rappresentare un quadro gravemente indiziario.
Esaminando le dichiarazioni rese dalla Di Giovine, appare evidente che le stesse consistono in maggior parte di sensazioni emotive comunicategli dallo zio allorquando parlava di Musolino Rocco (...). La totale assenza nel narrato della collaboratrice di fatti storicamente individuabili ( e perciò controllabili), in uno con la natura mediata del racconto (...) impediscono un giudizio di attendibilità idoneo a farle assumere il ruolo di riscontro a quanto dichiarato dal Lauro.
Passando alle dichiarazioni di Lauro, il ruolo di capo della famiglia mafiosa di appartenenza attribuito al Musolino, non può dirsi adeguatamente riscontrato dall'accertato carisma di cui l'indagato è portatore nella zona in cui vive, giacché tale dote non è esclusivamente collegabile alla appartenenza ad un contesto mafioso, neppure in una zona intrisa di subcultura mafiosa: argomentare diversamente comporterebbe una eccessiva valorizzazione del dato sociologico, occorrendo invece spostare l'attenzione su episodi storicamente individuabili realmente sintomatici di mafiosità.
La valutazione delle dichiarazioni accusatorie, appena esplicitata, il Collegio la deve necessariamente trarre a fronte delle argomentazioni,


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di segno contrario alle accuse. offerte dalla difesa alla odierna udienza e documentate (...) sia da provvedimenti giurisdizionali (...), sia da provvedimenti amministrativi quale il rilascio del porto di pistola (...), sia dalla relazione della Guardia di finanza (49) che sottolinea che dagli accertamenti effettuati non emerge alcunché che possa far ritenere la considerevole ricchezza economica del Musolino collegata ad attività illecite ...".
Questa ordinanza non costituisce un reperto essenziale per la ricostruzione dei fatti - essendo peraltro stata annullata dalla Corte di Cassazione -, ma consente di approfondire taluni particolari, come ad esempio le vicende "amministrative" degli accertamenti della Guardia di finanza e del rilascio al Musolino della licenza di porto di arma.
Per quanto attiene ai risultati dell'azione investigativa della Guardia di finanza, appare di tutta evidenza il contrasto tra i contenuti dell'informativa richiamata dalla Sezione feriale e quanto posto in risalto dalla Polizia Tributaria nella nota al questore di Reggio Calabria già nel 1985.
Come si è visto la situazione bancaria e patrimoniale di Musolino Rocco fu oggetto, nel settembre del 1985, di un accertamento del Nucleo di Polizia tributaria di Reggio Calabria della Guardia di finanza.
Con la nota 307/R/773 di schedario, a firma il cap. Antonio Giordano trasmette al questore di Reggio Calabria una informativa (redatta ai sensi dell'articolo 14 della legge 13 settembre 1982, n. 646) con elementi relativi alla situazione bancaria e patrimoniale del Musolino e del suo nucleo familiare, iniziativa finalizzata alla proposta di applicazione di una misura di prevenzione e di sequestro dei beni ai sensi dell'art 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e degli artt. 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (50).
Ma l'iniziativa della Polizia Tributaria non consegue effetti.
La questura di Reggio Calabria (51) - nel gennaio 1986 - scrive che i germani Musolino [Rocco cl. 1927 e Domenico, cl. 1933] "possiedono un cospicuo patrimonio immobiliare, oltre a gestire attività quale quella industriale boschiva e di autotrasportatore, con volume di affari per miliardi di lire. La situazione bancaria stessa è peraltro indice del grosso movimento di denaro che i Musolino da anni gestiscono tramite le varie banche cittadine .... Ovviamente tale cospicua situazione patrimoniale potrebbe risultare interessante sotto il profilo dell'incremento patrimoniale dovuto alla conduzione di attività illecite (...) o quanto meno sotto il profilo di un inserimento più o meno costante in una organizzazione criminale di stampo mafioso in parallelo o quanto meno sotto il profilo di un inserimento più o meno costante in una organizzazione criminale di stampo mafioso, ove ciò fosse constatato. Tali dati, però, mancano, e vengono vanificati i presupposti di una proposta ex nota legge dallo stato dei fascicoli a 2o delle due persone interessate, in cui manca il minimo appiglio per attestare che gli stessi sono stati validamente inseriti


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in organizzazione mafiosa o quantomeno dalla stessa affiancati e confortati nelle loro molteplici attività lavorative ..." (52).
È difficile trovare il fondamento della tesi con cui l'ufficio Misure di Prevenzione della Questura di Reggio Calabria (del 16 gennaio 1986) ha sostenuto la mancanza di qualsiasi "appiglio" idoneo a giustificare iniziative di prevenzione nei confronti del Musolino, tanto più che questi era stato già coinvolto nell'omicidio di Giorgio De Stefano (germano del notissimo capomafia Paolo De Stefano) ed era notoriamente collegato ad importanti esponenti della 'ndrangheta dell'Aspromonte.
Gli stessi gravi interrogativi scaturiscono dalle vicende della diffida di pubblica sicurezza, irrogata al Musolino in data 16 marzo 1976 e successivamente revocata il 24 ottobre 1976 .
E ancora di nuovo irrogata il 30 ottobre 1978.
In quest'ultima occasione la diffida venne annullata con sentenza del TAR di Reggio Calabria.
Il provvedimento in questione, risalente al 16 ottobre 1979, segue l'ordinanza n. 36 adottata dallo stesso TAR nella camera di consiglio del 13 marzo 1979 di rigetto della domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato proposta dal Musolino. La motivazione della sentenza dell'ottobre del 1979 evidenzia che pur avendo il Musolino "regolarmente notificato il ricorso in esame all'organo emanante l'atto impugnato" l'amministrazione dell'Interno non si era costituita in giudizio. E osserva che " tale comportamento volutamente passivo dell'amministrazione convenuta lascia quanto meno il dubbio che il Questore di Reggio Calabria, sollecitato dalla notifica del ricorso proposto dal Musolino Rocco, abbia disposto in merito nuovi ed approfonditi accertamenti che lo hanno indotto a ritenere fondate le lamentele sollevate in questa sede dal ricorrente. Pertanto il tribunale accoglie il primo motivo di ricorso in esame ...".
Sul punto della contumacia giova ricordare che, il 15 dicembre 1979 l'Avvocato distrettuale dello Stato, trasmette al questore di Reggio Calabria copia della decisione definitiva emessa dal TAR, e precisa che l'avvocatura non era stata interessata della causa.
E, sempre a proposito di tale revoca, nel 1995, il Centro operativo di Reggio Calabria della DIA, afferma - nel contesto di una ricostruzione del profilo criminale del Musolino - che "... anche la revoca da parte del TAR della diffida irrogatagli dal questore è un indicatore evidente della sua capacità manovriera nel settore della pubblica amministrazione".
Anche a prescindere da queste ultime specifiche vicende, non può non rilevarsi la prospettiva completamente diversa seguita dal questore Malvano nella richiesta di applicazione di misura di prevenzione personale e reale del novembre 1996. Il Musolino vi è descritto come "figura carismatica della 'ndrangheta calabrese, prototipo dell'uomo d'onore secondo l'etica mafiosa, (...) che del capomafia possiede tutti i requisiti: l'intelligenza unita ad una notevole capacità delinquenziale, abilmente dissimulata attraverso la creazione di una identità fittizia di persona onesta e laboriosa, lungi dal rimanere coinvolta in vicende giudiziarie che possano appannare tale immagine (...) l'impalcatura costruita ad arte dal Musolino, a difesa della sua reale condizione di


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rappresentante della mafia, ha potuto reggere pur con qualche crepa, fino alle recenti indagini sfociate nella maxi operazione Olimpia".
Nel ricostruire la personalità del Musolino, il questore Malvano rivisita atti e documenti a disposizione della Questura di Reggio Calabria per giungere a conclusioni diametralmente opposte a quelle del 1986.
Nella proposta del 1996 è scritto che "scorrendo gli atti di polizia si può evincere che sin dal lontano 1958 il Musolino è segnalato come sospetto appartenente alla criminalità locale, tanto da venire diffidato in data 19 febbraio 1976 (...).
I sospetti sul Musolino assumono valenza indiziaria quando questi, in società con i noti pregiudicati Gioffré Francesco Antonio, nato a Sinopoli il 20 gennaio 1921, inteso "Brachetta" e "Don" Ciccio Serraino, inteso "il re della montagna" (entrambi uccisi nel corso della guerra di mafia) costituisce un'impresa per la lavorazione del legno che in poco tempo soppianta le altre piccole industrie boschive di Santo Stefano in Aspromonte (...).
L'amicizia con i due grossi personaggi della 'ndrangheta, rafforzata dalla comunanza di interessi economici, e palesemente sintomatica dell'inserimento del Musolino in una organizzazione di tipo criminoso, della quale, peraltro, è impensabile sostenere che egli si sia potuto successivamente dissociare atteso il carattere indefettibile delle organizzazioni mafiose calabresi. (...) È lecito opinare, infatti, che l'attività costituita dal prevenuto unitamente al Serraino e al Gioffré avesse potuto avere un così rapido e fiorente sviluppo solo perché i predetti potevano avvalersi di "capitali" illecitamente guadagnati e riciclati nonché della forza intimidatrice derivante dal vincolo mafioso con cui potevano assoggettare le loro vittime".


Quindi, se vennero addirittura trascurati documenti certamente agli atti di quell'ufficio, non è possibile trarre giudizio diverso da quella di uno "sviamento" dell'azione della Questura di Reggio Calabria nel 1986.
Uno sviamento o un più grande inquinamento? L'interrogativo si pone per la gravità dei fatti. Nel 1984, il questore di Reggio, dr. Toscano, ordinò accertamenti in ordine al contenuto di un circostanziato esposto sui profili patrimoniali delle attività criminali dei Musolino, delegandoli al commissariato di Villa San Giovanni, alla locale squadra mobile, e, ai sensi della legge Rognoni-La Torre, alla Polizia tributaria. Ma, a distanza di un anno, fu costretto a reiterare le sue richieste agli uffici dipendenti. Qualcosa di veramente anomalo dovette verificarsi se, sulla copia della nota n. 2178 del 9 febbraio 1984, risulta l'appunto autografo "a me il 31 gennaio 1985 ... rinvenuto negli scaffali del corridoio! ...". In base agli atti acquisiti dalla Commissione Antimafia, si può affermare che non vi è traccia della risposta della squadra mobile alla richiesta del questore.
L'esposto in questione risulta indirizzato nel gennaio del 1984 anche alla Procura di Reggio Calabria.
In conclusione, le valutazioni espresse dall'autorità di provinciale di Reggio Calabria nel 1986 dovettero essere sensibilmente fuorviate, se vennero addirittura trascurati documenti certamente agli atti di quell'ufficio.


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Tra gli atti più significativi a dipsosizione della questura di Reggio Calabria va considerato il decreto di applicazione di misure di prevenzione n. 53/83 del Tribunale di Reggio Calabria (53) nei confronti di Serraino Francesco, ove, ricostruiti i precedenti di polizia, si individua il suo ruolo "tra vecchia e nuova mafia", segnato dal fatto che egli aveva conservato della prima "il tradizionale settore di influenza agricolo-boschiva che, dopo avere con violenze e prevaricazioni assoggettato al suo monopolio esclusivo, controllava oramai incontrastato sotto l'apparente abito di uomo di "ordine", ossequioso della legge e dell'Autorità (...)", mentre della seconda aveva acquisito "i metodi di gestione manageriale degli affari, spogli di ogni sentimentalismo, propri della mafia degli appalti".
La motivazione del provvedimento richiama la frequentazione del prevenuto con tali Musolino Rocco e Gioffré Francescantonio "personaggi - a parere del questore - della sua stessa risma, che esercitavano il predominio mafioso rispettivamente in S. Stefano di Aspromonte e Sinopoli ...".
La politica seguita dalla questura di Reggio Calabria nel 1986 è ancor più evidenziata dalle vicende relative al rilascio di licenza di porto d'arma. Anche in questo caso, nonostante che il prefetto di Reggio Calabria il 2 dicembre 1985 avesse rigettato la domanda di rinnovo. la questura esprime il 14 ottobre 1986 parere favorevole al rilascio.
Ma è necessario anche ricordare che risale allo stesso 1986 la sentenza del TAR di Reggio Calabria che annulla il provvedimento prefettizio di diniego del rinnovo della licenza di porto di pistola.
Sicché nello stesso anno si registrano due pronunzie del TAR adito per ottenere l'annullamento dei provvedimenti di polizia a carico del Musolino.
Anche nell'ambito dell'attuale procedimento per l'applicazione a carico del Musolino per l'applicazione di misure patrimoniali si evidenziano criticità.
Quanto al patrimonio immobiliare va rileva la carenza delle informazioni in ordine alla "stima con procedimento analitico" delle unità immobiliari facenti parte del fabbricato a 6 piani f.t. e cantinato, sito in Reggio Calabria alla via Manfroce, traversa privata n. 93 Infatti, nella relazione degli amministratori giudiziari si legge che " il diritto di proprietà vantato dal sig. Musolino Rocco sugli immobili ancora in comproprietà con il Priolo è pari al 50%" (54).
Null'altro è riferito in ordine alle circostanze da cui tale comunione deriva, né vengono forniti ulteriori elementi sui rapporti correnti con tale Priolo.
Dall'esame della relazione degli amministratori non si evince alcun elemento per identificare il Priolo, che potrebbe apparire socio, forse occulto, nell'attività di impresa edilizia riconducibile ai germani Musolino.


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Va anche osservato che nella ricostruzione del patrimonio immobiliare non risultano acquisiti elementi idonei a determinare le parti degli eventuali rapporti di locazione afferenti all'immobile ubicato in Reggio Calabria e le modalità di contabilizzazione delle vendite di unità immobiliari.
Ulteriori atti a disposizione della Commissione evidenziano un'attività finanziaria riconducibile al Musolino, consistente nell'elargizione di mutui a terzi, anche per importi assai considerevoli.
La circostanza, riferita all'Autorità giudiziaria di Reggio Calabria dal notaio Pietro Marrapodi, fa ritenere che il Musolino può avere utilizzato anche in questo settore parte delle proprie imponenti risorse finanziarie.
Ma di tali attività non vi è traccia nell'ambito della ricostruzione del patrimonio del Musolino, mentre un puntuale vaglio di quest'ulteriore profilo della sua posizione appare necessario nello sviluppo dell'attività di inchiesta della Commissione, tenuto conto del contesto in cui i fatti vennero riferiti e della particolare circostanza che tra i beneficiari di prestiti risulta indicato il fratello di Guido NERI, all'epoca alto magistrato reggino (55).
Né si rilevano tracce delle vicende relative alla partecipazione del Musolino al "Comitato promotore della Banca Popolare Europea", sorto il 23 settembre 1994 al fine di realizzare i requisiti previsti per la costituzione della banca stessa, con un capitale iniziale minimo versato di lire dodici miliardi e mezzo (56).
Infine, non risultano essere stati esperiti accertamenti su attività riconducibili al Musolino anche in nel settore dei trasporti, sebbene proprio dall'esame delle trascrizioni inserite nel fascicolo delle misure di prevenzione, si rilevino operazioni finanziarie di acquisto di autocarri per il trasporto di beni a temperatura condizionata, che fanno intendere l'esistenza.

" ... era il personaggio chiave del mondo politico e del mondo istituzionale.. cioè si rivolgevano a lui tutti per (...) come dire.. l'aggiustamento dei processi"
(Dalla testimonianza di Barreca Filippo all'udienza del 3 ottobre 1997 dinanzi alla Corte di assise di Reggio Calabria)


Il secondo aspetto meritevole di approfondimento è quello della collocazione del Musolino "ai vertici della 'ndrangheta reggina (57)",


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attestata dalla condanna (19 gennaio 1999) a sei anni di reclusione per il delitto di associazione mafiosa nel giudizio di primo grado contro Condello + 282, celebratosi dinanzi alla Corte di assise di Reggio Calabria.
Pur non trattandosi di sentenza definitiva, la motivazione del provvedimento, va richiamata per il suo intrinseco interesse, soprattutto nelle parti relative ai suoi rapporti con ambienti istituzionali e massonici (58).


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"... mi confortava largamente nell'impressione positiva che il predetto Musolino aveva in ogni occasione in me prodotto ... trattavasi di un pubblico amministratore del Comune di S. Stefano d'Aspromonte,


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mai raggiunto detto Comune da sospetti di alcun genere né da provvedimenti di scioglimento; avevo stipulato con lo stesso, nella qualità di vice sindaco all'uopo delegato, l'acquisto di un lotto di 800 metri di terreno, nell'ambito di un piano di lottizzazione posto in esecuzione in


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Gambarie..., si era sempre palesato come persona corretta, discreta e rispettosa, mai - dico mai, a prova del contrario - "curiosa" della mia attività...".
(Dalla querela contro il dr. Pietro Marrapodi, sporta dal magistrato Giovanni Montera in data 7 ottobre 1994 al Procuratore della Repubblica di Messina).


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Infine, la vicenda Musolino conduce ad un profilo inquietante dei rapporti tra 'ndranghetisti ed esponenti delle istituzioni.
Rapporti, a quanto appare, riservati a soggetti che occupano posizioni di rilievo negli ambienti mafiosi, soprattutto perché titolari di attività e imprese di copertura, per intendersi un ceto criminale-imprenditoriale, una vera e propria borghesia mafiosa.


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In questo quadro vanno considerate e fatte oggetto di una valutazione storico politica le relazioni intercorse tra Rocco Musolino e il magistrato Giovanni Montera, relazioni oggetto di procedimenti e penali e disciplinari, dai quali tutti il dr. Montera è risultato prosciolto. Di tali è data notizia, anche attraverso citazioni dirette, nelle pagine che seguono, così come in una lettera di contestazione che il dr. Montera ha inviato alla Commissione, il cui contenuto la Commissione, su proposta del relatore, ha deciso di rendere noto (59).


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Le circostanze emerse a seguito delle denunzie del notaio reggino Pietro Marrapodi, risultano oggetto di espresso richiamo in un decreto di archiviazione (60) del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina, emesso in data 18 dicembre 1995, le cui motivazioni trattano comunque ampiamente dei rapporti tra l'importante esponente 'ndranghetista e il Montera, all'epoca ai vertici della magistratura reggina, in quanto Avvocato generale presso la Corte di Appello.


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Il GIP cita in primo luogo le dichiarazioni rese dal collaboratore Lauro (61), esplicito nell'indicare il Musolino quale "uomo d'onore, regolarmente battezzato, capo 'ndrangheta della zona di Santo Stefano in Aspromonte-Gambarie, personaggio riconosciuto da tutte le famiglie calabresi quale "re della montagna" unitamente a Gioffré Francesco e don Ciccio Serraino, (...) al vertice della gerarchia mafiosa della Calabria ...".
Precisa il Lauro: "Lo stesso ha ricoperto la carica di vice-sindaco del comune di Santo Stefano in Aspromonte (62). Mi risulta che tra il Rocco Musolino ed il dott. Giovanni Montera vi erano ottimi rapporti".
Successivamente vengono richiamate le precisazioni effettuate dal notaio Marrapodi, che, confermando i "rapporti di frequentazione tra il dott. Montera e il Musolino", aveva aggiunto che costoro erano "abituali commensali". E di ciò il notaio aveva riferito di essere stato messo al corrente dallo stesso Musolino in occasione di un pranzo in Gambarie, "al quale parteciparono, oltre al Musolino, anche il Marrapodi, il Montera ed il D'Agostino, con le rispettive consorti".
Il notaio ricorda , a proposito della confidenzialità corrente tra i due, che lo stesso magistrato aveva pilotato di persona, con il Musolino a bordo, "una lussuosissima Mercedes nera di proprietà del Musolino" (63).
L'esistenza di rapporti tra Montera e Musolino, cioè tra uno dei magistrati di più alto grado del distretto della Corte di appello e uno degli esponenti più importanti (ed enigmatici) della 'ndrangheta reggina (si pensi solo alle implicazioni del suo "titolo" di "re della montagna", riferito all'Aspromonte, la terra dei sequestri di persona) (64), risulta confermata dallo stesso magistrato nella denunzia (per calunnia e diffamazione) sporta contro il notaio Marrapodi il 7 ottobre 1994, ove si ammette la partecipazione al pranzo di Gambarie.
Anzi un particolare "automobilistico" si ritrova anche nella ricostruzione del magistrato Montera: "... v'era la neve,


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che sconsigliava una "gita" in montagna per chi come me non aveva l'auto attrezzata, tanto da averla dovuta lasciare nella più bassa località di S.Stefano d'Aspromonte ...".
La motivazione del decreto di archiviazione del GIP, evidenzia come il Montera abbia comunque mostrato di essere a conoscenza che il Musolino era stato imputato di un "grave omicidio" (successivamente prosciolto), pur osservando che il soggetto gli era apparso quale "persona corretta, discreta e rispettosa".
Scrive infatti il magistrato Montera (65): "Conoscevo già per motivi di ufficio le accuse messe in passato al Musolino in ordine ad un grave omicidio, com'era a mia conoscenza che, dopo una breve carcerazione, lo stesso era stato prosciolto dal Giudice istruttore, su richiesta parzialmente difforme del p.m. procedente, con l'ampia formula del "non aver commesso il fatto"; conoscevo altresì che sempre il Musolino, aveva ottenuto dal tribunale regionale amministrativo la revoca e l'annullamento della "diffida" irrogatagli a seguito della grave accusa sopra ricordata e che in tutti gli anni successivi - ritengo, fino al corrente anno 1994 - aveva puntualmente ottenuto il permesso per il porto sia del fucile sia della pistola".
Il delitto a cui si riferisce il magistrato è quello di Giorgio De Stefano, uno degli elementi apicali della criminalità organizzata italiana.
A seguito dell'ordinanza del rinvio a giudizio di Suraci Giuseppe e Saraceno Vincenzo i fatti relativi all'omicidio di Giorgio De Stefano pervennero alla cognizione della Corte di assise di Reggio Calabria, presieduta all'epoca dal dr. Montera. La Corte, su richiesta del PM, all'udienza del 25 giugno 1982, dispose - ai sensi dell'articolo 89 c.c.p. abrogato - la sospensione del procedimento contro Suraci Giuseppe - cognato di Musolino Rocco - e la separazione del procedimento a carico di Saraceno Vincenzo.
Dieci anni dopo, in data 25 marzo 1992, l'ordinanza di sospensione del giudizio a carico di Suraci Giuseppe è stata revocata dal presidente della Corte, dr. Boemi. Questa la motivazione del provvedimento: " ... considerato che la lunga latitanza del Suraci non può costituire elemento conclusivo dal quale far discendere in modo probabile la morte dell'imputato, rilevato che preminente deve considerarsi l'interesse dell'Autorità Giudiziaria a procedere verso l'accertamento della verità sui fatti per cui è processo ... p.q.m. revoca l'ordinanza di sospensione del giudizio, ecc. ".
A questa "sospensione", da lui revocata, Boemi si riferisce esplicitamente nell'audizione del 18 marzo 1998 (riportata estesamente più avanti) dinanzi alla Commissione antimafia: "...non è vero che i processi si aggiustano portando le mazzette ai magistrati, che non ne hanno bisogno avendo la possibilità di comprare case e ville in modo molto più diluito nel tempo [...]. La massoneria è un centro di relazioni che consente agli avvocati di giocare a carte con i magistrati e a questi ultimi di trovarsi allo stesso tavolo degli imprenditori e in questo modo i processi probabilmente si aggiustano e sempre per leggere meglio le carte! Quindi, molti processi non sono arrivati a definizione a causa di questo coacervo di relazioni [...]. È accaduto poi che Salvatore Boemi


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trova in un cassetto nascosto - dopo aver chiuso tutti i processi, perché non ho lasciato alcun processo in Corte d'assise a Reggio Calabria - il processo riguardante l'omicidio di De Stefano Giorgio in Aspromonte, il più importante omicidio di mafia avvenuto in Calabria; era dimenticato in un cassetto, era sospeso. Abbiamo scoperto che probabilmente la massoneria ha avuto una parte in quel processo ...".
Il Montera conferma inoltre una circostanza riferita dal notaio Marrapodi anche di avere stipulato con il Musolino, che agiva in qualità di vice-sindaco, l'acquisto di un lotto di 800 mq. di terreno nell'ambito di un piano di lottizzazione sviluppato dal Comune di Santo Stefano, realizzandovi una casa (66).
L'abitazione, come aveva evidenziato il Marrapodi (67) era stata costruita da tale Stefano Malara (68), imprenditore edile, cognato del Musolino. Circostanza sempre confermata dal dr. Montera nella denunzia querela del 7 ottobre 1994 ("... al pranzo erano presenti anche alcuni nipoti del Musolino, figli del costruttore di casa mia (...( a nome Stefano Malara , figura di modesto galantuomo e di onesto piccolo imprenditore di sperimentata e riconosciuta onestà e correttezza").
Di Stefano Malara, cognato di Rocco Musolino, si sono occupati i Carabinieri della Compagnia CC di Villa S. Giovanni. Nel rapporto nr. 501/1 del 10.09.1984, indirizzato alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria (69), "in esito ad accertamenti su esposto anonimo", è evidenziato che "le gare d'appalto indette dal Comune di S. Stefano d'Aspromonte andavano tutte deserte, e poiché Malara Stefano era l'unico a far pervenire le offerte, i lavori venivano a questi affidati o per trattativa privata o per aggiudicazione".
Sui rapporti tra Montera e Musolino, il GIP del tribunale di Messina ha così testualmente concluso: "non sono (...) emersi fatti e circostanze tali da consentire la individuazione di reati, ancorché rimanga il fatto obiettivo, non censurabile in questa sede, di rapporti tra persone che rivestono nell'ambito della società ruoli che sono e che devono restare agli antipodi e che, seppur nell'ambito della liceità, possono dare adito a strumentalizzazioni o sospetti".
Ma nel decreto di archiviazione nulla si legge circa le modalità di pagamento dell'abitazione in Santo Stefano da parte del magistrato, così come non si trovano riferimenti più precisi all'impresa che realizzò le opere.
Va tuttavia evidenziato che quello dei rapporti con il Musolino ha rappresentato solo uno dei fatti relativi alla posizione del dr. Montera pervenuti al vaglio dell'A.G. messinese (70).


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I fatti relativi ai rapporti tra il Musolino e il dr. Montera sono poi passati al vaglio del Consiglio superiore della Magistratura, come si evince dalla sentenza (di proscioglimento) n. 120/97 della Sezione disciplinare, presieduta dall'avv. Gian Vittorio Gabri, pronunziata in camera di consiglio nel procedimento n. 70/97 del registro generale a carico del Montera.


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In questo procedimento il magistrato era stato incolpato di esser venuto meno ai doveri di prudenza e correttezza, così rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui doveva godere e compromettendo il prestigio dell'Ordine Giudiziario (articolo 18 R.decreto-legge 31.5.1946, n. 511), in particolare, a base della incolpazione dalla quale il dr. Montera è stato successivamente prosciolto erano state indicate le seguenti corcostanze:
a) essendo a conoscenza - o dovendo asaaon la ordinaria diligenza - che i fratelli Carmelo e Francesco Zappalà, imprenditori di Bova Marina, non erano immuni da pregiudizi penali, li ha ricevuti nel proprio ufficio presso la Procura Generale della Repubblica di Reggio Calabria con il legale di uno di loro per un tentativo di composizione di un loro conflitto patrimoniale;
b) avendo avuto nel 1986 rapporti di affari con i predetti fratelli Zappalà (sua moglie Sig.ra Adele Gerardis aveva acquistato dalla s.n.c. Costa dei Saraceni, controllata da Francesco Zappalà, una unità immobiliare nell'omonimo centro residenziale in Bova Marina con atto del 27.11.1986), non si è astenuto, quale presidente di sezione della Commissione tributaria di 10 grado di Reggio Calabria, dal trattare due ricorsi della S.I.L.B. s.r.l., società controllata dai fratelli Zappalà (cfr. decisioni della Commissione di 10 grado di Reggio Calabria n. 263/88 del 26.1.1988 e n. 2396/89 del 6.6.1989, quest'ultima emessa su ricorso del 19.4.1989);
c) avendo acquistato il 27.2.1982 dal Comune di Santo Stefano d'Aspromonte, rappresentato dall'Assessore anziano Rocco Musolino,


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un terreno edificabile a Gambarie, ha affidato l'appalto della erigenda casa di abitazione a Stefano Malara, cognato del predetto Musolino; negli anni successivi ha mantenuto rapporti di frequentazione con il Musolino, pur essendo a conoscenza - o dovendo esserlo con la ordinaria diligenza - che questi era sospettato di appartenenza mafiosa ed era stato coinvolto in processo per omicidio volontario (da tale imputazione era stato assolto dal Tribunale di Reggio Calabria con sentenza emessa il 4.2.1982).
Come si legge in sentenza, "... in esito alle acquisizioni contenute nel rapporto del 29.4.1996 dall'Ispettorato Generale del Ministero di Grazia e Giustizia - scaturito a seguito della ricezione di esposto inviato dal notaio Pietro Marrapodi e delle conseguenti indagini espletate - il Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione in data 6.9.96 promuoveva azione disciplinare nei confronti del dott. Giovanni Montera Avvocato Generale presso la Corte d Appello di Reggio Calabria, in ordine agli addebiti precisati in epigrafe.
Nel corso della istruttoria, condotta con il rito sommario, venivano acquisiti numerosi atti e documenti, in larga parte prodotta dal dott. Montera medesimo, nonché gli atti concernenti l'ispezione disposta dal Ministro Guardasigilli con nota 5 Ottobre 1995; veniva escusso in qualità di teste il col. Angiolo Pellegrini, dirigente del Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia di Reggio Calabria.
In data 14.11.1996 si procedeva all'interrogatorio del dott. Giovanni MONTERA, il quale negava la fondatezza degli addebiti disciplinari contestatigli e inoltrava al P.G. in data 2.1.1997 ampia memoria difensiva.
A conclusione della istruzione sommaria, il P.G. richiedeva con requisitoria scritta in data 8 Luglio 1997 non doversi fare luogo al dibattimento per essere rimasti esclusi gli addebiti
".
La Sezione disciplinare in data 18 Luglio 1997 deliberava, in camera di consiglio, conformemente alla richiesta del P.G.
Appare significativo il passaggio della sentenza relativo ai rapporti intercorsi fra il Montera e il Musolino, tanto che si rende necessario riprodurlo integralmente: "... a conclusioni analoghe alle precedenti ritiene la Sezione disciplinare di dover pervenire anche con riferimento alla incolpazione di cui al capo c) dell' epigrafe.
In essa si fa carico innanzitutto al dott. MONTERA di avere, in esito all'acquisto di un appezzamento di terreno, esteso circa 800 mq., sito in Gambarie di Aspromonte, conferito a tale Stefano Malara l'incarico di costruirvi una casa di abitazione.
La circostanza, di per sé irrilevante, assume nel capo d'incolpazione specifico contenuto lesivo del dovere di correttezza e di prudenza in quanto il Malara è cognato di Rocco Musolino, sospettato di appartenenza mafiosa.
L'ulteriore addebito disciplinare che si muove nel capo c) della incolpazione al dott. Montera, consiste nell'avere egli mantenuto rapporti di frequentazione proprio con il Musolino, pur essendo a conoscenza - o dovendo esserlo con la ordinaria diligenza - che questi era sospettato di appartenenza mafiosa ed era stato coinvolto in processo per omicidio volontario.
Orbene, per quanto concerne la prima parte dell'incolpazione, ossia il conferimento dell'incarico a Stefano Malara della costruzione della casa, appare del tutto evidente che la rilevanza disciplinare di tale


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condotta poggia unicamente sul rapporto di parentela che lega il Malara al Musolino.
Per contro agli atti non esiste alcun elemento che possa in qualche modo dimostrare l'inserimento del Malara nell'area dei rapporti malavitosi asseritamente intessuti dal Musolino, sicché il mero rapporto di parentela con quest'ultimo non può riverberare sulla condotta del dott. Montera effetti pregiudizievoli sul piano disciplinare, ancor più ove si consideri che nessun intervento risulta essere stato spiegato dal Malara sul dott. Montera, nessun approfittamento in favore di chicchessia è stato posto in essere dal Malara, la cui attività si è esaurita nella esecuzione di quanto contrattualmente pattuito per la realizzazione dell'immobile di Gambarie.
Quanto alla seconda parte della incolpazione, osserva la Sezione disciplinare che gli elementi indiziari attestanti lo stabile inserimento del Musolino nella 'ndrangheta calabrese sono emersi soltanto alla fine del 1993, a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, tale Lauro, e altresì del notaio Pietro Marrapodi, il quale ha riferito di presunti rapporti di frequentazione tra il Musolino e il dott. Montera.
Nei confronti del Musolino è stata di conseguenza elevata imputazione per il delitto di cui all'articolo 416 bis c.p. ed emesso nei suoi confronti, nel giugno 1995, provvedimento di custodia cautelare in carcere.
Il notaio Marrapodi ha indicato, a sostegno della affermata esistenza di rapporti di frequentazione tra il Musolino e il dott. Montera, la partecipazione di entrambi ad un pranzo in Aspromonte al quale egli stesso avrebbe preso parte.
La circostanza è stata ammessa dal dott. Montera, il quale ha ritenuto di collocare detto incontro conviviale nell'inverno del 1991, ossia almeno due anni prima delle rivelazioni del pentito Lauro e 4 anni prima dell'arresto del Musolino.
Il dott. Montera ha decisamente negato di avere avuto con il Musolino rapporti di frequentazione ed ha precisato - nel corso dell'interrogatorio reso al P.G. presso la Corte Suprema in data 14.11.1996 - essersi trattato di rapporti di mera conoscenza e di occasionali incontri in ambito soprattutto di Gambarie.
Orbene, posto che a sostegno della propria versione il notaio Marrapodi non ha saputo indicare ulteriori circostanze, né ulteriori occasioni di frequentazione, se ne deve dedurre che l'asserito rapporto di "frequentazione" tra il dott. Montera ed il Musolino si riduce ad un unico episodio, quello del pranzo in Aspromonte.
Si tratta di un incontro conviviale certamente inopportuno se riguardato in rapporto alla presenza del dott. Montera (anche se non è senza significato notare che ad esso ha partecipato lo stesso notaio Marrapodi, il quale una volta organizzato tale incontro, se ne è servito per accusare il dott. Montera di frequentazioni mafiose), ma che non può avvalorare l'assunto di una frequentazione abituale tra i due.
Inopportuno, si diceva, anche perché il Musolino era stato implicato molti anni addietro (1977-78) nell'omicidio di De Stefano Giorgio ed anche arrestato. E se è pur vero - come ha riferito il col. Angiolo Pellegrini al P.G. nell'interrogatorio reso il 15.5.1997 - che nel periodo compreso tra il suo prosciogliomento, (1982), e l'avvio delle nuove indagini (1993) "non sono stati acquisiti elementi in ordine ad una sua concreta partecipazione a fatti di criminalità organizzata; in altre parole non vi sono stati fatti pubblici e notori nell'ambiente di un suo


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coinvolgimento nell'attività mafiosa", resta pur sempre il fatto che "il Musolino era comunque conosciuto come esponente di rilievo di un clan mafioso legato al Serraino Francesco" (cfr. dep. Col. Pellegrini, cit.).
Tuttavia, va considerato che il dott. Montera, a sua giustificazione, ha sostenuto di non aver saputo per tempo della partecipazione del Musolino al pranzo di cui si tratta e di avere appreso la notizia quando ormai non era possibile disdire l'impegno, se non a costo di ufficializzare un "palese sgarbo", come rileva il P.G. a pag. 9 della sua requisitoria.
Inoltre, l'incontro conviviale in questione non ha determinato, a suo tempo, alcuna reazione negativa nell'ambiente giudiziario e più in generale in quello reggino, essendo rimasto strettamente confinato nella sfera di un incontro privato. La conferma si trae agevolmente dal fatto che di tale unico incontro ha parlato, con accenti fortemente allusivi, proprio e solamente il notaio Marrapodi, ossia uno dei pochi soggetti che ne era a conoscenza per essere stato egli stesso l'organizzatore ed avervi preso parte. Ed è veramente singolare che proprio chi ha organizzato un incontro conviviale e invitato una persona in odore di mafia accusi poi di collusione chi si è limitato ad accettare l'invito.
Sul punto vanno altresì richiamate le considerazioni svolte dal P.G. nella requisitoria scritta circa la insussistenza di un rapporto di frequentazione "tale da assumere carattere di intimità, di confidenza, di sostegno e cioè, in definitiva, anche di solo 'apparente contiguità', che questa sì nuoce, e gravemente, al prestigio dell'uomo e della funzione che svolge" (cfr. pag. 10 della requisitoria P.G., a foglio n. 70 ). Da tali considerazioni non si pretende certo di derivare la inesigibilità di una condotta diversa da quella in concreto posta in essere dal dott. Montera, quanto piuttosto la difficoltà di attuare una condotta diversa da quella in concreto posta in essere, ove si ponga mente alla peculiare situazione ambientale nella quale il predetto magistrato si è trovato ad operare, nella quale i confini tra il lecito e l'illecito sono assai incerti e di non sempre agevole percezione, se è vero che il Musolino, da un lato, è stato accusato e arrestato negli anni 1977-78 per omicidio e successivamente prosciolto in istruttoria, dall'altro "riabilitato" al punto da divenire titolare di porto d'armi e, come se non bastasse, locatore dell'immobile nel quale aveva sede proprio la caserma dei Carabinieri di S. Stefano d'Aspromonte.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, ritiene la Sezione disciplinare essere rimasta esclusa la sussistenza tra il dott. Montera e il Musolino di rapporti di frequentazione e comunque di una situazione di fatto tale da ingenerare la percezione di una "contiguità apparente" lesiva del prestigio dell'Ordine giudiziario"
.
Non risulta tuttavia richiamata nella motivazione una "ulteriore circostanza" riferita dal notaio Pietro Marrapodi, in data 29.8.1995, al CSM e alle autorità giudiziarie di Messina e Reggio Calabria.
Scriveva il notaio di aver segnalato la circostanza che un teste era in grado di riferire circa "la richiesta avanzata dal giudice Giovanni Montera al boss don Rocco Musolino di Gambarie d'Aspromonte perché intervenisse ... per fermare le ... denunce contro alcuni magistrati di Reggio Calabria". Il notaio sottolineava poi come "l'intervento di don Rocco, a prescindere dalle espressioni formali, oggettivamente e notoriamente avrebbe dovuto considerarsi minaccia di mafia ...".


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Vi è traccia di siffatta missiva agli atti della Direzione distrettuale antimafia di Messina, che aprì il proc. n. 21/95/45 (71) (Atti relativi a un telegramma a firma di notaio Marrapodi Pietro del 29.8.1995).
In data 22.2.1996 il Procuratore della Repubblica di Messina e il Procuratore aggiunto trasmisero al giudice per le indagini preliminari di Messina la richiesta di archiviazione dell'esposto, osservando che il medesimo "nella sua genericità, non offre elementi sufficientemente idonei a giustificare l'avvio di specifiche indagini". Il 29.2.1996 il giudice per le indagini preliminari di Messina, letti gli atti del procedimento 2116/95/45, ritenne l'accusa generica ed osservò che la stessa era stata oggetto di valutazione nell'ambito di altro procedimento già archiviato, accogliendo la richiesta della Direzione distrettuale di Messina.
Dall'esame degli atti del proc. n. 2116/95/45, non risulta esperito - né delegato alla PG - alcun specifico accertamento su una così inquietante circostanza.
Il notaio Marrapodi è deceduto in data 28 maggio 1996, per impiccagione.
Con nota del 6 aprile 2000 (72), il Consiglio Superiore della Magistratura comunicava a questa Commissione che "con riferimento a rapporti o cointeressenze tra Rocco Musolino ed appartenenti all'Ordine Giudiziario l'esistenza della pratica n. 271/94 R.R., nell'ambito della quale proprio per tali circostanze erano state iniziate procedure di trasferimento di ufficio ex articolo 2 R.decreto-legge 31 maggio 1946, n. 511 nei confronti dei dottori Guido Neri e Giovanni Montera, cessati dall'Ordine Giudiziario il 16 ottobre 1996 ed il 9 gennaio 1998 ed all'epoca dei fatti rispettivamente Procuratore Generale e Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria".
Il CSM segnalava che tali procedure si erano concluse con delibera del 21 marzo 1966 di trasferimento di ufficio del dr. Guido Neri e con delibera del 22 maggio 1996 di archiviazione nei confronti del dr. Giovanni Montera "in aspettativa per ragioni elettorali", e destinato, quindi ad essere "assegnato ad una sede diversa da quella di Reggio Calabria ove si sono verificati i fatti contestati ai fini del trasferimento di ufficio ...", atteso che "vengono, comunque, meno i profili di incompatibilità ambientale contestati".
Quanto alla posizione del dr. Guido Neri, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, dalla sentenza della Sezione Disciplinare trasmessa dal CSM (73) si evince che a suo carico era stato avviato un procedimento disciplinare, a seguito dell'iniziativa del procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione.
Il Neri era stato incolpato per " avere indebitamente esercitato un'assidua attività di stretta collaborazione in un'impresa di carattere economico-commerciale, partecipando alla gestione della società a r.l. "Macner" di cui era amministratore il fratello Giovanni, costituita per la realizzazione di un villaggio turistico in Bova Marina denominato "lonio Blu" e, successivamente, dichiarata fallita in data 2.3.1994. Attività consistita in particolare: 1) nell'essersi adoperato per ottenere,


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tramite l'intervento del notaio Marrapodi, un prestito di 200 milioni da Rocco Musolino, all'epoca imputato di concorso in un omicidio di mafia; 2) nei contatti diretti avuti, per sollecitare finanziamenti, con Micheli Aurelio per la finanziaria Fintradex e con D'Agostino Luigi, Moscatello Giuseppe e Calabrà Giuseppe per la F.I.M.I.; 3) nell'interessamento per ottenere, a favore della "Macner", un mutuo di 2.50O milioni della B.N.L., risultando dalla documentazione interna della banca, l'opportunità e "l'importanza" attribuita all'operazione, essendo ad essa interessato il fratello del Procuratore Generale di Reggio Calabria "personalità quest'ultima di elevato prestigio, la cui collaborazione ci torna particolarmente utile"; 4) nel contratto di appalto stipulato per la costruzione di villette sul terreno del Villaggio Ionio Blu tra la "Macner" e le imprese F.lli Maimo, Sculli Saverio ed Jonica Calcestruzzi s.r.l., quest'ultima riconducibile a Bruno Mistra esponente di rilievo della 'ndrangheta".
La condotta, secondo l'incolpazione, appariva "caratterizzata da un'attività - incompatibile con l'appartenenza all'Ordine Giudiziario - di ausilio e di fiancheggiamento dell'impresa commerciale del fratello, in contatto -peraltro- con persone notoriamente appartenenti all'ambiente mafioso" aveva "determinato un sensibile appannamento della sua immagine in termini di credibilità, rendendolo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere (articolo 18 R.decreto-legge 31.5.1946, n. 511)".
Espletata l'istruttoria, il P.G. chiedeva alla Sezione Disciplinare di voler dichiarare il non luogo a procedere per cessata appartenenza del dott. Neri all'Ordine Giudiziario.
Nella Camera di Consiglio del 7.2.1997 la Sezione decideva in conformità, avendo il dott. Neri presentato istanza di collocamento a riposo per anzianità di servizio, accolta dal Ministro, su conforme delibera del CSM, con decreto in data 8.1.1997.


(4) Significativi indici di queste contraddizioni (in parte ammortizzate e in parte acutizzate dall'economia nera) si trovano nei dati, i più recenti di cui si possa disporre, scelti per l'appendice sull'economia e la spesa pubblica, e molto significativi con specifico riferimento al 'sommerso'.
(5) Elaborazione su dati ISTAT in BANCA D'ITALIA, Sintesi delle note sull'andamento dell'economia delle Regioni italiane nel 1999, (Roma, 2000).
(6) Nella graduatoria delle province italiane secondo il tasso di disoccupazione al 1999, Reggio Calabria (insieme ad Enna) è al primo posto con il 32,4%, Catanzaro al secondo con il 29,7%, Vibo Valentia al terzo con il 29,34%, Cosenza al decimo con il 25,3%, Crotone al 23% con il 17,5%. Nella graduatoria regionale la Calabria detiene questo primato, il 28,0% distaccando di molto le altre regioni cosiddette a rischio: la Sicilia 24,5%, la Campania 23,7%, la Puglia 19%, e supera di molto la media del Mezzogiorno 22,0% e quella nazionale 11,4% (Elaborazione SVIMEZ su dati ISTAT, in Informazioni SVIMEZ, dicembre 1999). Quanto ai tassi di disoccupazione giovanile (15-24 anni) il primato è mantenuto da Reggio Calabria, 71,2 %, mentre Catanzaro è al quinto posto, 66.5 %, Cosenza al settimo, 65,1%, Vibo Valentia al decimo 61,4 %, Crotone al diciottesimo, 54,6%. La media della Calabria raggiunge il 66,2%, rispetto al 62,6% della Campania, il 60,7 % della Sicilia e il 47,6 % della Puglia (la media del mezzogiorno raggiunge il 56,6 %. Quella nazionale il 32,9 %). La Banca d'Italia nelle «Note sull'andamento dell'economia in Calabria» (Catanzaro 2000), note aggiornate con informazioni disponibili al 30 aprile 2000, documenta la gravità strutturale del problema occupazione: «Nel 1999 gli occupati sono diminuiti in media dell'1,6% pari a 9000 unità. Il livello occupazionale si è portato sul valore più basso registrato nell'ultimo decennio... La riduzione dell'occupazione è interamente ascrivibile alla componente indipendente (-7,9%, pari a 13.000 unità) e più accentuata nelle categorie di lavoro autonomo diversa dall'impresa. L'occupazione dipendente è cresciuta, invece di 4.000 unità rispetto al 1998... Nel 1999 è aumentata l'offerta di lavoro la contemporanea riduzione della domanda di lavoro ha determinato un significativo incremento del tasso di disoccupazione, aumentato di circa due punti (dal 26,1 al 28%)... L'incremento delle persone in cerca di occupazione (8,9%, pari a 17.000 unità) è concentrata nella componente rappresentata dai disoccupati in senso stretto, cresciuta del 30,5% (circa 18.000 unità)... A seguito di tali dinamiche si è raddoppiato rispetto al 1996 il differenziale fra il tasso di disoccupazione calabrese e quello delle altre regioni meridionali passato da 3,3 a 6,7 punti». Questi dati ripropongono la necessità di una ricognizione nuova e rigorosa dell'economia sommersa e del lavoro nero, tanto più in relazione ai dati Unioncamere sulla mortalità e natalità delle imprese, e alle stesse note della Banca d'Italia, laddove si osserva «secondo i dati Novimprese la Calabria è la terza regione d'Italia dopo Sicilia e Puglia, per crescita del numero di imprese nel triennio 1997-1999. La crescita media annua è stata pari al 2,3% contro l'1,4% rilevato per il totale nazionale».
(7) Per economia di ragionamento si è estrapolata questa sequenza decennale e la provincia di Reggio Calabria dal quadro complessivo degli indici della criminalità relativi a tutte le province per gli ultimi due anni. Questo quadro è riportato in appendice.
(8) Sull'attività della cosca Iamonte è utile TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA (GIP D. Ielasi e A. Cisterna), Ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Iamonte Natale + 95, n. 86/93 R DDA in data 2.10.1993.
(9) Le sentenze di annullamento sono in TAR LAZIO, Sentenza sul ricorso proposto da Domenico Frustagli ed altri, 9 luglio 1992 e 17 novembre 1993; CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE (pres. B. De Maio, est. V. Adami), Sentenza pronunciata sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, 1992.
(10) Celebre è rimasto il caso del sindaco di Gioia Tauro Vincenzo Gentile che dopo aver negato l'esistenza della mafia nel suo comune venne ucciso, qualche anno dopo, nel 1987, in un agguato mafioso. Su questo si veda Tribunale di Reggio Calabria (pres. G. Tuccio), Sentenza nel procedimento penale contro De Stefano Paolo + 59, 4.1.1979.
(11) Il 21/11/96 il reparto operativo di Reggio Calabria concludeva l'operazione "Fire" che portava all'emissione di 25 ordinanze di custodia cautelare a carico di esponenti delle cosche Santaiti, Gioffrè e Bellocco, indagati per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, estorsioni, rapine e per l'attentato incendiario ai danni del palazzo municipale. Tale ultimo evento aveva suscitato vastissima eco sugli organi di stampa nazionali ed indotto il ministro dell'interno del tempo, on. Giorgio Napolitano, a portarsi in Seminara per esprimere la propria solidarietà a quell'amministrazione. Le indagini consentivano di raccogliere prove inconfutabili tra cui la programmazione ed i commenti subito dopo l'esecuzione del reato. Il processo si è concluso con pesantissime condanne per quasi tutti gli imputati.
(12) Il 17/02/98 il reparto operativo di Reggio Calabria concludeva l'operazione "Cento croci" che portava all'emissione di 21 ordinanze di custodia cautelare a carico di esponenti della cosca Santaiti di Seminara, indagati di associazione mafiosa, estorsioni, violazione della legge sulle armi e sugli stupefacenti, rapine e danneggiamento a colpi di arma da fuoco della pubblica illuminazione di Seminara.
(13) L'operazione "Primavera" è stata condotta dalla Compagnia di Locri il 31/10/1997. Il GIP distrettuale di Reggio Calabria, infatti, emetteva 34 ordinanze di custodia cautelare per associazione mafiosa, omicidi, estorsioni, violazione delle leggi sulle armi, e voto di scambio a carico di altrettanti esponenti delle cosche Cordì e Cataldo di Locri, contrapposte in una trentennale sanguinosa faida. Il 14/04/98 seguiva un 35o provvedimento restrittivo a carico di funzionario della Regione Calabria contiguo ai Cordì e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. L'inchiesta consentiva di far luce su una lunga serie di omicidi e sull'interessamento della criminalità nelle consultazioni tenutesi nel 1996 per il rinnovo del consiglio comunale di Locri e del Parlamento. Il processo si è concluso il 19 giugno 2000 con una sentenza della Corte d'Assise di Locri, di cui, per la sua obiettiva rilevanza, si è ritenuto di riprodurre qui l'intero dispositivo:
" CORDÌ Antonio colpevole dei reati di cui ai capi:
I), la) Ib) e previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena dell'ergastolo;
P), Pa), Pb) e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena dell'ergastolo;
A1), B1), C1), D1) e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena dell'ergastolo;
N1)N1-a), n1B)e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena dell'ergastolo;
O1), 01-a), o1-b), o1-c), e unificati gli stessi nel vincolo della continuazione lo condanna alla pena dell'ergastolo;
nonché dei reati di cui ai capi:
A), e lo condanna alla pena di 23 anni di reclusione;
D) D-a), D-b) e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni 23 di reclusione;
L),M),N),0) e, unificati gli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni 23 di reclusione;
L3-a), e lo condanna alla pena di anni 4, mesi 6 di reclusione e lire 4.500.000 (quattromilionicinquecentomila) di multa;
ritenuta per tutti i reati la recidiva come contestata e così, complessivamente, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di tre anni.
Dichiara l'imputato perpetuamente interdetto dai pubblici uffici, in stato di interdizione legale, decaduto dalla potestà dei genitori.
CORDI SALVATORE cl.77, colpevole dei reati di cui ai capi:
A1), B1), C1), D1), e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena dell'ergastolo;
Q), R), S),. T), e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni 23 di reclusione;
A), e lo condanna alla pena di anni 16 di reclusione;
così complessivamente, ritenuta per tutti i reati la recidiva come contestata, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durati di anni 1.
Dichiara l'imputato perpetuamente interdetto dai pubblici uffici, in stato di interdizione legale, decaduto dalla potestà dei genitori:
CORDÌ COSIMO cl. 75 colpevole dei reati di cui ai capi:
A1), B1), C1), D1) e, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione lo condanna alla pena dell'ergastolo;
A), e lo condanna alla pena di anni 15 di reclusione;
L3-a), e lo condanna alla pena di anni 3, mesi 6 di reclusione e lire 3.000.000 (tremilioni) di multa;
così complessivamente, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di anni 1.
Dichiara l'imputato perpetuamente interdetto
CORDÌ ATTILIO E CORDÌ CESARE colpevoli dei reati di cui ai capi:
- A), e li condanna alla pena di anni 15 di reclusione ciascuno;
- S2), U2), Z2), A3), B3) e, unificati gli stessi nel vincolo della continuazione, li condanna alla pena di anni 8 di reclusione e lire 4.000.000 (quattro milioni) di multa ciascuno;
pertanto, alla complessiva pena detentiva di anni 23 di reclusione ciascuno.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CORDÌ SALVATORE cl. '73 colpevole dei reati di cui ai capi:
- A), e lo condanna alla pena di anni 15 di reclusione;
- S2), U2), Z2), A3), B3), unificati nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni 8 di reclusione e lire 4.000.000 (quattro milioni) di multa;
- L3-a), e lo condanna alla pena di anni 3, mesi 6 di reclusione e lire 3.000.000 ( tre milioni) di multa.
Dichiara il predetto perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CORDÌ DOMENICO cl. '79 colpevole dei reati di cui ai capi S2), U2), Z2), A3), B3) unificati nel vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni 8 di reclusione e lire 4.000.000 (quattro milioni) di multa.
Dichiara l'imputato interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
GUASTELLA LEONARDO E GUASTELLA MAURIZIO colpevoli dei reati loro ascritti e li condanna:
- per il reato sub A), rispettivamente alla pena di anni 15 e di anni 9 di reclusione;
- per il reato sub H1) alla pena di anni 2 di reclusione e lire 1.200.000 (unmilioneduecentomila) di multa ciascuno, ritenuta per Guastella Maurizio la contestata recidiva.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
NOVELLA PASQUALE colpevole dei reati di cui ai capi:
- A), e lo condanna alla pena di anni 10 di reclusione;
- F2), H2), L2), N2), O2), P2) unificati gli stessi nel vincolo della continuazione, con la contestata recidiva, e lo condanna alla pena di anni 10 di reclusione e lire 4.500.000 (quattromilioni cinquecentomila) di multa;
così ala complessiva pena detentiva di ani 20 di reclusione.
Dichiara il predetto perpetuamente interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CORDÌ VINCENZO - DIENI ANTONINO - CAMINITI DOMENICO - ROMEO FABIO colpevoli del reato loro ascritto e condanna:
- Cordì Vincenzo e Dieni Antonino alla pena di anni 13 di reclusione ciascuno, ritenuta per entrambi la recidiva come contestata;
- Caminiti Domenico e Romeo Fabio alla pena di anni 11 di reclusione ciascuno.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
DIENI SALVATORE E RUGGIA COSIMO colpevoli del reato loro ascritto al capo A) e li condanna, ciascuno, alla pena di anni 11 e mesi 6 di reclusione, ritenuta la contestata recidiva.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
STRATI DAMIANO colpevole dei reati di cui ai capi S2), U2), Z2), A3), B3) unificati per la continuazione, e lo condanna alla pena di anni 9 di reclusione e lire 4.500.000 (quattro milioni cinquecentomila) di multa.
Dichiara l'imputato interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
DESSÌ GIOVANNI colpevole dei reati di cui ai capi F2), H2), L2), N2), O2), P2) unificati per la continuazione e, con la contestata recidiva, lo condanna alla pena di anni 6 di reclusione e lire 2.500.000 (due milioni cinquecentomila) di multa.
Dichiara il predetto imputato interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CAVALERI VINCENZO colpevole dei reati di cui ai capi C3), E3), G3), H3) unificati sotto il vincolo della continuazione, esclusa l'aggravante di cui all'articolo 7 L 203/91, e lo condanna alla pena di anni tre di reclusione e lire 1.600.000 (un milione seicentomila) di multa.
CATALDO GIUSEPPE cl 38 E CATALDO ANTONIO colpevoli dei reati di cui ai capi:
- da L1) a M1-c) loro ascritti in corso unificati nel vincolo della continuazione, e li condanna alla pena dell'ergastolo;
- B9, e li condanna rispettivamente alla pena di anni 20 e di anni 18 di reclusione, con la recidiva come contestata ad entrambi;
e così complessivamente, ciascuno alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di anni due.
Dichiara entrambi gli imputati perpetuamente interdetti dai pubblici uffici, in stato di interdizione legale, decaduti dalla potestà dei genitori.
CATALDO GIUSEPPE cl. 69 E ZUCCO GIUSEPPE colpevoli del reato loro ascitto al capo B) e li condanna alla pena di anni 15 di reclusione ciascuno, con la contestata recidiva.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CATALDO NICOLA E STALTARI AURELIO colpevoli del reato loro ascritto e li condanna alla pena di anni 15 di reclusione ciascuno.
Dichiara i predetti perpetuamente interdetti dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
ZUCCO SANTO colpevole dei reati a lui ascritti e lo condanna alla pena di anni 15 di reclusione per il reato sub b), nonché alla pena di anni 6 di reclusione e lire 2.000.000 (due milioni) di multa per i rimanenti reati, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione e, pertanto, ritenuta la contestata recidiva, alla complessiva pena detentiva di anni 21 di reclusione.
Dichiara l'imputato perpetuamente interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
CATALDO FRANCESCO colpevole del reato ascrittogli e lo condanna alla pena di anni 13 di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici ed interdizione legale per la durata della pena inflitta.
PANETTA ANTONIO colpevole dei reati a lui ascritti e lo condanna alla pena di anni 10 di reclusione per il reato sub B9, nonché alla pena di anni 5 di reclusione e lire 1.800.000 (unmilione ottocentomila) di multa per i rimanenti, previa unificazione degli stessi nel vincolo della continuazione ed assorbimento del reato di cui al capo R1) in quello di cui al capo U1), e così alla complessiva pena detentiva di anni 15 di reclusione.
Dichiara l'imputato perpetuamente interdetto dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena inflitta.
LOMBARDO VINCENZO, MULÈ GIUSEPPE e CARERI ROCCO GIUSEPPE colpevoli del reato loro ascritto e li condanna alla pena di anni 12 di reclusione ciascuno, con interdizione perpetua dai pubblici uffici e legale per la durata della pena inflitta.
CARERI SALVATORE colpevole del reato ascrittogli e lo condanna alla pena di anni 8 di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici ed interdizione legale per la durata della pena inflitta.
Condanna tutti i suddetti imputati al pagamento in solido delle spese processuali e ciascuno a quelle della rispettiva custodia cautelare.
Ordina che gli imputati per i quali è stata irrogata pena detentiva temporanea siano sottoposti, a termini di legge, alla misura di sicurezza della libertà vigilata per un periodo non inferiore ad anni tre.
Ordina che la presente sentenza sia pubblicata mediante affissione nel Comune di Locri, nonché, per una sola volta e per estratto, sul quotidiano "la Gazzetta del Sud".
Visto l'articolo 538 c.p.p.
Condanna Cordì Antonio al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile nella misura simbolica di una lira richiesta dalla stessa, nonché al pagamento delle relative spese di costituzione e difesa che liquida in complessive lire 44.804.000 di cui lire 980.000 per spese e lire 43.824.000 per onorario.
Confisca in quanto in sequestro, con conseguente inoltro alla competente Direzione di Artiglieria delle armi e delle munizioni per la distruzione.
Ordina la trasmissione degli atti al PM per quanto di ulteriore, eventuale competenza.

* * *

Visto l'articolo 530 2o comma c.p.p.

ASSOLVE

CORDÌ ANTONIO, CORDÌ SALVATORE cl. '77, CRIACO PIETRO, CORDÌ COSIMO cl. '75, CORDÌ DOMENICO cl. 69, CORDÌ DOMENICO, cl. '79, CORDÌ ATTILIO, CORDÌ CESARE, CORDÌ SALVATORE cl. 73, STRATI DAMIANO, NOVELLA PASQUALE, DESSÌ GIOVANNI, CAVALERI VINCENZO E RUGGIA COSIMO, nonché CATALDO GIUSEPPE cl. 38, CATALDO ANTONIO E ZUCCO GIUSEPPE dai rimanenti reati come loro ascritti in rubrica.
Assolve inoltre BRUSAFERRI DOMENICO, NOVELLA ANTONIO, PELLEGRINO UMBERTO e SPILINGA LORENZO dal reato loro ascritto.
Dispone la liberazione di Brusaferri Domenico, Pellegrino Umberto e Spilinga Lorenzo se non detenuti per causa diversa da quella di cui alla misura cautelare n. 40/97 o.c.c. emessa dal GIP distrettuale del Tribunale di Reggio Calabria il 30.10.1997.
Revoca la suddetta ordinanza custodiale emessa nei confronti di Novella Antonio.
Indica in giorni 90 il termine per il deposito della sentenza disponendo per il medesimo periodo la sospensione dei termini di custodia cautelare ex articolo 304, comma 1o lettera c) c.p.p.
Locri 199.2000
Firmato: IL PRESIDENTE

Altresì importante, soprattutto per il significato della minaccia alla legalità e della risposta dello Stato a mezzo dell'Arma dei Carabinieri, è stata l'operazione "Primavera 2". Il 13/07/96 una autovettura protetta condotta da un agente della Polizia di Stato, addetto alla scorta di un magistrato della DDA di Reggio Calabria, veniva coinvolta, nel centro di Locri, in un incidente stradale nel quale decedeva il pregiudicato Carpentieri Gioesefatto, vicino alla cosca Cordì. Il sodalizio criminale strumentalizzando l'iniziale, spontaneo e comprensibile disagio della popolazione, fomentava gravi disordini che, con blocchi stradali e ferroviari e l'imposizione di chiusura ai commercianti, paralizzavano la città di Locri il 13, 14 e 15 luglio. Le indagini condotte dall'Arma dimostravano che i Cordì avevano così voluto riaffermare il loro potere criminale in antitesi alle Istituzioni statali. Il GIP distrettuale, sulla base dell'informativa dei carabinieri, emetteva 24 ordinanze di custodia cautelare per associazione mafiosa, blocco stradale e ferroviario e violenza privata, a carico di altrettanti esponenti della cosca Cordì. Il relativo processo, testè concluso, ha portato alla condanna di 21 degli imputati a pene oscillanti da 9 anni e 8 mesi a 13 anni e 2 mesi di reclusione.
(14) Si ricordino l'omicidio dell'onorevole Lodovico Ligato, ex deputato della DC ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato, e il fatto che attualmente pendono, presso il Tribunale di Reggio Calabria, due processi per mafia a carico dell'onorevole Paolo Romeo, ex deputato, e dell'onorevole Amadeo Matacena, attualmente deputato.
L'onorevole Paolo Romeo, accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, viene indicato come uomo appartenente alla cosca De Stefano e anche come personaggio di collegamento con la destra eversiva - sin dai tempi della fuga di Franco Freda imputato al processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana a Milano (Paolo Romeo fu arrestato per qualche mese e fu imputato di favoreggiamento per la fuga di Franco Freda. Il reato fu prescritto nel 1990.) - e con la massoneria alla quale sarebbe iscritto.
L'onorevole Amadeo Matacena è imputato, per come recita il dispositivo di rinvio a giudizio, "del delitto p. e p. dagli artt. 110-416 bis c.p. per avere contribuito, sostenuto ed agevolato le complesse e molteplici attività e gli scopi criminali propri dell'associazione per delinquere di stampo mafioso, presente nel territorio calabrese e nazionale, denominata 'ndrangheta, offrendo e consegnando, tra l'altro, una somma di denaro ad un affiliato del "locale" di Scilla nel corso della campagna elettorale per il rinnovo dell'Amministrazione Comunale di quel centro (nel 1988), richiedendo ed ottenendo da esponenti di numerose cosche (Tripodoro, Carelli, Rosmini, Serraino, Condello, Gallico) consensi elettorali in favore di Bastianini Attilio, candidato alla Camera dei Deputati (nel 1992), utilizzando la forza intimidatrice delle cosche della piana di Gioia Tauro (Gangemi-Piromalli, Rugolo-Mammoliti) col fine d'indurre alle dimissioni dalla Camera dei Deputati Santoro Attilio eletto nelle fila del P.L.I. in luogo del già citato Bastianini Attilio (nel 1992), sollecitando e conseguendo in proprio favore consensi elettorali dalle consorterie federate reggine (Rosmini-Serraini-Condello) durante le elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati (nel 1994), promettendo assistenza giudiziaria ed indebiti interessamenti in vicende processuali riguardanti appartenenti all'organizzazione mafiosa, favorendo ed appoggiando, altresì, la candidatura di Aquila Giuseppe, componente del casato Rosmini, durante varie consultazioni elettorali e, tra l'altro, per il Consiglio Provinciale di Reggio Calabria (nel 1994), promuovendo ed assicurando, infine, durante il mandato parlamentare e precedentemente iniziative finalizzate a contrastare gli effetti della normativa riguardante i collaboratori di giustizia".
Deve essere, inoltre, segnalato che, nell'ambito di un altro procedimento, nei confronti dell'on. Matacena la sentenza del G.I.P. di Reggio Calabria del 22 giugno 2000 ha dichiarato "Non doversi procedere in ordine al reato ascritto per non aver commesso il fatto": il fatto è quello configurato nel procedimento penale 16/99 RGNR con cui il Pubblico Ministero della DDA di Reggio Calabria aveva chiesto il rinvio a giudizio con l'imputazione di tentata estorsione aggravata in Reggio Calabria nei primi mesi del 1997 in danno dell'impresa Edil.Mil-Impregilo, ed altro.
(15) Cfr. Informative Rep. Op. Carabinieri di Reggio Calabria e Stazione Carabinieri di Sinopoli, in Proc. pen. n. 112/96 DDA Reggio Calabria, DOC 1879.
(16) Ecco i dati delle altre province: Cosenza da 39 e 49 per il 1998 a 77 e 83 per il 1999,Crotone da 3 e 4 per il 1998 a 10 e 27 per il 1999,Reggio Calabria da 47 e 58 per il 1998 a 36 e 33 per il 1999, Vibo Valentia da 18 e 11 per il 1998 a 35 e 38 per il 1999. Non si dimentichi di considerare tra le ragioni che possano aver determinato numeri così bassi, e la persistenza di una zona assai ampia della non-denuncia, quella crisi del rapporto di fiducia tra le vittime e le Istituzioni, contro la quale, con indirizzi e strumenti nuovi, è ora impegnato a combattere il Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura.
(17) TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA (GIP Santalucia), Ordinanza n. 38/97 GIP di misure cautelari nei confronti di Cordì Domenico, 2 marzo 1998.
(18) Il clamoroso ZERO di Crotone e il contrasto tra allarmi dati e denunce omesse assumono un particolare risalto per la conferma assai autorevole che trovano nel quadro rappresentato alla Commissione antimafia proprio a Crotone il 7 marzo 2000 dal Prefetto: il quadro di un impegno operante e diffuso del crimine organizzato a "praticare su vasta scala il prestito usurario". Ulteriore e significativo riscontro si ha nelle connessioni che il Prefetto ha prospettato : l'usura come uno degli strumenti della mafia per "penetrare nel tessuto economico", per acquisire "il controllo diretto di attività economiche con la conseguente possibilità di riciclare". L'autorità e la responsabilità di questo quadro non può che rafforzare il convincimento della Commissione antimafia che per combattere effettivamente l'usura non sia possibile più attendere che essa venga denunciata e che conoscenza repressione e prevenzione di questo delitto non possano più farsi dipendere dalla iniziativa degli "usurati".
(19) Ai risultati dell'indagine che la Commissione ha ritenuto di dover svolgere sui connotati di questa misura di prevenzione patrimoniale è dedicato più avanti un apposito capitolo.
(20) Cfr. DOC 1415.
(21) Ai sensi del quarto e del quinto comma dell'articolo 2 bis della legge 31 maggio 1965, n.575, (introdotto dall'articolo 14 della legge 13 settembre 1982, n. 646), quando ricorre il concreto pericolo che i beni di cui si prevede debba essere disposta la confisca vengano dispersi sottratti o alienati, il procuratore della Repubblica o il questore possono richiedere al presidente del tribunale competente per l'applicazione della misura di prevenzione di disporre anticipatamente il sequestro dei beni (comma 4 articolo cit.). Su tale proposta il presidente provvede con decreto motivato entro cinque giorni dalla richiesta. Il sequestro eventualmente disposto perde efficacia se non convalidato dal tribunale entro trenta giorni dalla proposta (comma quinto).
(22) DECRETO N.51/96, in Atti del procedimento per l'applicazione di misura di prevenzione n. 184/96.
(23) QUESTURA DI REGGIO CALABRIA, proposta per l'applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale n. 10428/II/M.P., depositata 13 novembre 1996.
(24) PROCEDIMENTO PENALE "OLIMPIA", n. 46/93, DDA. n. 72/94 GIP DDA.
(25) Cfr. TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA, Decreto Mis. Prev. n. 4/98, p. 34 ss.
(26) Il Tribunale di Reggio, Sezione misure di prevenzione, all'esito di un'articolata attività istruttoria, con il decreto citato alla nota che precede, sottopone il Musolino alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di cinque anni, gli impone un regime di prescrizioni e dispone la confisca di tutti i beni in sequestro.
(27) Va ricordato che nell'aprile del 1996 il procedimento di segnalazione delle operazioni sospette comportava la trasmissione "senza ritardo" delle stesse da parte dell'intermediario finanziario "al questore del luogo dell'operazione", il quale ne informava il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza e il Ministero dell'interno (essendo cessate alla data del 31 dicembre 1992 le funzioni dell'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, che la normativa individuava quale co-destinatario delle informazioni trasmesse dai questori).
(28) Nel DECRETO N. 51/96, cit., p. 1, si fa riferimento all'avvenuta estinzione, in data 5 aprile 1996, di due certificati di deposito.
(29) La nota MPS in argomento costituisce il DOC 1490.
(30) Banca d'Italia, Indicazioni operative per la segnalazione di operazioni sospette, Roma 1994.
(31) Prima della fusione per incorporazione gli sportelli del MPS erano della Banca Popolare di Reggio Calabria.
(32) Cfr. DOC 1508, cit., pag.2.
(33) In argomento: BANCA D'ITALIA, nota del 22 aprile 1999 [DOC 1546], pag. 2 dell'allegato.
(34) Ibidem, pag. 1.
(35) L'articolo 2 bis, terzo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 prescrive l'estensione delle indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio, nonché sull'attività economica, nei confronti di persone fisiche e giuridiche del cui patrimonio il soggetto proposto "risulta poter disporre in tutto in parte, direttamente o indirettamente".
(36) V. DI FRESCO - A. DI FRESCO (CONSULENTI DEL PM), Perizia tecnico contabile Musolino Rocco, in DOC 1476, pagg. 40 - 41.
(37) Cfr. TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA, Decreto Mis. Prev. 4/98, cit., p. 11.
(38) Il delitto di cui all'articolo 12 quinquies, l. 7 agosto 1992, n. 356, è punito con la reclusione da due a sei anni e comporta, a sua volta, l'applicazione del regime "particolare" di confisca di cui all'articolo 12 sexies della stessa legge.
(39) Cfr. TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA, Decreto n. 4/98, cit., p. 13 ss. e, in particolare, sub nota n. 21.
(40) Cfr. DOC 1415, all. n. 2.
(41) La GAZZETTA UFFICIALE n. 88 del 16/4/1998, serie generale, parte prima, ha pubblicato (p. 23) il decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1998 di scioglimento del consiglio comunale di Santo Stefano in Aspromonte.
(42) Cfr. L. TASSONE, A. LABATE , B. FEMIA, Relazione ex articolo 2 septies del 14 aprile 1997, p. 7 ss.
(43) Cfr. DOC 1476, p. 33 e ss.
(44) Cfr. TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA, Decreto Mis. Prev. n.4/98, cit., che a p. 22 richiama le conclusioni a cui è pervenuto il dottore commercialista Turiano, secondo cui "Il totale di tutti i redditi prodotti dal 1974 al 1995 della famiglia Musolino al netto dei consumi è pari a L. 18.674.597.876. Tale dato, confrontato con il totale degli investimenti pari a lire 18.239.717.711 evidenzia la capacità da parte della famiglia a costituire il patrimonio di cui oggi dispone".
(45) Cfr. Decreto 4/98, cit., p. 6.
(46) Cfr. Decreto, ult.cit., p. 10 (nota 13).
(47) Idem, p. 11 (nota 16).
(48) TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA, SEZIONE FERIALE (Pres. P. IPPOLITO, Est. C.A. Modestino), 17 agosto 1995 (depositata 21 agosto 1995), in DOC 1476/13.
(49) La relazione della G.d.F richiamata nella motivazione che precede non risulta allo stato agli atti della commissione.
(50) Cfr. DOC 1476.14.
(51) Cfr. DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA, Centro operatiovo di Reggio Calabria Organigramma della famiglia Serraio-Nicolò- Musolino, in DOC 674.14, p. 22 ss.
(52) Cfr. DOC 674.14, cit., pagg. 25-26.
(53) TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA - MISURE DI PREVENZIONE DI PUBBLICA SICUREZZA (Pres. V.MACRÌ, Est. A.V.LOMBARDO), Decreto di applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale a Serraino Francesco n. Reggio Calabria 18 settembre 1929, in DOC 1415, p. 53 ss.
(54) Cfr.TASSONE, LABATE, FEMIA, Relazione ex articolo 2 septies , cit., parte II, p. 36.
(55) Cfr. PROCURE DELLA REPUBBLICA PRESSO I TRIBUNALE DI MESSINA E REGGIO CALABRIA, Verbale di assunzione di informazioni di Marrapodi Pietro, in data 17 giugno 1994, in DOC. 215.01, pagg. 126-128.
Conferma l'elargizione del mutuo, la querela sporta dal magistrato Guido Neri in data 13 ottobre 1994 (in DOC 215.15. p. 1 e ss.).
(56) In argomento cfr. DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA, Gruppo di lavoro procedimento penale n. 155/95 Rgnr DDA Messina, in DOC 1853.
(57) "Coordinamento" e "direzione" dell'associazione mafiosa vengono contestati al Musolino, con l'imputazione del reato previsto e punito dall'articolo416 bis, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del codice penale, per essersi associato con altri noti 'ndranghetisti "costituendo una struttura armata di tipo mafioso denominata «COSCA SERRAINO», che sprigionava forza intimidatrice di cui i singoli accoliti si avvalevano per la perpetrazione degli obiettivi illeciti del sodalizio sfruttando la condizione di assoggettamento delle vittime delle azioni criminose e di omertà dei terzi, ciò per acquisire indebitamente, in modo diretto e/o indiretto, la gestione o comunque il controllo delle principali attività economiche, delle concessioni, degli appalti pubblici, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti nella zona di propria competenza e territori viciniori; finanziando l'organizzazione con i proventi illeciti di gravissimi delitti contro il patrimonio tra cui estorsioni, rapine, ricettazioni, ovvero ricorrendo al commercio di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti; acquisendo la disponibilità di armi da guerra e comuni attraverso importazioni anche estere; realizzando, così, una forza militare impegnata a pieno titolo allo scontro sanguinario della «seconda guerra di mafia» in contrapposizione allo schieramento destefaniano, partecipando, perciò, alla ideazione, programmazione ed esecuzione di numerosi fatti di sangue di cui al cennato scontro e meglio descritti nei capi della rubrica contrassegnati dalla lettera B).
Con l'aggravante per SERRAINO Paolo di aver promosso e diretto l'associazione; per DENISI Sebastiano, MUSOLINO Rocco, NICOLÒ Antonino, NICOLÒ Sebastiano, SERRAINO Domenico (classe 1945), SERRAINO Domenico (classe 1955), SERRAINO Filippo, SERRAINO Francesco, SERRAINO Lorenzo e SERRAINO Lorenzo di averla coordinata e diretta.
In località Cardeto - Gambarie - Santo Stefano d'Aspromonte (RC), sede dell'organizzazione, e territori viciniori, a partire da epoca imprecisata - comunque anteriore al 13/1/1986 - e successivamente".
(58) Di seguito si riporta la motivazione della sentenza nella parte relativa al Musolino: "Dalla deposizione del verbalizzante De Marco Francesco alla udienza del 15.12.97 emerge a suo carico quanto segue : " PUBBLICO MINISTERO - Passiamo a Musolino Rocco, classe 1927. - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Musolino Rocco, nato a Santo Stefano d'Aspromonte l'1/3/1927. È stato coinvolto nella vicenda relativa all'omicidio di Giorgio De Stefano, che lo vide imputato insieme a Serraino Francesco, Piromalli Giuseppe e Saraceno Vincenzo. È stato vice - sindaco del comune di Santo Stefano d'Aspromonte. - PRESIDENTE - Chiedo scusa, Maresciallo. Il Suo nome di battesimo, per il verbale. - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Francesco... De Marco Francesco. - PRESIDENTE - Francesco. Prego. - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Il 23/12/1953, assolto per amnistia dal Pretore di Villa San Giovanni per ingiurie, percosse e danneggiamento. Il 10/3/1957, denunziato dalla Stazione dei Carabinieri di Santo Stefano d'Aspromonte per lesioni e rissa. Il 28/8/1978, arrestato dalla locale Squadra Mobile, unitamente a Serraino Francesco, classe 1929, Piromalli Giuseppe, classe 1921, in esecuzione di ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria per concorso in omicidio in pregiudizio di giorno De Stefano e tentato omicidio in pregiudizio di Saraceno Vincenzo, nonché porto abusivo di armi e munizioni; il provvedimento viene poi revocato dal Giudice Istruttore presso il Tribunale di Reggio Calabria, il 16/9/1978. Misure di prevenzione: il 16/3/1976, irrogata la misura di prevenzione della diffida di P.S. dal Questore di Reggio Calabria, successivamente revocata il 24/10/1976. Il 30/10/1978, irrogata la misura di prevenzione della diffida di P.S. dal Questore di Reggio Calabria, poi revocata in data 13/11/1979, con decreto del TAR di Reggio Calabria. - PUBBLICO MINISTERO - Senta, ma mi sembra che erano emerse altre circostanze che Lei non ha riferito sul conto di questa persona. Ad esempio... - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Riguarda la... una nota in data 14/11/1976. Allora... sì. In una nota redatta nei suoi confronti in data 14/11/1976 dal Nucleo Operativo dei Carabinieri della Compagnia di Villa San Giovanni, diretta alla Questura di Reggio Calabria, viene segnalato che il medesimo era titolare, unitamente ai pregiudicati Gioffrè Francesco Antonio, nato a Sinopoli il 20/1/1921, inteso "Brachetta", ed altro noto don Ciccio Serraino, inteso "Re della montagna", poi trucidati nel corso della guerra di mafia, di una impresa boschiva operante in quasi tutta la provincia di Reggio Calabria, che riforniva anche industrie siciliane e cosentine. - PUBBLICO MINISTERO - Poi una...della partecipazione di un matrimonio in Sicilia. - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Allora, nella nota viene evidenziato come la florida attività commerciale di detta azienda fosse agevolata proprio dalla fama di uomini di rispetto dei suoi componenti; d'altronde... - PUBBLICO MINISTERO - Vabbè, ma queste non... sono considerazioni. Dico... - INTERROGATO (DE MARCO FRANCESCO) - Ah no. Vabbè. Diciamo, tale situazione trova anche un riscontro nell'accertata sua partecipazione insieme ad altri personaggi a Nicosia, Enna, nel 1986, al matrimonio di Lagilla Simeone, Ispettore del Corpo della Forestale di Stato, già in servizio a Reggio Calabria, poi tratto in arresto nel quadro delle indagini condotte negli ultimi anni sul settore della forestazione. A detta cerimonia, erano presenti anche esponenti politici locali, quali l'assessore regionale alla forestazione Giovanni Palamara ed altri. Viene anche appurato che Musolino pernotta nella cittadina siciliana unitamente al noto leader mafioso Nirta Antonino, classe 1919, da San Luca".
Dal certificato generale del casellario giudiziario emerge una condanna definitiva per interesse privato in atti d'ufficio commesso in data 13.10.86.
Il collaboratore Lauro nel corso delle dichiarazioni rese al PM in data 18.2.94 lo indica come capo di una famiglia mafiosa operante in Santo Stefano D'Aspromonte e collegata ai Serraino :
" ...omissis... Così allo schieramento condelliano aderirono le famiglie...omissis...MUSOLINO (capeggiata da Rocco);""
.... omissis ....

""Il territorio su cui esercitavano il controllo le sopracitate cosche mafiose...omissis...è il seguente:...omissis...il gruppo di MUSOLINO Rocco, collegato anche ai SERRAINO, a Santo Stefano D'Aspromone;""
.... omissis ....
""Del clan capeggiato da MUSOLINO Rocco conosco solo il predetto, che è stato vice sindaco del Comune di Santo Stefano D'Aspromonte e cognato di quel SURACE scomparso.""
Lo stesso Lauro
nel corso delle dichiarazioni rese al PM in data 20.12.94 ne tratteggia i rapporti pregressi con i deceduti Francesco Serraino e Gioffrè Francesco Antonio :
"Riconosco nella foto contrassegnata dal numero 3/H Rocco MUSOLINO, cognato di quel Giuseppe SURACE ucciso dai DE STEFANO dopo avere ammazzato Giorgio DE STEFANO. Il MUSOLINO costituiva, unitamente a Francesco SERRAINO e a GIOFFRÈ Francesco detto "brachetta" il trio che comandava incontrastato la "montagna", e cioè tutto l'Aspromonte, dal versante jonico a quello tirrenico. Il loro grado in seno alla 'ndrangheta era quello di "saggi" e ciò comportava che nessuna decisione importante potesse essere assunta senza il loro consenso. Questi personaggi erano legati da inquietanti rapporti con personalità eccellenti esponenti delle istituzioni...omissis".
Il collaboratore Barreca Filippo alla udienza del 3.10.97, confermando i detti di Lauro, evidenzia la personalità mafiosa del Musolino risalente sin dai tempi in cui erano ancora in vita Francesco Serraino e il Gioffrè e ne mette in risalto l'amicizia con Santo Araniti: ("PUBBLICO MINISTERO - Lei conosce Musolino Rocco del '27? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Musolino Rocco era il personaggio di cui ho detto poco fa.. e.. personaggio molto.. importante all'interno della 'ndrangheta.. era un capo carismatico ed era un personaggio che aveva rapporto col mondo istituzionale... e in poche parole, era un grosso massone che per conto, diciamo .. e per quello che a me risulta, che più volte Araniti mi ha.. ribadito e.. era il personaggio chiave del mondo politico e del mondo istituzionale.. cioè si rivolgevano a lui tutti per.. uhm.. per il .. come dire.. l'aggiustamento dei processi, per quanto riguarda, diciamo.. tutto quello c he era .. ed è il famoso cognato di quel Surace, che uccise Giorgio De Stefano nel.. riunione che si era tenuto presso.. diciamo Santo Stefano. - PUBBLICO MINISTERO - Lei lo conosce? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Si, lo conosco personalmente... - PUBBLICO MINISTERO - Quando lo ha conosciuto? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Ripeto, lo conosco dal 1970 - '71.. '72... ecco.. il periodo ora non me lo ricordo.. '73.. può darsi.. pure.. era il '73.. ma non credo.. perché io mi ricordo che ero.. giovane.. avevo ventiquattro o venticinque anni.. quindi.. ventitré.. ventiquattro.. ora non me lo ricordo particolarmente.. So che è venuto a casa mia, ripeto per perorare la causa di una figlia di un maresciallo delle Guardie Forestali.. co.. ragazza che con me usciva sin.. diciamo.. siccome era ragazza.. aveva sedici anni.. e.. il.. lo stesso .. sia Rocco Musolino che.. Ciccio Serraino, erano venuti da me.. dice "compare, lasciatela stare, è una ragazza. Siccome il padre ci occorre a noi per.. ci interessa perché è un maresciallo della Guardia Forestale - dice - se cortesemente voi la potete lasciare stare". Io chiaramente aderì a questa cosa, tant'è che poi questa ragazza, non solo .. non si mise più con me perché io l'abbandonai e si è messa con mio cugino Filippo.. altro dramma poi, perché poi son tornati.. sono ritornati e.. chiaramente.. vedevano 'sta.. siccome era un po'.. come dire.. un po' leggera.. fatto sta che il padre.. perché tornava tardi a casa, eccetera... c'era stato tutto un caos.. fatto sta che so che poi si era messa con mio cugino Filippo e che quindi poi sono dovuto intervenire anche con lui per fare in modo che la lasciasse in pace.. perché gli interessava ad amici nostri.. e quindi.. diciamo.. la cosa poi è finita lì.. Tant'è che c'era a quell'epoca.. pure Giovanni De Stefano e io gliel'aveva presentato pure Giovanni.. quindi è stato '73 - '74.. voglio dire.. questo era il periodo.. pure forse il '75.. Gliela presentai a Giovanni De Stefano, che usciva con lui.. eccetera.. Poi a un certo punto gli ho detto "compare Gianni, vedete che è venuto da me .. Ciccio Serraino e Rocco Musolino e mi hanno detto di lasciare questa ragazza ".. conclusione.. 'sta ragazza è stata lasciata in pace, in poche parole.. come.. - PUBBLICO MINISTERO - Senta, le risultano rapporti tra il Musolino e Araniti Santo? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Mi risultano rapporti tra
Musolino e Araniti Santo .. diciamo.. da.. si.. sono rapporti che avevano privilegiati tra Araniti Santo e Rocco Musolino.. sin... uhm.. dai tempi, diciamo.. dello scoppio della prima guerra di mafia.. e... Era un personaggio molto importante Rocco Musolino e lo è.. - PUBBLICO MINISTERO - Questi rapporti con Araniti Santo come le risultano? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Ma.. me lo diceva lo stesso Araniti.. addirittura io so che si interessò lui per quanto riguarda... la vicenda del.. processo Droga 2, si interessò per.. fare in modo che la vicenda fosse un po' addolcita... - PUBBLICO MINISTERO - Che tipo di rapporti avevano con Araniti Santo? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Ma erano rapporti strettissimi.. anche col cugino.. che era un massone pure lui.. Pietro Araniti .. so che c'erano dei rapporti intimi e privilegiati c
onorevole. con... gli Araniti Santo.. con tutti.. voglio dire... e Araniti Santo non bisogna dimenticare che era un grosso appaltatore.. cioè a nome.. avevano una società che doveva appaltare i lavori per quanto riguarda, diciamo il.. e.. hanno fatto svariate costruzioni.. e in queste società.. Poi sono state vendute per il tramite di.. del cugino Pietro, sono stati vendute al Ministero del Tesoro a un prezzo, diciamo, esoso.. cioè più di quello che era il valore loro... e.. So che in questo contesto si interessò pure da Rocco Musolino per le vendite della.. diciamo.. di questi beni che loro avevano con la società.. che si chiamava.. diciamo.. la società che aveva Araniti Santo si chiamava .. e.. "A e B" ... e cioè.. in poche parole era.. Araniti, Bellantone e un altro.. "A, B, C".. e C, che era un altro.. che in questo momento non so.. meglio... dire.. comunque la società di cui parlo era l'"A, B, C" che voleva intendere Araniti, Bellantone Cosimo e.. l'altro era.. un altro.. un cugino pure di Araniti ma che gestiva lui.. diciamo.. la.. questione di tutti gli appalti e di tutte le opere che si dovevano effettuare nel.. nella provincia... - PUBBLICO MINISTERO - Senta, e qual era il ruolo di Musolino all'interno del gruppo? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Musolino, come dicevo, è un ruolo di primissimo piano.. era.. molto vicino al gruppo dei Serraino. Intanto era... e.. un personaggio che.. è stato molto vicino al.. Valanidi.. per.. ragioni che chiaramente .. anche sul problema degli appalti.. dei.. de.. della vicinanza col gruppo dei Serraino. Perché Araniti Santo da quando.. diciamo da sempre, è stato molto vicino al gruppo di Ciccio Serraino.. assieme al cugino, come dicevo, Pietro... per tut.. per quanto riguarda il.. discorso dei rapporti tra Araniti e.. e.. Musolino.. mi risultano a me personalmente proprio in svariate occasioni.. e.. so che c'era un rapporto privilegiato.. conorevole. il gruppo di Araniti.. - PUBBLICO MINISTERO - Ma è in condizioni di meglio specificare il ruolo del Musolino all'interno del gruppo Serraino? - INTERROGATO ( BARRECA FILIPPO) - Ma guardi, senza dubbio era un ruolo di primo piano, nel senso che, pur essendo neutrale anche lui come Araniti alla individuazione.. diciamo.. alla.. non era schierato apertamente ma sotto sotto certamente era schierato con il gruppo dei Serraino. Proprio per quella triade di cui ho detto che erano lui, Cicc' ntoni Brachetta.. ucciso sempre dai Tegano nel conflitto della guerra di mafia .. e.. il.. gruppo a cui faceva capo.. diciamo.. Cicc' ntoni Brachetta.. Rocco Musolino e.. Rocco.. e... Ciccio Serraino.. questa era la triade che comandava, diciamo, tutta la zona aspromontana... e conorevole..").
La collaboratrice di giustizia Di Iovine Santa Margherita alla udienza del 28.10.97 , sia pure su contestazione del PM ( non ricordando la donna il ruolo "preciso" del Musolino all'interno del gruppo Serraino nel quale pure lo inquadra, citando episodi di antica frequentazione con il defunto Francesco Serraino) , lo definisce una specie di "testa pensante" o "consigliori" del gruppo Serraino della "montagna" : ("PUBBLICO MINISTERO - Ho capito. Lei conosce Musolino Rocco? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Non ho capito, mi scusi. - PUBBLICO MINISTERO - Conosce Musolino Rocco? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Ecco, vuole riferire alla Corte in che modo lo conosce? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Quando io abitavo in Mac Mouw (??), lui è venuto a casa mia a pranzo.. cioè a cena, a pranzo, a mangiare con mio zio Domenico, perché lavoravano insieme con un camion di.. di formaggio, di latte, adesso non mi viene in mente il camion cos'era, dalla Parlamat. - PUBBLICO MINISTERO - Quando Lei abitava dove? Scusi, non ho capito. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - In Via Mac Mouw. - PUBBLICO MINISTERO - Sì. Quando si è verificato questo incontro? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Adesso non mi ricordo precisamente la data.. l'anno, so che era molto prima che io venissi arrestata, prima che.. molti anni prima, ecco. - PUBBLICO MINISTERO - E venne a pranzo.. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Adesso non mi ricordo dove.. (incomprensibile per voci sovrapposte!) - PUBBLICO MINISTERO - ..A casa Sua? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Non ho capito. - PUBBLICO MINISTERO - Venne a pranzo a casa Sua? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì, venne.. veniva parecchie volte con mio zio è venuto, ecco. - PUBBLICO MINISTERO - Con Suo zio, quale? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Domenico. - PUBBLICO MINISTERO - Quindi c'erano dei rapporti tra Suo zio e il Musolino Rocco? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Che tipo di rapporti c'erano? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Rapporti di lavoro. - PUBBLICO MINISTERO - Ma erano soltanto rapporti di lavoro? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Penso di no, dottore. Poi l'ho visto una volta, se non erro, se.. a casa di mio cugino.. - PUBBLICO MINISTERO - Ma, un attimo, parliamo di questo incontro. Quindi venne a pranzo a casa Sua, con Suo cugino.. conorevole. con Suo zio, voglio dire. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Ora: e per quale motivo lo portava a casa Sua a pranzo? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Mi scusi.. - PUBBLICO MINISTERO - C'è una ragione particolare? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Mi scusi, non riesco a capirLa. - PUBBLICO MINISTERO - Dico, c'era una ragione particolare? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - No, no, mio zio veniva spesso a trovarci, con suo figlio, con Mimmo, con lui, quando veniva là a Milano, ma.. qui si parla ancora prima che iniziasse la guerra. - PUBBLICO MINISTERO - Sì. Ora, io Le chiedo: quando conobbe, per la prima volta, il Musolino? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Se la memoria non mi inganna, l'ho conosciuto quando siamo andati alla festa della Madonna della Montagna, con mia madre e la mia famiglia, l'ho conosciuto a casa di mio cugino Ciccio della montagna. - PUBBLICO MINISTERO - Sì. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Lì ho conosciuto Musolino la prima volta. - PUBBLICO MINISTERO - E chi glielo presentò? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Lì, mio... mio cugino e i miei parenti che erano lì. - PUBBLICO MINISTERO - E vi siete soltanto limitati alle presentazioni, oppure Lei ebbe modo di frequentarlo quella giornata? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - No, no, io dopo sono andata via, cioè non son rimasta lì, sono andata via ecco, ci siamo presentati e basta. - PUBBLICO MINISTERO - Lei, in quel verbale, ha dichiarato: "Poiché non ci vedevamo da molto tempo, ci invitò" il Ciccio Serraino sempre no?, "ad andare presso la sua abitazione".. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - È vero? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì, è vero. - PUBBLICO MINISTERO - E il Musolino venne anche lui? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Era lì già lui. - PUBBLICO MINISTERO - Ah, quindi l'avete incontrato.. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Se mi ricordo bene, dottore, perché sa, gli anni son passati, adesso nonorevole. non posso ricordarmi precisamente.. so che quello che ho detto prima è giusto. - PUBBLICO MINISTERO - Quindi Lei, praticamente, lo ha conosciuto a casa di Ciccio Serraino? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Quel giorno. Ho capito. Senta, ma nessuno dei Suoi familiari Le disse se questo Musolino aveva un ruolo all'interno del loro gruppo? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Che mi risulta sì, un ruolo ce l'aveva sicuramente, ma adesso non mi ricordo se me l'hanno detto o meno, ecco. - PUBBLICO MINISTERO - Suo zio Domenico venne ucciso, giusto? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - E Le risultano rapporti tra Suo zio Domenico e il Musolino Rocco? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì, mi risultano. - PUBBLICO MINISTERO - Ricorda... - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Rapporti di lavoro. - PUBBLICO MINISTERO - Le parlò mai di questa persona? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - In casa si parlava sempre di questa persona. Anche le figlie andavano a casa di mia zia. - PUBBLICO MINISTERO - Lei ha dichiarato che Suo.. questo Suo zio aveva una sorta di venerazione per il Musolino.. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Me lo conferma? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì, sì, lo confermo. - PUBBLICO MINISTERO - Addirittura, Lei ha dichiarato: "Praticamente, qualunque decisione che interessava il suo gruppo, la sottoponeva senza eccezioni di sorta a quest'uomo". - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Quindi c'era un rapporto proprio di.. quasi sudditanza fra i due? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Ma andavano... lui... andavano d'accordo, cioè mio zio era proprio attaccato morbosamente a questo uomo qui. Qualsiasi cosa, decisione doveva prendere, chiedeva consiglio. - PUBBLICO MINISTERO - Ma Lei.. - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Andava da lui a parlare, ecco. - PUBBLICO MINISTERO - Poi Lei ha dichiarato: "Il Musolino era parte integrante del gruppo Serraino della montagna". - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Lo conferma? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - Ecco, e come fa Lei ad affermare questo? Come ha avuto modo di.. di sapere che era inserito nel gruppo dei Serraino della montagna? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Perché dottore, in cosa, ogni piccolezza, se ne discuteva ecco. - PUBBLICO MINISTERO - Le risulta se il Musolino Rocco abbia mai finanziato i Suoi parenti nella guerra di mafia? O in epoca antecedente? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Dottore, mi dispiace, non mi ricordo adesso precisamente. Può essere sì, ma adesso non mi ricordo, guardi. - PUBBLICO MINISTERO - Perché Lei ha dichiarato: "Mio zio Domenico mi disse che il Musolino si metteva totalmente a disposizione per qualunque cosa lui gli chiedesse". - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sì. - PUBBLICO MINISTERO - "Era un fondamentale punto di riferimento per il recupero di cospicue somme di denaro, da impiegare nelle varie attività della cosca": lo conferma? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Lo confermo, dottore. - PUBBLICO MINISTERO - E Lei è a conoscenza di episodi specifici, che comprovino questa affermazione? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Può darsi che sia a conoscenza, però non mi.. adesso, in questo momento proprio.. - PUBBLICO MINISTERO - Lei ha conosciuto tale Gioffrè? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Sono passati tanti anni pure!... Non ho capito. - PUBBLICO MINISTERO - Ha conosciuto tale Gioffrè? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Il cognome non mi dice niente. Cioè il.. la... la.. - PUBBLICO MINISTERO - Vabbè, una sola.. una persona soprannominata "Braghetta"? - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Mi sembra di no. Non ne son sicura. - PUBBLICO MINISTERO - Lei ha dichiarato che Musolino, insieme a questo Gioffré detto "Braghetta", erano chiamati i due "I professori". - INTERROGATO (DI GIOVINE SANTA MARGHERITA) - Ah, il professore sì, l'ho conosciuto").

Alle udienze del 16.4.98, 17.4.98, 21.4.98, 28.4.98, 7.5.98, 28.5.98 sono sfilati innanzi a questa Corte diversi testi dalla cui deposizione la difesa trae argomenti a favore della inesistenza della situazione di monopolio "mafioso" del commercio di legname in Gambarie a favore del Musolino (il suo commercialista , sin dal 1973 sino al 1994, Palermiti Carmelo ; Versace Stefano proprietario di terreni che ha venduto il legname -dagli stessi terreni prodotto- al Musolino senza evidenziare alcuna pressione ; il Comandante la Stazione dei CC di Santo Stefano D'Aspromonte dal '76 all"83, Formica Francesco, il quale ha sottolineato che in quel periodo la condotta del Musolino non aveva dato luogo a segnalazioni di sorta ; il Comandante la Stazione dei CC di Santo Stefano D'Aspromonte dal '85 all'95, Saraò Stefano, il quale ha reso deposizione simile a quelle del collega Formica ; il Comandante la Stazione dei CC di Santo Stefano D'Aspromonte dal '85 all'87, Tripepi Antonino, il quale ha reso deposizione simile a quelle degli altri sottufficiali dell'Arma; i commercianti nel settore dell'industria boschiva Reitano Pietro, Zoccali Domenico e Zoccali Rocco, operanti nel comprensorio del Comune di Santo Stefano D'Aspromonte o nei paraggi, i quali hanno tutti sottolineato di non aver ricevuto alcuna intimidazione o pressione di sorta da parte del Musolino.
Giova sul punto precisare che nessuno dei collaboratori escussi sul ruolo del Musolino Rocco ha mai affermato che l'imputato praticasse estorsioni in danno dei commercianti del settore boschivo della zona di Santo Stefano D'Aspromonte essendosi limitati a dire che lui ( anche in virtù dei rapporti con il defunto Francesco Serraino, confermati dalla deposizione della Di Iovine Santa Margherita) era un grosso industriale del legno ( donde l'appellativo di re della "montagna"). Che poi enorme fosse il volume d'affari sviluppato dall'attività del Musolino è un dato di fatto obiettivo che risulta dalle stesse deposizioni dei testi della difesa ( cfr deposizione del commercialista Palermiti il quale fa riferimento ad un fatturato salito dai 300 milioni dei primi anni 70 sino al miliardo alla fine degli anni 80) , mentre sempre modesta appare l'entità del fatturato degli altri imprenditori (cfr. deposizione di Zoccali Domenico che si attribuisce "lavoretti di poco" e quella di Zoccali Rocco che riferisce di un volume d'affari annuo di poche decine di milioni).
Per quanto concerne il contenuto delle deposizioni dei sottufficiali dell'Arma che si sono succeduti al comando della Stazione di Santo Stefano D'Aspromonte stonata rispetto al loro contenuto appare la nota - citata dal verbalizzante De Marco Francesco alla udienza del 15.12.97 nell'elencare la biografia giudiziaria dell'imputato - redatta in data 14/11/1976 dal Nucleo Operativo dei Carabinieri della Compagnia di Villa San Giovanni, diretta alla Questura di Reggio Calabria, e con la quale viene segnalato che il Musolino era titolare - unitamente ai pregiudicati Gioffrè Francesco Antonio, nato a Sinopoli il 20/1/1921, inteso "Brachetta", ed altro noto don Ciccio Serraino, inteso "Re della montagna" (ndr. entrambi poi trucidati nel corso della guerra di mafia) - di una impresa boschiva operante in quasi tutta la provincia di Reggio Calabria, che riforniva anche industrie siciliane e cosentine. Con questo non si vuol certo dire che essi abbiano deposto il falso ma che appare singolare che già dall'anno 1976 il Musolino fosse stato "attenzionato" dai vertici dell'Arma di Villa San Giovanni ( nel cui circondario rientra Santo Stefano D'Aspromonte) per le sue amicizie e frequentazioni d'affari "pericolose" senza che alla locale Stazione ne sapessero nulla.
Evidentemente il Musolino appariva ciò che non era agli occhi dei vari sottufficiali succedutisi al comando della stazione di Santo Stefano per il suo modo di agire che non lo caratterizzava apertamente come il tipico mafioso (del resto egli è stato descritto come la testa pensante del gruppo Serraino, alieno dunque da quei comportamenti caratteriali che connotano il mafioso incolto e violento ).
Giova peraltro evidenziare come l'esistenza di intensi rapporti economici di affari tra i tre (il Musolino, il Serraino Francesco e il Gioffrè Francescantonio ) sono confermati dalle dichiarazioni rese da questi ultimi due (ora defunti per morte violenta) in tempi non sospetti ed acquisite al dibattimento alla udienza del 23.4.98 (cfr cartella 236 vol 5) a seguito di produzione del PM effettuata alla udienza del 17.4.98. Il Serraino venne sentito dal PM di RC in data 22.12.1970 e in quella sede ha affermato che nella commercializzazione del prodotto derivante dal taglio di alberi effettuato nella qualità di imprenditore boschivo "...interessavo il mio socio Musolino Rocco. Altri soci sono Gioffrè Francescantonio e Italiano Giuseppe. Io e Musolino siamo soci fissi mentre il Gioffrè ed Italiano partecipano spesso alle nostre operazioni commerciali." ; il Gioffrè, sentito dalla Commissariato di Palmi in data 15.9.83, ha confermato che esplicava l'attività di industriale boschivo e che la legna per svolgere detta attività era acquistata dal Musolino Rocco, intestatario della ditta).
Ulteriore tassello del mosaico accusatorio è costituito dalla illegittima provenienza dell'impero economico facente capo al Musolino Rocco dichiarata dal Tribunale di Reggio Calabria -Sezione Misure di Prevenzione con il decreto , sia pure non definitivo, con il quale in data 29.1.98 è stata applicata la misura della Sorveglianza Speciale per la durata di anni 5 ed è stata disposta la confisca del suo patrimono già sottoposto a sequestro ( il relativo provvedimento è stato acquisito su produzione del PM alla udienza del 19.5.98 , cfr cartella 244 vol. 1).
Per quanto concerne, poi, l'accusa rivolta al Musolino di essere stato uno dei mandanti dell'omicidio di Giorgio De Stefano ( fratello di Paolo De Stefano e cugino dell'attuale imputato omonimo avv. Giorgio De Stefano ucciso in Contrada Acqua del Gallo, località aspromontana vicina a Gambarie, nel lontano novembre dell'anno 1977) sono acquisite in atti ( su produzione del PM) sia la sentenza di condanna all'ergastolo emessa da altra Corte di Assise in data 24.2.98 sia il solo dispositivo della pronunzia di assoluzione della Corte di Assise di Appello di RC in data 5.1.99, depositata dalla difesa in Cancelleria in data 7.1.99.
Trattasi pertanto di pronunzia non definitiva essendo pendente il termine per proporre ricorso per cassazione da parte della pubblica accusa .
In ogni caso la vicenda dell'omicidio (che in questo processo concerne gli imputati Mammoliti Antonino e Nirta Antonio iunior, cfr. cap A4) pur potendo avere una ripercussione sulla posizione associativa del Musolino , anche in considerazione del presunto movente dell'assassinio ipotizzato dall'accusa ( l'insofferenza che già verso la fine degli anni 70' maturava negli ambienti della 'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria verso lo strapotere del clan De Stefano), non appare assolutamente indispensabile ai fini dell'accertamento del ruolo del Musolino in seno al clan Serraino.
Dalle concordi dichiarazioni dei collaboratori Lauro, Barreca e Di Iovine Margherita - l'una riscontrante le altre - emerge in modo indubbio il ruolo del Musolino quale "testa pensante" del clan Serraino e dunque sussiste anche l'aggravante contestata di coordinatore e dirigente del gruppo . Pena equa - valutati i criteri direttivi di cui all'articolo 133 CP ed in particolare da un lato il ruolo di "consigliori " svolto, e dall'altro la mancata partecipazione a fatti di sangue , neppure contestati - stimasi quella di anni 6 di reclusione".
(59) Il dottor Giovanni Montera, Presidente Aggiunto Onorario della Corte di Cassazione, nell'imminenza dell'approvazione della Relazione, ha inviato alla Commissione parlamentare Antimafia alcune lettere che illustrano la posizione del magistrato sui punti della relazione che lo riguardano.
La Commissione, pur deplorando la circostanza della diffusione e della conseguente conoscenza, da parte del dottor Montera, di un atto riservato, quale è la relazione in fase di discussione da parte di una Commissione di inchiesta parlamentare, ha accolto la proposta del relatore di rendere in gran parte pubblica la lettera pervenuta il 29 giugno 2000, nonostante alcuni passaggi della stessa contengano affermazioni e toni non condivisibili. Ciò è apparso opportuno in quanto la Commissione ha ritenuto di non accogliere, a motivo dello stato avanzato dei lavori relativi all'esame della relazione, la richiesta di audizione contestualmente avanzata dal dottor Montera.
La Commissione ha, altresì, ritenuto di non pubblicare le lettere successive, sia in considerazione della presenza di apprezzamenti critici che appaiono lesivi della onorabilità di terzi sia per il fatto che esse, sostanzialmente, nulla aggiungono al contenuto della prima lettera. Il testo è il seguente: "Sono venuto a conoscenza, anche per via di indiscrezioni giornalistiche, che presso codesta on. Commissione parlamentare è in corso di esame e di approvazione una bozza di relazione, riguardante lo stato del coinvolgimento di uomini delle istituzioni con il sottobosco mafioso, che mi riguarderebbe direttamente con grave lesione della mia immagine e reputazione. Si tratterebbe per la maggior parte del riciclaggio di vecchie calunnie e diffamazioni che, in un recente passato "il ben noto notaio Pietro Marrapodi" ha ritenuto di rivolgere contro la mia persona, e contro quella di altri magistrati, su ispirazione e chiara strumentalizzazione di altri, anch'essi "ben noti", magistrati. Quel che tuttavia rappresenta oggi una grave ed inammissibile novità è non solo il fatto che le calunnie e le diffamazioni possano essere riprese in una sede così autorevole, qual è certamente la Commissione da Lei presieduta, ma che le stesse verrebbero dalla bozza predisposta dal sen. Figurelli presentate in una luce insidiosa, in una logica distorta e manipolatoria della verità se non addirittura con il sostegno di fatti e circostanze non rispondenti al vero. Eppure, delle "responsabilità" di magistrati nelle fantasiose esternazioni del notaio Marrapodi si erano largamente occupati sia l'ispettore del Ministero di Grazie e giustizia, dottor Vincenzo Nardi, sia il Ministro di Grazia e giustizia dell'epoca, on. Filippo Mancuso, che aveva addirittura azionato la procedura disciplinare nei confronti di due magistrati operanti nel reggino. Ma la bozza di relazione ignora tutto ciò e riporta invece ignobili pettegolezzi sviluppati da magistrati "ascoltati" da codesta on. Commissione.
Non credo, onorevole Presidente, che sia questa la sede più opportuna perché mi intrattenga sui particolari, ma è certamente mio diritto chiedere di essere ascoltato, prima che la bozza sia ulteriormente discussa ed eventualmente approvata. Il sostanziale attacco che oggi mi si muove in maniera del tutto inopinata è chiaramente il frutto di un abile assemblaggio - ripeto - di diffamazione, di calunnie, di pettegolezzi che ho già sufficientemente confutato nelle opportune sedi, ma che vedo nel documento in questione riproposte per finalità che allo stato mi sfuggono. Comunque, di tutto quello che il defunto per autoimpiccaggione Marrapodi ha, purtroppo impunemente, gettato sulla mia persona - atteso che la risposta "penale" gestita allora dal dottor (omissis), Sostituto Procuratore (omissis),"ospite" per più mesi delle patrie galere sotto l'accusa, fra l'altro, di essere un associato di stampo mafioso, come già in passato lo era stato il Marrapodi, ha tardato purtroppo a giungere in tempo per l'inaspettato esito mortale dello stesso Marrapodi (che tuttavia in tal modo ha evitato di essere raggiunto dalle prevedibili condanne dopo i numerosi rinvii a giudizio, appunto, per calunnie e diffamazioni ai miei danni, ed anche di altri magistrati) - oggi non è residuato che l'archiviazione della procedura ex articolo 2 legge sulle guarentigie disposta nei miei confronti dal CSM (ed anche a tal proposito il riferimento che sarebbe contenuto nella bozza è "falso per omissione"), nonché la declaratoria di non luogo a procedere per l'insussistenza dei fatti addebitati pronunciata dalla Sezione Disciplinare, sempre del CSM (e, mi consenta, onorevole Presidente, anche sul punto il documento distorcerebbe il senso della pronuncia e l'approfondimento dei fatti compiuto dalla Procura generale della Corte di Cassazione, con richiesta a firma congiunta - si badi - sia dell'avvocato generale che del Procuratore generale dell'epoca).
Quanto, infine, dopo circa un anno ho chiesto di essere collocato a riposo per ragioni familiari e di salute (circostanza, anche questa, che sarebbe presentata sempre in maniera distorta ed insidiosa), ho ottenuto, - previa come è noto positiva valutazione discrezionale della mia quarantennale attività professionale - il riconoscimento del grado superiore a quello ricoperto e cioè l'attribuzione del titolo onorifico di Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, nonché da parte della Presidenza della Repubblica - con decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio D'Alema - del titolo, altrettanto onorifico, di Grande Ufficiale della Repubblica.
Ritengo, pertanto, on. Presidente, di avere acquisito "titoli" sufficienti per poter chiedere, quanto meno, di essere ascoltato da codesta onorevole Commissione; presso la quale in passato ho avuto l'onore di svolgere, in qualità di esperto perfettamente legittimato sia sul piano morale che sul piano professionale, alcune considerazioni e suggerimenti sullo stato dell'allora normativa relativa al contrasto della criminalità mafiosa per mezzo della via patrimoniale.
Oggi, invece, mi trovo sostanzialmente nella veste di "imputato", tuttavia senza processo né contraddittorio: il che, com'è chiaro, cozza violentemente non solo contro ogni elementare principio di diritto, ma oblitera del tutto la recente normativa che ha portato, fra l'altro, all'innovazione dell'articolo 111 della Carta Costituzionale. Da qui, la mia richiesta di audizione, anche perché contro l'eventuale approvazione della bozza in discussione mi vedrei precluso ogni possibile rimedio.
Invero, se in passato contro una quasi analoga iniziativa di un gruppo di lavoro del CSM, che aveva impunemente raccolto le esternazioni del solito Marrapodi, ho potuto avere soddisfazione dalla sentenza del TAR Lazio del 29.03.2000, n. 2488/2000, dopo una favorevole sospensiva, divenuta oggi definitiva, della pubblicizzazione della bozza di risoluzione riguardante anche altri magistrati, oggi - on. Presidente - non posso che "appellarmi" se non alla Sua elevata coscienza ed a quella, altrettanto elevata, del suoi onorevoli colleghi. In fiduciosa attesa, porgo distinti ossequi.
Firmato: Giovanni Montera".
(60) Tribunale di Messina, Ufficio del giudice per le indagini preliminari (Gip A. Vitanza), Decreto di archiviazione nel procedimento penale n. 155/95 Rgn.
(61) Il Gip richiama sul punto il verbale delle dichiarazioni rese dal Lauro il 15 marzo 1995.
(62) Il testo integrale del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1998 di scioglimento del consiglio comunale di Santo Stefano in Aspromonte, è in Gazzetta Ufficiale N. 88 Serie Generale Parte Prima del 16/4/1998 p. 23.
(63) Il Gip Vitanza evidenzia che il Musolino è stato intestatario di più autovetture Mercedes (Decreto, cit., p. 28).
(64) Già nel novembre del 1975, il commissariato di pubblica sicurezza di Villa San Giovanni aveva evidenziato che Francesco Serraino, socio di Rocco Musolino, era risultato "implicato nel sequestro del professor Caminiti, anche se appariva di aver svolto un ruolo di intermediario per il rilascio del professionista", così in DOC. 1890.1.
(65) Cfr. la querela contro il dr. Pietro Marrapodi sporta dal magistrato Giovanni Montera in data 7 ottobre 1994 al Procuratore della Repubblica di Messina, in DOC. 218,p. 7 ss.
(66) Il Montera sottoliena di aver realizzato la costruzione della casa in Gambarie "previo rislascio di regolare licenza edilizia e di regolare nulla osta, con il rispetto dei tempi fissati nel contratto con il Comune alienante a pena di condizione risolutiva (non vorrei presumere, ma ritengo che io e mio cognato Aldo Gerardis siamo stati gli unici a "rispettare" la condizione"), in DOC 218, cit., pagg. 13-14.
(67) Il riferimento del Gip è alle dichiarazioni del Marrapodi verbalizzate il 2 giugno 1995 (cfr. Decreto, cit., p. 27).
(68) Malara Stefano, cognato del Musolino, risulta tra gli intestatari di azioni della Banca Popolare di Reggio Calabria. Altri riferimenti ai Malara sono stati fatti esaminando taluni aspetti del procedimento di prevenzione patrimoniale a carico del Musolino.
(69) Cfr. Dia Catania - gruppo di lavoro proc.pen.155/95 DDA Messina, in DOC 1853.
(70) Il decreto ora citato ha disposto l'archiviazione degli atti relativi al magistrato Montera non solo in relazione al Musolino, ma anche a vari altri fatti, che il giudice per le indagini preliminari di Messina raggruppa in un lungo indice iniziale.
Essi hanno riguardato: a) l'appalto per l'installazione e la gestione delle apparecchiature di sicurezza del Palazzo di giustizia di Reggio Calabria; b) i rapporti tra il magistrato e D'Agostino Antonio; [c) i rapporti con Musolino Rocco]; d) rapporti di frequentazione del dr. Montera con i fratelli Zappalà; e) sollecitazioni del dr. Montera rivolte al colonnello Sicari per la regolarizzazione di un cavalcavia a Bova Marina; f) coinvolgimento finanziario della famiglia Montera in imprese, cui erano interessati personaggi legati ad ambienti criminali; g) lettera di stima che il dr. Montera avrebbe preteso dal Marrapodi per recuperare il prestigio e la reputazione aggrediti dalle accuse del notaio.
Il GIP si sofferma, tra l'altro, sul rapporto Montera - D'Agostino, innanzi tutto per rilevare che il notaio Marrapodi riteneva quest'ultimo una "figura centrale di numerosi intrecci affaristici, massone e legato ai "servizi deviati", e per evidenziare che il D'Agostino risultava pregiudicato per vari reati (furto, assegni a vuoto, falso sequestro di persona e calunnia), indagato per l'articolo 416 bis c.p., titolare di numerose società esercenti varie attività.
Tuttavia, delle confutazioni dello stesso Montera non è dato trovare analitica menzione nella motivazione del decreto, dove si legge che dalle indagini esperite dalla DIA "non erano emersi rapporti di frequentazione tra l'imprenditore e il magistrato, aventi risvolti di rilevanza penale ...".
Quanto ai fratelli Zappalà (punto d), indicati da varie fonti1 quali uomini d'onore, che il notaio Marrapodi aveva riferito, e la motivazione lo ricorda, che la famiglia Montera aveva acquistato più di una unità immobiliare, nel villaggio Costa dei Saraceni, da essi realizzato. E a prezzi definiti dallo stesso Montera "vantaggiosissimi".
Il GIP sottolinea che anche queste affermazioni del notaio avevano trovato riscontro nelle indagini: essendo risultato che la moglie e la figlia del magistrato Montera avevano acquistato due mini appartamenti presso il villaggio realizzato dai fratelli Zappalà e che il magistrato presenziò ad un incontro tra i due finalizzato ad appianare contrasti economici insorti tra loro.
Ma i rapporti tra il dr. Montera e i fratelli Zappalà, secondo il GIP "assumono rilevanza nel momento in cui si ipotizza che il primo si sia interessato per la regolarizzazione amministrativa di una pratica relativa al cavalcavia, che metteva in comunicazione il villaggio Costa dei Saraceni con la spiaggia. Tale cavalcavia era stato realizzato su terreno demaniale e senza l'autorizzazione della capitaneria di porto da Zappalà Francesco, il quale per tale motivo ha subito un procedimento penale, conclusosi con l'archiviazione per amnistia in data 7 febbraio 1991".
Sul punto il GIP osserva che "nel corso dell'interrogatorio del 2 giugno 1995, il notaio Marrapodi [aveva] dichiarato che la regolarizzazione della pratica era stata possibile grazie ad un intervento del dr. Montera sul Comandante della Capitaneria di Porto, col. Sicari, ed ha precisato che egli si trovava presso i locali della Capitaneria di Porto quando pervenne la telefonata del dr. Montera che sollecitava la concessione dell'autorizzazione ...".
Ecco le conclusioni della motivazione su questo specifico episodio: "In ogni caso, ove effettivamente il dr. Montera si sia adoperato limitandosi ad una mera segnalazione della pratica, cui anch'egli era interessato quale proprietario di un appartamento acquistato nel villaggio (...), non si ravvisano estremi di reato, avendo agito quale privato, seppur con il peso della sua alta carica, ma senza strumentalizzare l'attività del proprio ufficio".
Quanto all'autorizzazione ex articolo 55 e alla concessione all'occupazione del suolo demaniale il GIP si limita ad osservare che dagli atti non risulta se esse fossero legittime...
Infine, sul "coinvolgimento finanziario della famiglia Montera in imprese, cui sarebbero interessati personaggi inquisiti dalla magistratura", è emerso, dagli accertamenti della Dia, che tra i soci della società GESAM vi erano i fratelli Cozzupoli Pietro e Domenico, Monastero Mario e Montera Valeria (figlia del dr. Giovanni Montera).
La "GRANDI ESERCIZI - SERVIZI ALBERGHI E MENSE S.R.L.", con sede in Villa San Giovanni, è iscritta al n. 174/90 del Registro delle società di Reggio Calabria ed ha ad oggetto sociale "l'acquisto, la costruzione e la gestione nei territori previsti dall'articolo 1 del T.U. delle leggi sul mezzogiorno del 6 marzo 1978, n.218, di strutture alberghiere tecnicamente organizzate, strutture sanitarie residenziali per anziani, residence ecc.". In http://www.esperianet/delaville.htm, si legge che "Il Grand Hotel De La Ville, ubicato a Villa San Giovanni, in prossimita' di Reggio Calabria, é un esclusivo e modernissimo albergo: edificato secondo criteri costruttivi all'avanguardia, sorge in posizione panoramica, proprio sulle sponde dello Stretto di Messina, dispone di 220 posti letto (...)".
In particolare dall'informativa Dia, depositata in data 24 ottobre 1995, richiamata in motivazione, il GIP evinceva che anche Montera Francesco, altro figlio del magistrato, aveva fatto parte prima del consiglio di amministrazione e poi del collegio sindacale della predetta società.
Risulta che in data 20 marzo 1993 i fratelli Cozzupoli sono stati arrestati unitamente ad altre 22 persone a seguito di ordinanza cautelare del GIP di Reggio Calabria per il reato di cui all'articolo 416 bis ed altro.
In data 23 marzo 1994 è stato arrestato anche Monastero Mario dall'AG di Siracusa per il reato associazione per delinquere.
Su questi fatti il GIP di Messina così conclude: "Il dr. Montera nella sua memoria ha più volte chiarito che il genero aveva voluto investire i suoi risparmi, acquistando quote societarie ed ha puntualizzato il ruolo e le cariche sociali dei figli e soprattutto la loro dimissione dopo le vicende giudiziarie dei soci.
In ordine a tale presunto coinvolgimento societario non si ipotizzano fatti di interesse penale. Peraltro non risulta né una partecipazione diretta del dr. Montera negli affari della società né è risultato alcun collegamento di rilievo dello stesso con i soci arrestati ex articolo 416 bis e 416 c.p.".
Tuttavia in queste conclusioni del GIP di Messina non sono presi in considerazione le circostanze evidenziate nell'informativa della DIA di Catania circa l'istruttoria per la concessione di un mutuo di 1,8 miliardi alla GESAM da parte della BNL di Reggio Calabria. Nella corrispondenza intercorsa tra la sede reggina della BNL e la speciale sezione del credito turistico della stessa banca, deputata alla concessione del mutuo (SACAT) erano state rimesse le situazioni patrimoniali dei membro del Consiglio d'amministrazione della GESAM che si erano dichiarati disposti ad offrire, a maggiore garanzia, fideiussione personale. Per quanto riguarda Montera Valeria, il funzionario della BNL di Reggio Calabria, citava testualmente: "Montera Valeria, figlia del giudice Francesco (quest'ultimo per ovvi motivi non potrà prestare fideiussione), intestataria di cespiti immobiliari del valore di circa 200 milioni (situazione patrimoniale già a Vs. mani)".
Nella stessa relazione, la Divisione investigativa antimafia di Catania ricostruendo le possidenze immobiliari dei componenti della famiglia del magistrato Montera (atti della Conservatoria RR.II.), evidenzia, quanto a Montera Valeria, la sussistenza di una sola formalità (n. 7274 del 27 giugno 1989), quella relativa all'acquisto di un'unita immobiliare facente parte del complesso residenziale "Costa dei Saraceni" sito nel comune di Bova Marina composto di due vani e accessori, del valore di lire 28 milioni. In quell'atto risultavano venditori Iannò Giovanni e Valentini Chiara, che avevano acquistato l'immobile il 19 febbraio 1987 dalla società Costa dei Saraceni S.n.c. di Panagia Santoro & C.
(71) Cfr. Nota del 14 aprile 2000 Doc. 1881.
(72) Cfr.DOC 1858.
(73) In allegato al DOC 1858.

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